09 gennaio 2018

TRE CONFERENZE DI J. DERRIDA


Saggio sull’autobiografia. Tre conferenze di Jacques Derrida

Dopo venti anni torna in libreria in una nuova edizione Memorie per Paul de Man. Saggio sull’autobiografia di Jacques Derrida, sempre pubblicato dalla benemerita casa editrice milanese Jaca Book, vero e proprio faro per la traduzione italiana delle opere del filosofo francese scomparso nel 2004.
Questo libro, in cui vengono raccolte tre conferenze tenute nel 1984 da Derrida sull’opera dell’amico Paul de Man e sul rapporto tra autobiografia e finzione, e un’ultima di qualche anno successiva che si concentra sulle polemiche sorte quando si apprese che de Man tenne una rubrica letteraria in un giornale belga favorevole all’occupazione nazista, riveste un’importanza particolare nell’opera di Derrida, in primo luogo per lo stretto rapporto di amicizia che intercorse tra i due filosofi.
Come brillantemente nota Silvano Petrosino nella sua prefazione, in questo testo si rintraccia un certo modo di intendere e praticare la riflessione filosofica: all’interno delle complesse questioni sollevate da Derrida, afferenti ai campi della filosofia come della critica letteraria o della psicoanalisi, non mancano mai gli appelli all’amicizia e alla memoria di de Man, come per soddisfare un’esigenza, quella di rendere testimonianza dell’amico scomparso: «Dopo la morte di Paul de Man, il 21 dicembre, la necessità mi si parò davanti agli occhi: non ce l’avrei fatta a preparare queste conferenze, non ne avrei la forza o il desiderio, se non avessi fatto in modo che esse lasciassero o rendessero la parola all’amico scomparso, o almeno, essendo ciò impossibile, all’amicizia, all’unica, incomparabile amicizia che fu per me, grazie a lui. Non avrei potuto parlare che in memoria di lui».
Il primo capitolo del libro, l’omaggio pronunciato da Derrida a Yale in occasione di una cerimonia dedicata a De Man, ed intitolato, emblematicamente, In memoriam: dell’anima, si muove tutto su questa linea e, nel giro di poche pagine riesce mirabilmente a disegnare non solo un ritratto, insufficiente per sua natura, dell’amico scomparso, ma anche a trasmettere in maniera chiara e decisa, seppur semplificata, il proprio pensiero su morte, memoria e amicizia. Queste pagine, che commuovono per il loro trasporto, esempio del pathos continuo che scorre in questo libro, così come definito giustamente da Petrosino, iniziano con una scusa di Derrida nei confronti del suo uditorio perché parlerà nella sua lingua, il francese, «la sola che abbia parlato con Paul de Man», prima di aprire uno squarcio nella lingua che appare, in maniera decisa, come l’unica possibile cosa da dire in situazioni come quella (si perdonerà, a favore della bellezza di queste parole, la lunghezza della citazione: «Se abbiamo, come si dice in francese, la morte nel cuore (la mort dans l’âme), significa che siamo ormai destinati a parlare di Paul de Man al posto di parlargli, destinati a parlare del maestro e dell’amico che egli resta per molti di noi, mentre il desiderio più vivo, e quello più crudelmente ferito, ormai il più interrotto, sarebbe quello di parlare ancora a Paul, di ascoltarlo e di rispondergli. Non soltanto dentro di noi, come continueremo com continuerò a fare senza sosta, ma di parlargli e ascoltarlo mentre ci parla lui, proprio lui. Ecco l’impossibile, e questa ferita non possiamo nemmeno misurarla».
Memorie per Paul de Man è inoltre un libro in cui Derrida porta avanti l’analisi del pensiero di alcuni autori (tra gli altri, oltre ovviamente a de Man, si incontrano con insistenza Rousseau, Hegel, Schlegel, Nietzsche ed Heidegger), pur senza mai rendere distinguibile dove finisce la sua parola ed inizia la citazione dall’altro: al di là del meccanismo epistemologico derridiano, su cui certo qui non ci si soffermerà pur non ignorandone l’importanza, sembra esserci un atteggiamento più ampio ad abbracciare questa scelta, esemplificato proprio dalle stesse parole di Derrida: «Non si tratta d’altro che di leggere e di rileggere», portando rispetto di «ciò che, in ogni testo, resta eterogeneo» tenendo sempre ben in mente il rispetto delle «regole elementari della discussione (la lettura differenziata o l’ascolto dell’altro, la prova, l’argomentazione, l’analisi e la citazione».
C’è dunque anche questo aspetto, importante nella fase conclusiva dell’opera di Derrida (e ne è testimonianza un piccolo libro assai prezioso, oggi quasi introvabile ma che meriterebbe una ristampa, Il sogno di Benjamin), del rapporto con l’altro da ogni punto di vista, sia esso filosofico, letterario, religioso o politico: per fare questo è necessario, come fa Derrida con l’opera di de Man, rendere la parola a chi ci circonda, compiere un atto di responsabilità nei confronti dell’altro attraverso la parola: «Chi saprà mai ciò che facciamo quando doniamo in nome dell’altro?».
Tra le pagine di questi saggi, Derrida si concede anche a ricordi personali che vengono sempre però riportati senza alcun cedimento al pettegolezzo o al pour parler. È il caso di quando Derrida parla dell’ultima lettera ricevuta dall’amico, oramai già gravemente malato, in cui de Man manifesta «in un gesto di nobile e superiore discrezione, per consolare e risparmiare i suoi amici dall’inquietudine e dalla disperazione», una certa serenità, pur raccontando di come la morte, quando la si conosce più da vicino, «guadagni molto» e, citando l’ultimo verso di Mallarmé in Tomba di Verlaine, essa possa essere confrontata con un «ruscello poco profondo e calunniato».
Morte, amicizia, memoria e confronto con l’altro sono i punti focali di questo libro, che si conferma un testo fondamentale per capire il pensiero di Derrida che qui si mostra nudo in tutta la sua umanità e profondità.

Articolo ripreso da http://www.minimaetmoralia.it/wp/saggio-sullautobiografia-tre-conferenze-jacques-derrida/

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