13 gennaio 2018

ALFONSO GATTO SU LUIGI TENCO

Il cantautore Luigi Tenco


             La morte di Luigi Tenco chiama in causa

l' Italietta mafiosa, bolsa, stupida e spudorata.

Alfonso Gatto

 
Più o meno in ritardo sull'avvenimento, sono giunte alla rivista e a me stesso, quale autore di questa rubrica, molte lettere sul caso Tenco. Per rispondere, ho scelto, fra tutte le altre, questa breve e intensa lettera di Lelio Schiavone, Antonio Castaldi e Bruno Fontana che così scrivono da Salerno: "La morte di Luigi Tenco ci ha profondamente turbati. Era uno dei pochi cantanti italiani non stupidi: uno insomma che aveva qualcosa da dire. Ha commesso l'errore di sprecare la sua intelligenza e la sua tenerezza, partecipando alla fiera turistico-commerciale sanremese. Come ha potuto non capire che lì non c'era posto per lui, che le sue ragioni erano altrove, non in quella giungla? Nessuno di tutti quegli amici, che dopo la sua morte sono sorti come funghi, ha saputo vegliare al suo fianco. Nell'ora in cui era il giovane più triste della terra, Tenco era anche il più solo. Dio mio, il clima di questa Italietta mafiosa, bolsa, stupida, spudorata, odiosa, diventa sempre più irrespirabile. Cosa ne dice il poeta Gatto, vostro collaboratore?".
 
Il poeta Alfonso Gatto
Rispondo. Più e più volte nella mia vita mi è toccato di vedere con i miei occhi grandi fatti della cronaca che sembravano fermare questa "Italietta mafiosa, bolsa, stupida, spudorata" nell'umana considerazione del dolore, nel ripensamento della miseria e della condizione dell'uomo. Più e più volte mi son dovuto convincere che ben presto, dopo il giubilo della retorica comune, i morti erano dimenticati e i vivi si davano pace. Così fu per il delitto di via San Gregorio a Milano: sepolte le vittime, sepolta nell'ergastolo Caterina Fort, dopo qualche anno, quotidiani e settimanali spedirono inviati alle nuove nozze del Ricciardi, marito e padre delle vittime e amante impunito dell'omicida. Così fu per i bambini di Albenga, ai quali tutti, in una memorabile giornata di pianto, promettemmo almeno l'ansia di ottenere giustizia a nome loro per ogni fatto compiuto in nome della "fatalità" e dell'"errore". Così fu per il giovane di Terrazzano che da solo, per le indecisioni delle autorità preposte all'ordine, raggiunse l'aula dove i due fratelli Santato tenevano in ostaggio i bambini, riuscendo a liberarli e avendo per premio, nell'aprir le porte, il piombo concorde della polizia e la versione ufficiale dei giornali, comandati a spacciar menzogna. Solo dopo, a cose fatte, la magistratura ebbe modo di far conoscere e riconoscere la verità ch'era stata nel cuore e negli occhi di tutti i presenti (anche dei giornalisti illustri pagati per mentire).
Così fu per la protesta di Cannarozzo: un atto, il suo, di così umana disperazione che sembrò fermare la vita e proporci, nell'umana pietà per le vittime e per l'attentatore che da sé solo si giustiziò con la morte, quale e quanta era la nostra colpa comune nel lasciare inascoltata la voce dei buoni che hanno (e possono perdere) la pazienza di sopportare sino all'ultimo il bisogno di una casa o del pane per i figli. Tutti questi avvenimenti, cessato l'allarme, caddero e continuano a cadere nel vuoto. L'Italia ufficiale e privata continua a consolarsi con la filosofia del "chi ha avuto ha avuto ha avuto" e del "chi ha dato ha dato ha dato". I lupi e gli agnelli ascoltano insieme le stesse canzoni di Sanremo ove la protesta della "linea verde" cerca di avvicinare nella comune allegria della "rivoluzione ch'è per sempre finita" le speranze di chi paga sessantamila lire per un posto di platea al festival e di chi rimane alle porte e ai teleschermi a applaudire il vincitore.
Luigi Tenco, con la sua morte, non s'è visto nemmeno riconoscere la ragione che l'ha portato a dichiarare il suo amore alla vita nel momento stesso in cui aveva deciso di togliersela. È questo il "suo" testamento che tutti hanno cercato di dimenticare, nell'addurre a stanchezza, a delusione, a fragilità, il suo atto consapevole di amare la vita e di rifiutare una qualunque esistenza, che sia solo l'affronto del lasciarsi vivere, del ridursi a "oggetto" del potere altrui.
Non è un messaggio "intellettuale", anche se Tenco, per intelligenza, per sensibilità, per cultura, apparteneva alla famiglia dei poeti che sanno il valore, il peso, la responsabilità delle parole e di esse vivono e cercano di vivere in un rapporto di conoscenza e di amore con gli altri uomini, per un tentativo d'essere la vita e di chiederle la conferma dei suoi valori. Il messaggio che Tenco ci ha lasciato con la sua morte è un messaggio fisico che c'investe col chiederci se sappiamo pagare di persona le nostre scelte, se riusciamo a patire sulla pelle la sferza degli organizzatori (dai più alti ai più bassi) che continuano ad organizzare feste, festini e cattivo tempo in nome di una "pacificazione" parafranchista che pareggia vittime e vincitori, lutti e allegria.
La commossa lettera degli amici di Salerno ben riconosce che "nell'ora in cui il giovane era più triste, Tenco era anche il più solo". Questa tristezza e questa solitudine sono nell'animo di tutti i giovani che lottano, e spesso sentono di lottare invano, che non vogliono arrendersi a strumentare il proprio essere in nome dell'"avere", che resistono a durare e a vivere per le proprie idee, per una media di comune intelligenza, di igiene comune, di solidarietà operante, che li salvi dalla remissione al fatto compiuto. Il "fatto compiuto", che ci fa piangere per una giornata di giubilo commemorativo, ci restituisce poi agli errori, alle viltà, alle rinunce, all'ordinata amministrazione dell'oblio per le vittime e all'accanimento, all'odio, alla solitudine per chi resiste, per chi lotta sino all'ultimo e sarà egli stesso vittima un'altra volta.
Caro, caro Tenco: non lo diremo mai povero, nemmeno col nostro affetto, nemmeno col nostro rimpianto. Poveri e squallidi sono soltanto i suoi mancati amici, i mancati ascoltatori che non hanno creduto a lui e alle sue timide, ma chiare parole di poeta, che non lo hanno difeso dall'ironia di quegli occhi ebeti e sornioni che dalla platea lo fissavano come un pazzo sovvertitore stretto alle sue mani, affidato per l'ultima volta alla sua voce, come a dirgli: "Perché stai qui, e non con i poeti delle poesie illeggibili, perché sei qui e non sulle barricate di tanti anni fa?".
Le barricate possono tornare sempre di moda, anche se i parolieri di Sanremo e d'altre sedi vacanti per distrazione ci assicurano di no. Quanto ai poeti, almeno a nome mio che sono uno tra loro, posso dirvi che la morte di Tenco non è un fatto compiuto, ma un fatto da aprire ogni giorno come un atto d'accusa contro i "soliti ignoti" che sono al potere dell'acclamata viltà nazionale.
Da "Vie nuove", 1967.

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