Il cantautore Luigi Tenco
La morte di Luigi Tenco chiama in causa
l' Italietta mafiosa, bolsa, stupida e spudorata.
Alfonso Gatto
Più o meno in ritardo
sull'avvenimento, sono giunte alla rivista e a me stesso, quale
autore di questa rubrica, molte lettere sul caso Tenco. Per
rispondere, ho scelto, fra tutte le altre, questa breve e intensa
lettera di Lelio Schiavone, Antonio Castaldi e Bruno Fontana che così
scrivono da Salerno: "La morte di Luigi Tenco ci ha
profondamente turbati. Era uno dei pochi cantanti italiani non
stupidi: uno insomma che aveva qualcosa da dire. Ha commesso l'errore
di sprecare la sua intelligenza e la sua tenerezza, partecipando alla
fiera turistico-commerciale sanremese. Come ha potuto non capire che
lì non c'era posto per lui, che le sue ragioni erano altrove, non in
quella giungla? Nessuno di tutti quegli amici, che dopo la sua morte
sono sorti come funghi, ha saputo vegliare al suo fianco. Nell'ora in
cui era il giovane più triste della terra, Tenco era anche il più
solo. Dio mio, il clima di questa Italietta mafiosa, bolsa, stupida,
spudorata, odiosa, diventa sempre più irrespirabile. Cosa ne dice il
poeta Gatto, vostro collaboratore?".
Il poeta Alfonso Gatto |
Rispondo. Più e più
volte nella mia vita mi è toccato di vedere con i miei occhi grandi
fatti della cronaca che sembravano fermare questa "Italietta
mafiosa, bolsa, stupida, spudorata" nell'umana considerazione
del dolore, nel ripensamento della miseria e della condizione
dell'uomo. Più e più volte mi son dovuto convincere che ben presto,
dopo il giubilo della retorica comune, i morti erano dimenticati e i
vivi si davano pace. Così fu per il delitto di via San Gregorio a
Milano: sepolte le vittime, sepolta nell'ergastolo Caterina Fort,
dopo qualche anno, quotidiani e settimanali spedirono inviati alle
nuove nozze del Ricciardi, marito e padre delle vittime e amante
impunito dell'omicida. Così fu per i bambini di Albenga, ai quali
tutti, in una memorabile giornata di pianto, promettemmo almeno
l'ansia di ottenere giustizia a nome loro per ogni fatto compiuto in
nome della "fatalità" e dell'"errore". Così fu
per il giovane di Terrazzano che da solo, per le indecisioni delle
autorità preposte all'ordine, raggiunse l'aula dove i due fratelli
Santato tenevano in ostaggio i bambini, riuscendo a liberarli e
avendo per premio, nell'aprir le porte, il piombo concorde della
polizia e la versione ufficiale dei giornali, comandati a spacciar
menzogna. Solo dopo, a cose fatte, la magistratura ebbe modo di far
conoscere e riconoscere la verità ch'era stata nel cuore e negli
occhi di tutti i presenti (anche dei giornalisti illustri pagati per
mentire).
Così fu per la protesta
di Cannarozzo: un atto, il suo, di così umana disperazione che
sembrò fermare la vita e proporci, nell'umana pietà per le vittime
e per l'attentatore che da sé solo si giustiziò con la morte, quale
e quanta era la nostra colpa comune nel lasciare inascoltata la voce
dei buoni che hanno (e possono perdere) la pazienza di sopportare
sino all'ultimo il bisogno di una casa o del pane per i figli. Tutti
questi avvenimenti, cessato l'allarme, caddero e continuano a cadere
nel vuoto. L'Italia ufficiale e privata continua a consolarsi con la
filosofia del "chi ha avuto ha avuto ha avuto" e del "chi
ha dato ha dato ha dato". I lupi e gli agnelli ascoltano insieme
le stesse canzoni di Sanremo ove la protesta della "linea verde"
cerca di avvicinare nella comune allegria della "rivoluzione
ch'è per sempre finita" le speranze di chi paga sessantamila
lire per un posto di platea al festival e di chi rimane alle porte e
ai teleschermi a applaudire il vincitore.
Luigi Tenco, con la sua
morte, non s'è visto nemmeno riconoscere la ragione che l'ha portato
a dichiarare il suo amore alla vita nel momento stesso in cui aveva
deciso di togliersela. È questo il "suo" testamento che
tutti hanno cercato di dimenticare, nell'addurre a stanchezza, a
delusione, a fragilità, il suo atto consapevole di amare la vita e
di rifiutare una qualunque esistenza, che sia solo l'affronto del
lasciarsi vivere, del ridursi a "oggetto" del potere
altrui.
Non è un messaggio
"intellettuale", anche se Tenco, per intelligenza, per
sensibilità, per cultura, apparteneva alla famiglia dei poeti che
sanno il valore, il peso, la responsabilità delle parole e di esse
vivono e cercano di vivere in un rapporto di conoscenza e di amore
con gli altri uomini, per un tentativo d'essere la vita e di
chiederle la conferma dei suoi valori. Il messaggio che Tenco ci ha
lasciato con la sua morte è un messaggio fisico che c'investe col
chiederci se sappiamo pagare di persona le nostre scelte, se
riusciamo a patire sulla pelle la sferza degli organizzatori (dai più
alti ai più bassi) che continuano ad organizzare feste, festini e
cattivo tempo in nome di una "pacificazione" parafranchista
che pareggia vittime e vincitori, lutti e allegria.
La commossa lettera degli
amici di Salerno ben riconosce che "nell'ora in cui il giovane
era più triste, Tenco era anche il più solo". Questa tristezza
e questa solitudine sono nell'animo di tutti i giovani che lottano, e
spesso sentono di lottare invano, che non vogliono arrendersi a
strumentare il proprio essere in nome dell'"avere", che
resistono a durare e a vivere per le proprie idee, per una media di
comune intelligenza, di igiene comune, di solidarietà operante, che
li salvi dalla remissione al fatto compiuto. Il "fatto
compiuto", che ci fa piangere per una giornata di giubilo
commemorativo, ci restituisce poi agli errori, alle viltà, alle
rinunce, all'ordinata amministrazione dell'oblio per le vittime e
all'accanimento, all'odio, alla solitudine per chi resiste, per chi
lotta sino all'ultimo e sarà egli stesso vittima un'altra volta.
Caro, caro Tenco: non lo
diremo mai povero, nemmeno col nostro affetto, nemmeno col nostro
rimpianto. Poveri e squallidi sono soltanto i suoi mancati amici, i
mancati ascoltatori che non hanno creduto a lui e alle sue timide, ma
chiare parole di poeta, che non lo hanno difeso dall'ironia di quegli
occhi ebeti e sornioni che dalla platea lo fissavano come un pazzo
sovvertitore stretto alle sue mani, affidato per l'ultima volta alla
sua voce, come a dirgli: "Perché stai qui, e non con i poeti
delle poesie illeggibili, perché sei qui e non sulle barricate di
tanti anni fa?".
Le barricate possono
tornare sempre di moda, anche se i parolieri di Sanremo e d'altre
sedi vacanti per distrazione ci assicurano di no. Quanto ai poeti,
almeno a nome mio che sono uno tra loro, posso dirvi che la morte di
Tenco non è un fatto compiuto, ma un fatto da aprire ogni giorno
come un atto d'accusa contro i "soliti ignoti" che sono al
potere dell'acclamata viltà nazionale.
Da "Vie nuove",
1967.
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