Immigrati, creoli ed
ex-schiavi dell'Africa, nasce nella marginalità uno dei balli più
sensuali. Musica, canto, ballo, in ogni parte del mondo le sue
espressioni raccontano una storia più lunga.
Alessandra Pigliaru
Tango, camminare
insieme in un abbraccio
«I milioni d’immigrati
che si sono riversati su questo Paese in meno di cent’anni non solo
generano i due attributi del nuovo argentino, il risentimento e la
tristezza, ma preparano anche l’avvento del fenomeno più originale
della zona del Plata: il tango». In queste poche parole di Ernesto
Sábato, preparate per la prefazione al volume di Horacio Salas, El
Tango (1986), vi sono alcuni elementi utili per capire da dove
venga quel segno culturale, sociale e popolare incarnato dal tango –
ballo, musica e canto.
A QUALSIASI LATITUDINE lo
si incontri infatti, il suo costante presentarsi nella storia con un
successo senza pari gli ha conferito il carattere di luogo simbolico
immortale. Le parole di Sábato (che nel 1963 scrive l’ormai
classico Tango, discusión y clave) descrivono brevemente le
origini meticce del fenomeno che a partire dal XIX secolo, tra Buenos
Aires e Montevideo, vede immigrati, creoli ed ex-schiavi dell’Africa
approdare nelle città argentine. Sono «minuti artigiani della
notte», come li chiama Davide Sparti in un libro prezioso e
complesso del 2015 (Sul tango. L’improvvisazione intima) e
contribuiscono a formare una narrazione mobile e imprendibile,
conflitti sociali e trasformazioni in atto (sulle tangenze politiche
da segnalare invece un volume di Dimitri Papanikas, La morte del
tango, edito quattro anni fa).
In una estrema indigenza
trova origine ciò che oggi comunemente viene chiamato tango, che è
sì «allegoria dell’unione» ma anche quella «vertigine del
tocco», come suggerisce il nome, in cui si sorprendono tanti
fantasmi al lavoro. A partire dalle creature che popolano le milonghe
di tutte le parti del mondo, dalla Finlandia al Giappone, grandi
metropoli e sagre di provincia. Questa invasione, dotata di una
convivialità gentile che segue il respiro graffiante e caldo
del bandoneón, appartiene a una pratica sociale inarginabile,
al contempo sonnambulismo dei sensi che pure si cercano senza sosta.
Incantando di felicità chi almeno una volta ha varcato la soglia di
una sala dove si balla il tango. La stratificazione storica, politica
e anche geografica del tango attiene allora a un approfondimento che
negli anni molta letteratura ha descritto.
Oltre al più noto
Borges, Meri Lao e moltissimi altri , sarà utile un volume recente
che proprio da quella origine sempre spostata racconta. Tango.
Storia e corpi di una cultura migrante di Francesca Auteri
(Villaggio Maori edizioni, pp. 166, euro 15, prefazione di Fernando
Gioviale) si innerva tra remembranza e olvido per suggerire una
possibile lettura trasversale tra le parole dei cantores,
scandite nelle fasi che coprono l’arco lungo di più di un secolo.
Tra la Vieja
Guardia (1900-1920) facendo emergere i temi centrali dei primi
testi per scoprire l’abbandono della terra natia, che è sempre
querida, all’amore sfortunato per una donna, ricordo e dimenticanza
si espandono e diventano passaggi decisivi anche nella fase
della Nueva Guardia (1920-1940) che deflagra di malinconia
per il ritorno e a cui – nel 1934 – Carlos Gardel dedica
l’intramontabile Volver.
Auteri offre una lettura
piuttosto interlineare della questione, nelle ricorrenze e nei
principali autori e parolieri, da Enrique Santos Discépolo a Luis
César Amadori ed Eduardo Moreno, solo per citarne alcuni. E se José
María Contursi segna La Época de oro (fino alla fine
degli anni ‘50), è Juan Pablo Marín (autore di testi e musica,
basta pensare a quel capolavoro dello struggimento che è Fueron
tres años del 1956) a restituire la cifra del periodo cosiddetto
«moderno» in cui – fino agli anni ’80 – vi è la frenata
argentina di luoghi di ritrovo per ballare.
DOPO QUESTO PERIODO,
seppure vergato da trasformazioni che già le canzoni di Gardel
avvertono come spartiacque, quella narrazione culturale si affolla.
Ne dà conto, con una notevole ricognizione delle fonti, dei pionieri
e dei protagonisti, il volume di Sabatino Alfonso
Annecchiarico, Tango Tano. I migranti italiani nel tango
argentino (Mimesis, pp. 236, euro 20), illuminando la
composizione del flusso migratorio e affondando le radici proprio in
Italia. È tuttavia già negli anni Settanta – in particolare per
merito di Astor Piazzolla, «il rivoluzionario che fece ruzzolare la
luna per Callao» – che si celebra il passaggio esplicito alla
libertà. La diffusione è già inarrestabile, da tempo. L’Europa,
come il resto del mondo, conoscono oggi ciò che forse non era più
nelle intenzioni delle origini, sempre e per fortuna impure, ma che
mette in scena qualcosa che al fondo resta lo stesso. Camminare
insieme in un abbraccio, diverso da qualsiasi altro si sia creduto di
aver conosciuto fino a quel momento, non importa se tra uomini e
donne o appartenenti allo stesso sesso.
Allora cos’è che
svetta nella storia così diversa in cui si è radicato? Cosa accade
precisamente quando i due corpi dei ballerini si avvicinano? E
soprattutto chi sono e di cosa devono dotarsi oltre al piacere di
danzare? In un esperimento didattico importante lo racconta Bruna
Zarini che, facendo seguito a una specifica richiesta, comincia –
ormai molti anni fa – nella sua scuola bolognese il Tango al
buio (come recita anche il titolo del libro, pubblicato per
iacobellieditore, pp. 108, euro 12.90).
SI TRATTA DI CORSI
laboratoriali per non vedenti (ideati insieme all’amica Gaby Mann).
Squadernando così uno dei capisaldi della pratica che si deve
rispettare in una milonga, mirada e cabeceo. L’oscurità richiamata
nel titolo non è però la condizione di deprivazione della vista,
per immedesimarsi nell’altro, Zarini propone di ballare al buio
così che, vedenti e non, abbiano un terreno comune su cui
confrontarsi.
Quanto sia cruciale «il
vedere» nel tango lo spiega bene chi spesso lo affronta a occhi
chiusi. Una coppia di ballerini di cui uno o entrambi chiudono gli
occhi, significa affidamento al sentire, totale abbandono all’altro,
sviluppo di altri canali che non siano quelli tradizionali della
vigilanza dell’io. In questa direzione, ciò che ha reso efficace
il lavoro di Bruna Zarini è stato comprendere che il tango può
essere davvero il procedere insieme a cuore aperto, facendo delle
proprie vulnerabilità una forza, perché sono i corpi a non essere
mai ciechi quando esercitati all’empatia. Lasciando da parte il
territorio spesso agonistico o inarrivabile delle esibizioni, chi
balla il tango lo fa per sporgersi verso una prossimità e rendere
conto di un saper trattenere e farsi trattenere.
PARTENDO da questo
presupposto, non solo la vista risulta un senso secondario; quando si
incontra qualcuno con cui si balla bene ci sono cose di cui si tace,
è un’esorbitanza della cura di sé nei tre minuti di una canzone,
o moltiplicati nella grazia di una tanda (nel caso ci si trovi in una
milonga), riuscire ad allestire campi sterminati di desiderio nei
confronti di chi si accoglie tra le braccia, alchimia gratuita dello
stare in presenza, facendo circolare passioni sottili e altrettanto
volatili. Accogliere tutto e, alla fine, lasciarlo andare, evaporare.
Con gratitudine.
Ecco una delle ragioni che rende questa esperienza diversa da quella di qualsiasi altro ballo: sapere che se la nostra strada terrestre va percorsa spesso in solitudine, partire dall’almeno due risulta più interessante. Padroni ciascuno e ciascuna della propria differenza sessuale, perciò in libertà. Fosse solo nel gioco di pochi e imperfetti istanti, camminando stringendosi in un abbraccio che rende più sopportabile la fatica del mondo e delle relazioni che lo abitano, spostandone il peso. In fondo è solo un breve filo di felicità che balugina in una notte qualsiasi, eppure ha la potenza carsica di muovere interi popoli. E lo fa da più di un secolo.
Il manifesto – 21
dicembre 2017
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