Rosso
pompeiano, rubrica d’arte di Raffaella Terribile
Un
Mondo dietro la Maschera. Amleto e Donato Sartori
di RAFFAELLA TERRIBILE
di RAFFAELLA TERRIBILE
All’inizio del Novecento Picasso aveva
compreso che la maschera africana non è un elemento carnevalesco, ma
qualcosa di intimamente legato alla vita e alla morte, portatore al
tempo stesso, di valenze estetiche proprie. «È un oggetto» dice
l’architetto Paola Piizzi, moglie di Donato Sartori e anima del Museo
internazionale della maschera di Abano Terme, «carico di potenza
sovrannaturale, simulacro del divino in grado di proteggere chi lo
possiede da influssi maligni». Siamo a pochi chilometri da Venezia, nota
in tutto il mondo per le maschere vendute ai turisti in occasione del
Carnevale. Adesso ci sono anche quelle tribali, stese su lenzuoli
polverosi dagli ambulanti africani. Ma quelle dei Sartori hanno
un’anima. Antica e modernissima. Un’anima che è il risultato
dell’impegno di due vite spese per affrancarle dal luogo comune che le
vuole puro e semplice ornamento carnevalesco rivendicando loro lo status
di forma d’arte. Arte per tutto il corpo. Dietro la maschera c’è un
mondo, un’arte complessa, la passione di chi la costruisce partendo dal
desiderio di trasmettere emozioni. E una storia lunghissima, che dalle
antiche Atellane romane arriva al Rinascimento. Non a caso Dario Fo ha
detto così a proposito dei Sartori: «I Sartori padre e figlio sono due
personaggi cavati di netto dal Rinascimento. Come i Carracci, i
Veneziano, i Pisano. Quasi sempre padre e figlio, che si scambiano il
testimone e che sembrano la reincarnazione uno dell’altro. Fabbricano
maschere, ma potrebbero issare ponti, costruire navi, palazzi o tingere e
tessere arazzi». Il museo e polo culturale di Abano Terme, che celebra
le creazioni di Amleto e Donato Sartori, venne inaugurato nel 2005
proprio da Dario Fo (rimasto fino alla fine affezionatissimo a questa
istituzione culturale e ai suoi animatori) e il museo non solo documenta
sotto ogni profilo la maschera (da quello antropologico, etnografico e
teatrale, esponendo pezzi pregiati che i Sartori hanno raccolto in varie
parti del mondo), ma è volano di tante attività culturali, rivolte alla
valorizzazione di questo oggetto d’arte dalle origini antichissime e
misteriose.
Si inizia da Amleto Sartori, scultore
figurativo (1915-1962) stregato dallo studio dell’anatomia umana e dal
fascino magnetico della maschera fin da ragazzino: risalgono al 1928,
appena tredicenne, le sue prime creazioni, maschere di espressione
grottesca che oggi stupiscono per la loro attualità. E’ da allora che
prende le mosse una lunga sperimentazione e uno studio appassionato
sulle maschere della Commedia dell’arte e sulle tecniche di costruzione
antiche, quelle della maschera in cuoio. Da lì il ritorno della maschera
dopo due secoli di oblio e la riscoperta del teatro di Ruzante accanto a
Zorzi, De Bosio e il Teatro dell’Università di Padova. All’epoca la
maschera era un’illustre sconosciuta, relegata ai ricordi scolastici
delle opere del teatro antico, un orpello obsoleto del tutto estraneo al
teatro borghese di concezione moderna. Tuttavia da più parti si sentiva
l’esigenza di un nuovo teatro e di un nuovo tipo di maschera, ma senza
ricorrere all’archeologia del passato. Così Jacques Copeau,
attore-regista fondatore del teatro de Vieux Colombier di Parigi e della
relativa scuola, influenzato dalle maschere del Teatro Nō giapponese,
tentò di costruire una maschera intera a uso esclusivamente didattico
che chiamò masque noble o maschera della calma, utile a
neutralizzare l’espressione dal volto degli attori costringendoli così a
comunicare drammaturgicamente attraverso il solo movimento del corpo,
cioè usando la mimica al posto della parola. L’esperimento al momento
non funzionò ma servì a “rimettere in gioco” in maniera problematica la
maschera nel tessuto teatrale moderno e Jacques Lecoq, allora insegnante
di movimento teatrale presso la scuola E.P.J.D. – Education Par le Jeu
Dramatique diretta da Jean Louis Barrault a Parigi, incontrando il
regista Gianfranco De Bosio, direttore del nascente teatro
dell’università di Padova, condivise con quest’ultimo l’interesse per il
tema dell’uso del corpo e della maschera, collaborando alle attività
seminariali e laboratoriali del teatro dell’Università di Padova, in un
periodo in cui ancora non esistevano maschere teatrali, né una cultura
teatrale attorno a questo dimenticato strumento di comunicazione. Fu
allora che De Bosio presentò Lecoq ad Amleto Sartori, all’epoca
insegnante di maschere e di storia dell’arte presso il teatro
universitario: fu la scintilla che provocò il grande ritorno della
maschera teatrale nel teatro moderno. Lecoq comunicò a Sartori l’idea
della maschera che doveva cancellare (neutralizzare) l’espressione del
volto dell’attore e Amleto, da scultore eclettico qual era, inventò la
maschera che da questo momento prese il nome di maschera neutra, portata
in tutto il mondo dal binomio Strehler-Grassi con il Piccolo di Milano.
Pittore, poeta, scultore, Amleto Sartori
è una figura eclettica, in grado di esprimersi con mezzi diversi,
capace di assorbire in sé l’arte di cui non era mai sazio: Donatello e
Michelangelo i suoi modelli, osservati fino a coglierne il più piccolo
dettaglio, ma anche l’intagliatore francese che guardava lavorare quando
era bambino. E capace di farla propria, poi, quell’arte, di
trasformarla nel segno di una personalità dominante, impetuosa, anche
coraggiosa: il suo “Ercole e Anteo” è, in tal senso, esemplare perché
mai nessuno aveva letteralmente rovesciato il mito, ponendo Anteo nella
lotta finale alle spalle di Ercole, e non di fronte.
Frequentava il teatro anatomico
dell’Ateneo Patavino per assistere alle autopsie e riuscire a rendere
l’anatomia del corpo umano in maniera perfetta, al punto che medici e
studiosi gli chiedevano di disegnare tavole per rappresentare muscoli,
tendini, ossa. Anatomia che non è esercizio fine a se stesso o eccesso
di scrupolo, ma eleganza assoluta nell’ “Arlecchino” del 1961, un po’ la
summa dei due volti artistici di Sartori (la maschera e la scultura):
fermato nel gesto leggero del salto ha in sé perfezione, grazia,
astuzia, e sembra poter prendere vita in un istante.
Nella sua carriera, troppo breve, si
cimenta con generi, temi, tecniche diverse: dai ritratti, in bronzo,
marmo, pietra e legno, alla scultura eroica e mitologica e allegorica
con bassorilievi, litografie, disegni, ispirati anche dalla sua passione
per la letteratura, all’arte sacra, con bassorilievi, disegni e figure a
tutto tondo. La sua attività artistica fu affiancata da quella di
insegnante presso l’istituto d’arte “P.Selvatico” di Padova, dove
trasmise ai suoi studenti la passione per l’arte e la scultura.
Alla sua morte prematura, a soli 46
anni, il testimone fu raccolto dal figlio Donato e il laboratorio da lui
costituito in seguito è diventato luogo di incontro di registi come
Barrault, Strehler, Eduardo De Filippo, Lecoq, Dario Fo. Furono loro a
incoraggiare Donato Sartori ad affrontare con rinnovato spirito di
ricerca opere di generi teatrali diversi, da Goldoni a Pirandello, dal
teatro classico a Shakespeare, da Molière a Ionesco, all’Odin Teatret,
fino al teatro di strada, producendo vere opere d’arte che hanno fatto
la storia della maschera contemporanea. Come nella tradizione delle
famiglie d’arte, era “andato a bottega” dal padre. In seguito aveva
respirato l’aria internazionale con l’École de Beaux-Arts di Parigi e le lezioni di Jacques Lecoq sull’ “architettura del movimento”, straordinaria formula che, ante litteram, poneva le basi di una interdisciplinarietà delle arti, racchiudendo in sé teatro, architettura, arti visive e, naturalmente, il gesto teatrale. Qui conosce Cesar (Cesare Baldaccini), membro
di uno dei movimenti artistici più rappresentativi del secolo, il
Nouveau Réalisme, corrente d’avanguardia ideata e gestita dal famoso
critico Pierre Restany che agli albori degli anni Sessanta aveva riunito attorno a sé un gruppo di giovani destinati a divenire icone dell’avanguardia artistica internazionale: oltre a Cesar, Arman, Christo, Clyne, Tinguely e altri. Il ’68 porta anche dall’America una ventata di rinnovamento non solo nell’area teatrale, ma anche delle arti, della musica, del gesto e della danza, nascono la
Body Art, la Land Art, l’Arte Povera, il teatro di guerriglia chicano, e
la politica con la socialità entrano a far parte della creatività
artistica. Piero Manzoni espone i suoi Acromi e la Merda d’artista,
il Bread and Puppet, il Living Theater di Julian Beck, l’Odin di
Danimarca guidato da Eugenio Barba, Jerzy Grotowski e Tadeus Kantor
arrivano in Italia. Donato Sartori vive il clima politico del maggio
francese e intraprende grandi viaggi per conoscere culture lontane,
avviando un confronto artistico e antropologico con il mondo della
Maschera che non lo abbandonerà mai (Giappone, India, Indonesia,
Messico, Brasile, Mozambico sono solo alcune delle tappe della sua
attività di creazione e di ricerca). Allo stesso tempo sente l’urgenza
di una relazione attiva con i fruitori del mondo dell’arte e dello
spettacolo. È sulla scorta di questo clima che nei primi anni Settanta
inizia a estendere tecniche e spirito della Maschera a tutto quello che
può catturare il suo sguardo e comincia a elaborare una nuova idea di maschera legata alle istanze politico-sociali dell’Italia post-sessantotto. Pierre Restany scrisse che Donato, superando le tecniche apprese dal padre, “ne assume altre che sanno di aria e di suono, di gesto e di sociale”, non tralasciando il ferro saldato e il “meraviglioso cuoio che ormai per lui non ha più segreti”. Nel 1975 fonda il gruppo Azionecritica, attivo in environment, happening, installazioni, azioni urbane, in contatto con le sperimentazioni sonore di Teresa Rampazzi.
Lo arrovella la necessità di creare un amalgama tra le opere esposte
all’interno di una cava dei colli Euganei e un giorno, osservando la
protezione trasparente dei filari delle viti in collina, concepisce
l’idea di avviluppare l’area in una ragnatela fluttuante che avvolge
cose e persone, suscitando la disapprovazione degli artisti, timorosi di
vedere compromessa la visibilità delle loro opere (Cavart). Ma, come la
maschera chiede all’attore di spostare il proprio centro dal volto,
emblema dell’ego, al corpo, così le ragnatele rispondono all’urgenza di
fare emergere uno spirito organico e collettivo sull’individualità.
L’esperienza ha comunque in germe i tanti Mascheramenti urbani
seguiti a partire dagli Anni Ottanta: mentre Christo incarta i
monumenti, Sartori avvolge con tessiture fluide e modificabili edifici e
piazze europee, inglobando al loro interno i fruitori, trasfigurando i
loro volti e, insieme, il volto dello spazio pubblico.
La maschera del volto, inventata da Amleto, diviene così maschera totale, impossessandosi dei corpi fino a raggiungere lo stravolgimento dello spazio e del tempo. Ai primordi della nuova era digitale, il “mascheramento urbano” si avvale delle più sofisticate tecnologie virtuali e si allinea con le ricerche contemporanee di un futuro prossimo. Contemporaneamente, grazie alle relazioni e collaborazioni che Donato raccoglie e alimenta (Jacques Lecoq, Jean-Louis Barrault, Eduardo De Filippo, Giorgio Strehler, Dario Fo), nel
giro di poco più di un decennio le maschere dei Sartori divengono
l’emblema di una tecnica ineguagliabile e di una concezione della
maschera “organica” rispetto al corpo e alla voce dell’attore. Ogni
maschera è creata per un attore preciso, con i suoi tratti fisiognomici,
deve respirare con lui; questo implica lo studio dell’anatomia in tutte
le pieghe, della meccanica e della dinamica del corpo del performer.
Nel 1979 realizza il sogno di una sorta
di Bauhaus delle arti visive, il Centro Maschere e Strutture gestuali di
Abano Terme, insieme a Paola Piizzi, architetto, amorosa sodale nell’arte e nella vita, e allo scenografo Paolo Trombetta:
qui approfondisce il patrimonio delle tecniche e lo forgia reinventando
non solo le forme, ma le poetiche della maschera con un’incessante
ricerca che non rinnega mai una strenua difesa della tradizione,
progetto completato dall’apertura nel 2005 del Museo della Maschera,
dove le maschere rinascono continuamente grazie alle attività di studio e
di sperimentazione in una serie di seminari internazionali frequentati
da artisti di tutto il mondo. Donato Sartori è stato anche protagonista
della rinascita del Carnevale di Venezia, nel 1980. «Maurizio Scaparro,
direttore della Biennale Teatro» raccontò «mi chiese di creare la
maschera di Venezia e in quell’occasione realizzammo una grande
installazione – performance in piazza San Marco che fece scalpore. La
chiamammo Ambienteazione. Quella ragnatela divertì almeno centomila
persone». Con Paola Piizzi e Paolo Trombetta ha coniato anche il
concetto di struttura gestuale: l’incontro fra la maschera e la scultura
contemporanea. Un anno e mezzo fa Donato Sartori se ne andava, all’età
di 76 anni, lasciando un Museo e una scuola frequentati da artisti
provenienti da tutto il mondo. Dario Fo, amico di sempre, così riconobbe
la maestria dei Sartori: «Di loro maschere ne ho calzate a centinaia.
Agevole mi risulta scoprire se una maschera è stata creata, scolpita e
battuta in cuoio dai Sartori o si tratta di un’imitazione. Non è per
isteria, ma vi assicuro che più di una volta m’è capitato, per
emergenza, di dover calzare una maschera fabbricata da imitatori: dopo
qualche minuto non mi riusciva di continuare nella rappresentazione. Mi
si incollava sul viso, strusciava sulle guance, mi graffiava il naso.
Soprattutto, da sotto il labbro di cuoio usciva una voce storpiata,
sibilante e, a tratti, opaca. Pochi, infatti, sanno che una maschera
d’autore è oltre tutto uno strumento acustico straordinario».
Articolo ripreso da http://www.versanteripido.it/rosso-pompeiano-rubrica-darte-di-raffaella-terribile-10/
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