Intervista sulla storia ad Alberto Tenenti
a cura di Antonio D'Orrico
PRATO — Fa freddo nella storia, dice un poeta. E uno immagina i
lutti, le devastazioni, i campi di battaglia, le deportazioni e tutto l'orrore
di cui grondano i secoli. Ma a qualcuno la storia piace calda, una stanza, un
tepore domestico, i piccoli grandi fatti d’ogni giorno, la routine quotidiana.
Cose che gli storici fino a qualche tempo fa non si sognavano nemmeno di
raccontare. Poi arrivarono le Annales, la rivista francese fondata nel 1929 da
Lucien Febvre e Marc Bloch e, in seguito, diretta da Fernand Braudel, e la
storia ebbe la sua rivoluzione, copernicana o meno, e non fu soltanto un elenco
di battaglie, la storia del soldati e dei principi regnanti, fu anche la storia
dei senza storia, degli uomini che vivevano e morivano, che mangiavano e che
avevano paura. E, a dire il vero, anche in questa storia spesso faceva freddo.
Fu anche una storia che sfuggiva ai
tempo dei calendari e si affidava all'onda lunga, al movimenti secolari,
millenari. La storia della lunga durata, come la chiamò Braudel. Non solo la
storia degli uomini ma anche la storia dello spazio dentro il quale gli uomini
si muovevano, la storia di un mare, ad esempio, il Mediterraneo al quale Braudel
dedicò alcuni dei suoi studi più lucidi, più rivoluzionari. Come è profondo il
mare sulla cui superficie si combatte la battaglia di Lepanto!
In questi giorni a Prato, città che
lo vide protagonista di svariate imprese culturali, si è tenuto un convegno per
commemorare Braudel a un anno dalla morte, un convegno che si è trovato a
coincidere con una serie di polemiche, di eterogenea provenienza e indirizzo,
che hanno per oggetto la storia. Dalle polemiche casalinghe sull'insegnamento
della storia, secondo il ministro Falcucci, alle polemiche internazionali sulla
«crisi» della storia sociale, con gli attacchi ai nipotini di Braudel In nome
del ritorno della storia politica contro l'abuso di storia quotidiana,
materiale.
Di questi argomenti abbiamo parlato
a Prato con Alberto Tenenti, storico italiano di stanza a Parigi, collaboratore
di Braudel e recente protagonista, con Jacques Le Goff (uno dei nipotini
braudeliani al centro degli attacchi), di una trasmissione televisiva dedicata
proprio alla contestata eredità dell'insegnamento braudeliano e all’attuale
fattura delle Annales sotto la direzione dello stesso Le Goff.
Nel frattempo in libreria, slamo
sotto Natale, si annuncia l’arrivo di storie private d’ogni tipo con i toni che
di solito toccano ai romanzi di facile successo.
Insomma i libri di storia, certi
libri di storia, almeno, sono gettonatissimi. Professor Tenenti, perché questo
successo?
«La risposta che sto per darle non è
una risposta che mi piace. Temo che il successo presso il grande pubblico della
storia sia dovuto al fatto che stiamo perdendo noi stessi, stiamo perdendo
quello che siamo stati, stiamo perdendo i nostri padri, i nostri nonni, le
nostre radici. Ci inoltriamo in un futuro che dominiamo sempre meno, un futuro
che anzi ci domina. Questa è una sofferenza vera per ognuno di noi, ed è una
sofferenza privata, personale».
I libri di storia alleviano questa
sofferenza?
«L’amore che c’è oggi per la storia
nasce dal desiderio di chi non vuole perdere la propria storia, e insieme dal
desiderio di specchiarsi in periodi in cui gli uomini erano membri di comunità,
di gruppi e condividevano con gli altri idee e prospettive. Il mondo
contemporaneo sta dissolvendo la profondità umana, sta cancellando le origini.
La storia è diventata importante in maniera anomala, dietro c'è qualcosa di
patologico, qualcosa che non si spiega solo con dati razionali».
I best-seller non sono la giusta
risposta alla domanda di storia?
«Secondo me è un errore assecondare
questa domanda di storia accarezzando i gusti del grande pubblico, ciò
significa soltanto soddisfare il narcisismo dello storico e il narcisismo del
lettore. Oggi molti adottano uno stile brillante e seducono il lettore
raccontandogli come si faceva l'amore una volta. Non voglio insistere su certe
traiettorie scientifiche di molti miei colleghi passati da una produzione
solida a una leggera. La storia è un organismo dinamico, quando il lettore ha
saputo come si ballava in un dato secolo volta la pagina ed è tutto finito.
Cosi facendo si soddisfa solo una curiosità».
Eppure la storia deve fare i conti
con le richieste del grande pubblico...
«La storia è un nutrimento
culturale. È un momento in cui assistiamo a un allargamento del pubblico, a un
aumento del lettori, ma non per questo la storia deve essere svenduta. Non
possiamo abbassarla a livello di un rotocalco. In questo c’è una profonda
dissociazione tra gli storici di professione e gli storici che seguono le mode.
Non bisogna lasciarsi lusingare dal numero di libri venduti, né bisogna cedere
alla voga pubblicitaria. Questo successo della storia mi ricorda l’Impero di
Alessandro Magno che durò ben poco, che si dissolse In un baleno. La storia è
una costruzione solida».
Si dice che dopo Braudel è venuto il
braudelismo, una banalizzazione del pensiero e del metodo del maestro. E,
anche, un tradimento.
«Braudel non ha mai chiesto di
essere ortodosso, non ha mai chiesto patenti di fedeltà, ha sempre cercato di
non essere dogmatico. Non si è mai considerato il detentore della formula
giusta. La situazione attuale e determinata dalla consapevolezza che la storia
non esercita alcuna egemonia sulle altre scienze sociali e umane. Questa era
un’idea, una speranza, se vuole, di Braudel. Invece non è stato cosi.
Nell’associazione di tante discipline, nella loro collaborazione la storia non
ha giocato un ruolo preponderante. Il problema attuale della storia nasce da
qui».
In che senso?
«Vede, di fronte all’impossibilità
di una funzione egemonica della storia ci sono due possibili comportamenti. Il
primo rinuncia alla pretesa egemonica della storia, semplicemente. Il secondo
consiste nell’evasione dalla storia. Siccome la storia non riesce ad avere
quella funzione di coagulo, non riesce a tenere assieme le altre scienze umane
o sociali, molti hanno preferito lasciare invadere il territorio della storia
da altri metodi, da altre discipline. Non è, a mio parere, un fenomeno
positivo. L’antropologia storica, per fare un esempio, è certo una disciplina
importante ma non si può delegare all’antropologia storica i compiti che sono
della storia. Cosi facendo si perde il filo. Per questo molti dicono che le
Annales oggi non è più una rivista storica. Non si può fare l’opposto di quanto
faceva Braudel».
L'eredità di Braudel rischia quindi
di disperdersi?
«Il conoscere storico per Braudel è
sempre stato un modo perché gli uomini si capissero di più. Braudel ha cercato
di riscoprire l’uomo al di là delle differenze, delle alterità, delle distanze.
Con Braudel siamo passati dall’uomo europeo, dall’eurocentrismo, all’uomo di
tutte le razze e di tutti i popoli. La sua era una concezione planetaria. La
storia consente scambi tra gli uomini, scambi che l’etnologia non permette».
“l'Unità”, 30 novembre 1986
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