La prima edizione del volume "L'affaire Moro (1978).
La seconda (1983) uscì nella collaba blu "La memoria"
e comprende la relazione che Leonardo Sciascia presentò
alla Commissione Parlamentare sul rapimento Moro
nella sua qualità di deputato per il Partito Radicale
Vittorio Spinazzola, che
oggi viaggia verso i 90 anni e da ultimo ha saputo uscire dal campo
minato delle recensioni e degli interventi giornalistici con qualche
buon saggio, fu – nel secolo scorso - un valido critico militante,
entrato piuttosto tardi nell'insegnamento universitario... Scrisse a
lungo di letteratura italiana per la stampa del Pci e sui temi
“politicamente sensibili” quasi mai si allontanò dalle
impostazioni prevalenti nel suo partito. Quando nel 1978 uscì per
Sellerio l'Affaire Moro di
Leonardo Sciascia, che aveva iniziato una dura polemica con il
Pci di Berlinguer proprio in occasione del rapimento dell'uomo
politico democristiano, Spinazzola
ne tentò la stroncatura. Secondo me, l'articolo, che qui posto come
esemplare di un costume diffuso tra gli intellettuali più
“organici”, è molto brutto. Fa sorridere, poi, il confronto tra
il libro di Sciascia, uno dei più importanti del suo magistero
civile, e un pamphlet di Arbasino uscito nello stesso torno di tempo,
decisamente minore. (Salvatore Lo Leggio)
Divagazioni
psicologiche e crociata antistatalista di un pamphlet scritto in
bella prosa
Vittorio Spinazzola
È indubbiamente
significativo che ad affrontare per primi il «caso Moro», ancora a
caldo, e in forma saggistica, siano stati due scrittori di ascendenza
illuminista: il settentrionale Alberto Arbasino e il siciliano
Leonardo Sciascia. Diversi però sono stati i loro metodi di lavoro;
l’uno si è orientato sul terreno della rilevazione sociologica,
l’altro ha adottato gli strumenti dello psicologismo. E divergenti
appaiono anche i risultati, che peraltro rappresentano una duplice
conferma della evoluzione da tempo in atto in entrambe queste
personalità letterarie. Il «frivolo» Arbasino accentua la sua
volontà di intervento ironico e paradossale sull’opinione pubblica
per sollecitarla ad assumere atteggiamenti di modernità laica,
basati sui culto dell’empiria fattiva; l‘«impegnato» Sciascia
inclina sempre più a prendere le distanze dalle forme organizzate di
realtà collettiva e a richiamare con aulico cipiglio i lettori alla
meditazione sulla sorte morale se non metafisica dell’individuo.
L’affaire Moro
(Sellerio, pp. 146, L. 3.500) tenta infatti di interpretare le
lettere scritte dalla vittima delle Brigate Rosse durante la
prigionia come una straziata presa di coscienza della vanità del
potere, cioè delle cose mondane, in nome dei valori perenni
dell’eticità. Ma per seguire il ragionamento di Sciascia, bisogna
accettarne la premessa, o meglio l’ipotesi di partenza. Secondo lo
scrittore, le lettere esprimono il pensiero liberamente formulato da
un uomo che, seppur prigioniero, non pativa alcuna vessazione o
condizionamento. Come mai? Ma perché le BR hanno accusato il sistema
carcerario vigente di tender ad alienare e annientare la personalità
del recluso; la loro etica carceraria non può dunque non essere del
tutto opposta: è facile dedurne che Moro godeva, da parte dei suoi
sequestratori e prossimi carnefici, del trattamento più umano,
corretto, leale.
Aereo sillogismo
La convalida di questo
aereo sillogismo sirebbe data dal fatto che i brigatisti hanno
rischiato la vita per recapitare una serie di messaggi dei quali, a
loro come loro, non importava un bel niente: a tal punto erano
rispettosi dei desideri del loro, diciamolo pure, illustre ospite.
Veramente, qui cadiamo in una tipica petizione di principio, dando
per dimostrato quel che appunto occorreva dimostrare, ossia
l’estraneità della BR alla strategia epistolare impostata da Moro.
Ma Sciascia non se ne cura, procedendo oltre con le sue deduzioni. E
a questo punto, ovviamente, il gioco è fatto.
Il caso Moro viene
configurato come l’ultima conferma di un archetipo culturale
celeberrimo: il grande della terra che, percosso dalla sfortuna,
ridotto in mano dei suoi nemici più fieri, prossimo al supplizio,
comprende l’enormità degli errori commessi nell’esercizio del
dominio: si ravvede quindi pubblicamente ed affronta la morte con
spirito contrito, grato ai suoi carnefici stessi per l’occasione di
salvezza dell'anima che gli hanno offerto. Se ne edificano i buoni, e
gliene proviene il plauso commosso dei letterati che dianzi lo
esecravano. In fondo, Il Cinque Maggio del Manzoni è fondato
su uno schema di questo genere.
Si può obiettare che,
anche prendendo per giusta questa interpretazione coscienziale, il
problema politico restava pur sempre un altro: cioè se lo Stato
italiano dovesse accettare il ricatto della proposta di scambio dei
prigionieri, quale che ne fosse l’ispiratore. Ma questo, a
Sciascia, è il problema che interessa meno. L’importante è che
Moro fosse giunto a illuminarsi d’una certezza di cui lui, lo
scrittore, s’era persuaso da tempo: per lo Stato italiano, per
qualsiasi Stato, non vale la pena di sacrificare un’unghia,
figuriamoci la vita. Semmai, a scandalizzarlo è che i politici non
abbiano capito o abbiano fatto finta di non capire, anche loro, una
verità cosi evidente, approfittando della circostanza per un atto di
contrizione collettiva. Ma tant’è, si sa che i politici pensano
solo al godimento del potere: o che lo gestiscano effettualmente,
come i democristiani, o che aspirino a intromettervisi, come i
comunisti.
A spiegare una presa di
posizione che confonde cosi curiosamente stati d’animo soggettivi e
realtà oggettiva, moralismi e ingenuità e pose letterarie, possono
essere addotti due motivi. Il primo è la mancanza di una base di
conoscenza scientifica del fenomeno terrorista; poiché Sciascia
conosce invece davvicino il fenomeno mafioso, attribuisce senz’altro
a quello alcuni connotati di questo, anzitutto un codice dell’onore
da far davvero invidia alla «onorata società». Il secondo è che
Sciascia appare ormai pervaso da un sacro furore statofobico, che lo
induce a esasperare oltranzisticamente i toni e modi della crociata
contro l’empietà della statolatria. Certo, L’affaire Moro
si richiama alla polemica antistatalista oggi così in voga; ma con
un sovrappiù di passionalità viscerale, che induce a una accentuata
trascuranza per le connessioni logiche del discorso.
Il significato più
autentico del libro sta nella somma di osservazioni e divagazioni
etico-psicologiche concepite da un letterato esperto, convinto che la
letteratura assicuri il possesso della sapienza suprema, in quanto
fornisce gli strumenti infallibili per scrutare il cuore e la mente
degli uomini, divinando il segreto degli eventi più oscuri. Animato
da tale persuasione, Sciascia accumula le supposizioni,
sottolineandone il carattere immaginoso proprio per esaltare il
valore della sua sensibilità intuitiva: « E c’è da credere», «
Ed è pure da credere», « E a me pare di potere affermare», «E
viene il sospetto che» _ «E si può anche, da questo sospetto, far
rampollarne un altro», «Si può anche avere l’impressione... ma
soprattutto si ha l’impressione... E c’è da immaginare (ancora
da immaginare)», «Non c’è ripeto, nessun segno certo di un tale
dissenso: eppure lo si intuisce, lo si sente, lo si intravede », «
E può darsi che si stia, qui, facendo un romanzo: ma non è
improbabile che » e così via.
Di un romanzo in effetti
si tratta, scritto in bella prosa retoricamente ornatissima, secondo
i canoni più accreditati dell’eloquenza suasoria. È il prestigio
della letteratura come sede di verità, quello che a Sciascia preme
di ribadire: della letteratura, cioè degli « uomini d» lettere »,
espressione da lui preferita a «intellettuali», che gli suona
«termine di generica e imprecisata massificazione». Non per nulla
L’affaire Moro non rimanda quasi affatto ad avvenimenti né
a testi di tipo storico-politico, ma si appoggia alla auctoritas
d’una serie assai lunga di buoni autori, da Cervantes a Borges, da
Unamuno a Tolstoj, da Shakespeare a Calderon, a Manzoni, Poe,
Trilussa, Pasolini, sino alla Novella
del grasso legnaiolo e alla commedia I mafiosi della
Vicaria.
Non serve obiettare che
Sciascia, lavorando solo sui testi delle comunicazioni e missive resi
noti dagli assassini prima del delitto finale, doveva inevitabilmente
ricorrere alla fantasia, con tutti i rischi del caso. Il punto è
che, per lui, la sua prospettiva di interpretazione letteraria dei
fatti, in chiave di moralismo statofobico, non poteva non essere
pregiudizialmente vera. In effetti, quando i nuovi materiali
rinvenuti nei covi terroristici hanno revocato così pesantemente in
dubbio la tesi di fondo su cui il libro è stato costruito, lo
scrittore non se ne è dato per inteso: e ha continuato a proporsi,
con sconcertante arroganza intellettuale, come l’unico depositario
dei criteri di verità atti a chiarire una vicenda ancora per troppi
aspetti così misteriosa. Qui però dal caso Moro passiamo, come è
stato detto, a un caso Sciascia: certo significativo per comprendere
i corsi e ricorsi ideologici d’una parte dell’intellettualità
umanistica italiana, ma un po' meno storicamente rilevante
dell'altro, a dispetto del clamore pubblicitario che lo accompagna.
Di fronte alla iattanza
di Sciascia acquista miglior risalto l’abile cautela con cui
Arbasino ha accostato l’argomento. Il sequestro del presidente
democristiano viene da lui assunto come occasione per una sorta di
inchiesta asistematica sullo stato dell’opinione pubblica: cosa
diceva la gente, come si comportava, che genere di reazioni aveva o
non aveva durante i cinquantacinque giorni della prigionia. Ai suoi
occhi, questo episodio anzi ritorno di barbarie ha dato evidenza al
permanere, nella mentalità e nel costume più diffusi, di un
indifferentismo morale, una mancanza di fiducia nei valori
collettivi, una tendenza a rifugiarsi e smarrirsi nelle angustie
degli affetti e degli affari privati, tipici di una società ancora
alle prese con un retaggio di disgregazione secolare, che l’ha
tenuta al margini dei maggiori dinamismi di progresso, così in campo
economico come culturale.
In questo stato
(Garzanti, pp. 189, L. 4.500) denuncia insomma con acrimonia il
fallimento della cosiddetta rivoluzione neocapitalista, nel suo
tentativo di dare un assetto di modernità al paese. Secondo
Arbasino, molta parte della popolazione non ha vissuto
partecipativamente sino in fondo la tragedia Moro perché ciò
l’avrebbe indotta, costretta a fare i conti, in senso critico e
autocritico, con la gravità complessiva della crisi attuale. In
compenso, si t assistito a uno scatenamento della retorica, come è
rituale accada in una “società dello spettacolo”, dove tutto
diviene motivo di esibizionismi cinici, fatui, spocchiosi.
Distrazione
perpetua
È soprattutto sul
comportamento dei ceti colti, la bolsaggine del linguaggio
giornalistico, la distrazione perpetua dei narratori, sempre assenti
dove capiti qualcosa di grosso, che lo scrittore appunta la sua
attenzione, volta a cogliere ironicamente il divario tra l’orgia
delle parole e lo scarso senso e gusto per la concretezza delle cose.
Dall’abbondanza e anche
dalla ridondanza dei materiali (non tutte le pagine raccolte nel
volume appaiono indispensabili) emerge in positivo l’auspicio di
uno Stato democraticamente neoborghese, forte del consenso attivo dei
cittadini, inserito a pieno titolo fra le nazioni europee più
ordinatamente progredite, sugli sperimentati modelli inglese o magari
svizzero. Questa visione da «ultimo dei liberali » stenta a calarsi
nella concreta complessità del caso italiano: in effetti Arbasino si
limita ad enunziarla, in termini di buon senso empirico, ma senza
articolazioni ideologiche adeguate. E non per nulla offre così poco
spazio ai dati propriamente politici, dove l’originalità della
questione italiana si manifesta meglio, coi suoi aspetti di ritardo
storico ma anche di anticipazione innovativa.
Resta il fatto che la
posizione assunta dallo scrittore, pur nella sua opinabilità, gli
consente un impatto critico, efficace sugli orientamenti della nostra
società civile, e soprattutto dei ceti intermedi, nelle loro
inquietudini e pigrizie e velleitarismi. In questo senso, la strage
di via Fani e il lento assassinio di Moro si rivelano davvero
un’utile cartina di tornasole. Arbasino non nasconde la sua scarsa
simpatia per l’uomo politico assassinato, cui imputa gravi
corresponsabilità nell’aver ridotto l’Italia «in questo stato»,
cioè in una situazione per cui non appare evidente a tutti la
necessità primaria di difendere le istituzioni dello Stato, con la
esse maiuscola: e possono emergere quelle tendenze al cedimento, alla
trattativa, contro cui lo scrittore si pronunzia beffardamente. Ma
appunto da questo atteggiamento di distacco deriva la disposizione a
sottolineare con spregiudicatezza i sintomi di uno scollamento fra le
tendenze serpeggianti nell’opinione pubblica e le prospettive
indicate ai più alti livelli istituzionali.
L'articolo, pubblicato da l'Unità il 28 ottobre 1978, l'ho ripreso, insieme al commento iniziale, dal blog di Salvatore Lo Leggio.