31 ottobre 2018

MASCHERE NUDE IN SICILIA


Foto ripresa dal GIORNALE DI SICILIA 30 ottobre 2018



Ad Aci Castello (CT) è stato arrestato il Presidente antiracket che chiedeva il "pizzo" per far ottenere i contributi previsti dalla legge.





L' AUTOCRITICA DI ROSSANA ROSSANDA


L'AUTOCRITICA DI UNA COMUNISTA ONESTA

Sabato scorso sul Manifesto Rossana Rossanda ha riconosciuto di aver avuto torto nel 1956 a difendere Togliatti contro F. Fortini.
Oggi, su La Repubblica, ammette che "la sinistra ha deluso le speranze" e che è anche "colpa nostra se vince Salvini".

L' ULTIMO VERLAINE



La miseria nera dell’ultimo Verlaine

Come molti grandi autori, Paul Verlaine è rimasto prigioniero, nella percezione pubblica, dei cliché da lui stesso creati.
Difficile leggere i suoi versi in maniera criticamente neutra, affrancati dai vincoli del mito de I poeti maledetti; com’è ben noto, una formula inventata proprio dal poeta francese nel suo omonimo saggio antologico del 1884, in cui includeva le migliori opere di Corbière, Rimbaud, Mallarmé e, in una successiva versione, anche di Desbordes-Valmore, Villiers de l’Isle-Adam e di sé stesso, sotto lo pseudonimo, anagramma del suo nome, di Pauvre Lelian.
Difficile non sovrapporre alla lettura i fieri proclami dei Parnassiani, le istantanee delle ubriacature d’assenzio al Café Procope, le leggendarie scorribande vagabonde col giovane Rimbaud, i loro ritratti idealizzanti nel quadro di Henri Fantin-Latour, lo sparo al polso dell’amante irrequieto, la drammatica separazione, la condanna per sodomia e la successiva dolente conversione al cattolicesimo, la ricaduta nell’alcol e la solitudine che emerge nelle sue finali cronache ospedaliere.
E proprio queste pagine finali, pervase da uno spirito più che mai saturnino (come nella sua celebre raccolta poetica, Poèmes saturniens), che si può scoprire un Verlaine diverso, spiazzante, non vorremmo dire definitivo, ma per molti aspetti, pur se coerente con la sua costante ispirazione, inedito.
Sicuramente, inedito per il pubblico italiano: Miseria Nera (Edizioni della Sera) offre finalmente la possibilità di leggere nella nostra lingua (nella traduzione e di Michela Landi, autrice anche della preziosa introduzione) Mes hôpitaux (1891) e Quinze jours en Hollande (1893): il primo è resoconto della sua travagliata fase di ricovero presso l’ospedale Broussais e in seguito presso Vincennes (Saint Maurice) e Tenon; il secondo racconta il ritorno, in visita ad alcuni amici, nella città di Mons, dove era stato incarcerato vent’anni prima dopo la fine della scandalosa relazione con Rimbaud.
Come scrive Michela Landi, in più punti della sua introduzione: “Il ricovero è, per Verlaine, una zona franca del male di esistere: esso rappresenta, al contempo, un riparo e una riparazione. Camera di compensazione per gli errori del corpo e dello spirito, questo luogo purgatoriale è luogo di anamnesi e purificazione, dove si stempera ogni dialettica e dove vige la sola logica felicemente irresponsabile del sogno, o dell’inconscio…(…) Il ricovero può dunque essere eletto a metafora del pensiero di Verlaine come anche del fin-de-siècle tutto: sollevandoci dall’esercizio delle funzioni che è proprio della vita attiva – ed a fortiori in un paese che ha fatto della responsabilità civile la sua insegna – esso, meritevole prodotto di quella stessa responsabilità, ci esenta dall’angoscia della scelta e ci trattiene, per riprendere la prosa dei Souvenirs, «lontano dal mondo e dalla preoccupazione di essere o di apparire» (…) Il ricovero, luogo neutro di pura transizione ma anche luogo di riparazione e espiazione del male storico e metafisico è, allora, tanto limbo che accoglie color che son sospesi, quanto purgatorio dove si emenda e si ravvede colui che ha disobbedito alla Legge umana e divina.
In preda alla buona e giusta malattia che esemplarmente incarna e quasi cristicamente espia, Verlaine fa del ricovero il luogo ideale della sua scrittura, e scrive aletto, delirando: intendendosi propriamente, con questo ultimo verbo, certa salvifica aberrazione di pensiero e di parola spesso frettolosamente consegnata ai margini del codice linguistico: invenzione o fantasia, capriccio o vagheggiamento, seguendo il flusso associativo dei ricordi o delle impressioni”.
In questo contesto paradossalmente ideale per la sua ispirazione, nella pur triste condizione, lo stile di Verlaine si accende proprio nella mestizia, si tende nervosamente nell’inazione, si esalta nella depressione: è straordinario vedere come il raffinatissimo poeta decadente, ammiratore di Baudelaire, autore di versi di elegante suggestione orientale, anticipi la prosa vulcanica e oltraggiosa di Céline (come nei suoi sonetti osceni si ritrovavano antichi echi di Villon) e, a tratti, addirittura i deliri illuminanti dell’ultimo Artaud.
Non stiamo affrontando le opere più riuscite di Verlaine, ma queste versioni inedite destano un profondo interesse, proprio per la luce nuova che gettano, a posteriori, sull’opera di una delle figure più carismatiche della letteratura europea dell’800.
Come scrisse con grande equilibrio Anatole France (fautore del più severo classicismo e non certo gentile con i Parnassiani) in una recensione poi raccolta nella Vie littéraire: “Ho detto sopra che Paul Verlaine è un cinico; avrei potuto dire: è un mistico. Non c’è molta differenza tra le due cose. La somiglianza tra filosofi quali Antistene o Diogene e i frati mendicanti dell’Italia cristiana è tale che ha colpito anche coloro che non volevano riconoscerla. Cinico e mistico, Paul Verlaine è tra coloro per i quali il regno non è di questo mondo; appartiene alla grande famiglia degli amanti della povertà. San Francesco lo avrebbe riconosciuto di certo come uno dei suoi figli spirituali, e forse avrebbe fatto di lui il suo discepolo prediletto. E chissà se Paul Verlaine, sotto il saio, non sarebbe diventato un gran santo, come è diventato per noi un gran poeta […]. Vizioso e candido, è sempre veritiero; nell’inimitabile accento della verità è il fascino di questo libriccino, Mes hôpitaux, scritto in una sintassi assurda e ridicola, con una musica meravigliosa, che strazia il cuore”.


articolo ripreso da http://www.minimaetmoralia.it/

30 ottobre 2018

PLATONE VISTO DALLE DONNE


     B. Russell ha scritto giustamente che tutta la storia della filosofia occidentale non è altro che un commento a Platone. Da qualche anno, uno sguardo nuovo si sta affermando nel dibattito filosofico contemporaneo: lo sguardo femminile. Uno sguardo che ci fa vedere le cose da un altro punto di vista. (fv)

Fulvia de Luise

Il Platone smascherato


La raccolta di studi platonici di Adriana Cavarero, appena uscita a cura di Olivia Guaraldo, è qualcosa di più di un’occasione per tornare a parlare di uno dei contributi più originali che una studiosa abbia fornito a una lettura ‘di genere’ del grande filosofo antico. Mi riferisco al libro Nonostante Platone (Editori Riuniti, Roma 1990) e in particolare al saggio Diotima (un capitolo del libro riproposto nella raccolta), che ebbe il merito di catalizzare l’attenzione sull’ambiguità del personaggio che figura al centro del Simposio platonico: Diotima, appunto, la sapiente straniera che rivela a Socrate il significato esistenziale dell’eros, in termini talmente impregnati di femminilità da fare del suo nome un simbolo di opposizione alla visione maschilista e patriarcale del mondo.

La potenza del personaggio, che dalle pagine platoniche propone la metafora del «parto (tokos)» come modello di azione creativa e la cura riparatrice della «mancanza» (endeia) come antidoto alla fragilità della condizione umana, era tale da affascinare le pensatrici, in una stagione combattiva e intellettualmente feconda del femminismo italiano. Fino a dare corpo reale a Diotima, come se si trattasse di una voce diversa da Platone stesso; e intitolare a lei la ricerca del collettivo veronese, intrapresa col fine di riscrivere la storia, reinventare il linguaggio, rovesciare la rete simbolica dell’universalismo maschile, per fare spazio al «pensiero della differenza».
Studiose come Luce Irigaray (L’amour sorcier, in Irigaray, Ethique de la difference sexuelle, Les éditions de minuit, Paris 1985, 27-39) e Luisa Muraro (La maestra di Socrate e la mia, in Diotima. Approfittare dell’assenza, Liguori, Napoli 2002, 27-43) videro in Diotima la maestra di un’ironia sovversiva. Adriana Cavarero diede invece subito corpo al sospetto che l’operazione platonica fosse più complessa e a suo modo subdola: conferire una straordinaria potenza espressiva a una donna sapiente per far compiere proprio a lei un vero e proprio inganno filosofico, un «furto» simbolico della potenza generativa, che è quanto appartiene nel modo più proprio alla figura femminile e all’esperienza delle donne, per farne solo una metafora della produttività del pensiero maschile. Mantenendo il primato della mente sul corpo, che è, come è noto, l’asse portante della gerarchia di genere.

Intorno all’idea di «furto», Cavarero stava costruendo in realtà un’operazione ben più ambiziosa e non solo anti-platonica: praticare a sua volta questa forma di attività criminale, penetrando nella scrittura poetica e filosofica degli antichi Greci per trafugare le eroine intrappolate in ruoli concepiti da menti maschili (Penelope, la servetta di Tracia, Demetra e Persefone, oltre Diotima), ridisegnando le loro figure e riscrivendo con voce di donna le loro storie.

Richiamare tutto ciò mi è necessario per dire della sorpresa con cui ho accolto questa raccolta di saggi platonici: una sequenza di studi distribuiti tra il 1973 e il 2017, che testimonia non solo di un corpo a corpo accanito e sempre critico con Platone, durato l’intera vita da studiosa di Adriana Cavarero, ma di un’ammirazione profonda per un pensiero che si dà in forma aperta e sperimentale, per una scrittura che conserva la drammaticità irrisolta delle questioni, senza perdere la sua tensione verso la trasparenza dell’idea. Il nome della raccolta, semplicemente «Platone», suggerisce l’interesse e la continuità del confronto con il padre della filosofia occidentale, di fatto il primo scrittore filosofico, che resta referente obbligato e oggetto del contendere di un secolare conflitto interpretativo.
Trattandosi appunto del “padre” della filosofia occidentale, è ovvio che l’attenzione di Cavarero resti armata, lucida nel seguire le tracce di operazioni teoriche sospette, che, pur avendo le loro radici in un tessuto discorsivo e dialogico, tendono però a chiudere molti percorsi come impraticabili e ad assottigliare pericolosamente il sentiero della verità. In ognuno dei dieci saggi raccolti nel volume, la questione della «differenza» resta banco di prova per individuare il sotto-testo della scrittura platonica, le implicazioni non dette di una strategia sempre mirata ad accedere all’area di coerenza assoluta dei paradigmi. Ed è qui che il femminile (ma anche, in senso lato, l’alterità dei soggetti sociali più deboli rispetto all’egemonia dei soggetti eccellenti) appare talvolta la posta in gioco, talvolta l’oggetto di un sacrificio necessario alla “neutralizzazione” del discorso che Platone persegue con la costruzione teorica.

In realtà, nei quattro saggi che precedono (temporalmente e nell’ordine del volume) Diotima, Adriana Cavarero spezza diverse lance a favore di un Platone più “pluralista” di quanto si immagini chi vede in lui l’inventore di una metafisica del mondo vero, che schiaccia e nega ogni alterità nel mondo reale: un Platone che in veste di critico della democrazia risulta «meno antidemocratico della democrazia dei sofisti» (saggio 1, p.26); o che, di fronte al disordine politico di Atene, «assume l’operare dei tecnici come polo positivo» (saggio 2, p.44); o ancora un Platone che, mentre indaga nel Cratilo il valore di verità del linguaggio, immaginando che esista o possa esistere in futuro un vero «legislatore dei nomi», lascia anche aperta la possibilità che proprio l’essenza del nome e del nominare, e non l’ousia immateriale dell’idea, sia «ciò su cui verte ogni ricercare» (saggio 3, p. 72); o infine, sulla scia (nietzschiana) di Giorgio Colli, un Platone che registra le ultime tracce del vitale dionisiaco, svelando la matrice erotica di ogni metafisica del bello, prima di cedere all’istanza razionalistica dell’apollineo, «consegnando al destino occidentale il primo sistema, la prima costruzione piramidale finalisticamente ordinata» (saggio 4, p.76).

Dopo Diotima si fa più evidente lo sforzo di smascheramento che Adriana Cavarero rivolge alle pagine platoniche. Direttamente ispirato al tema della «differenza» e alla problematica femminista sviluppata, in quegli stessi anni Ottanta-Novanta, anche da altre studiose e antichiste (Luce Irigaray, Giulia Sissa, Silvia Campese), appare l’impegnativo saggio Corpo in figure. Il discorso di Timeo, che scandaglia l’ambiguo racconto del Timeo platonico sulla costituzione del mondo naturale, da cui risulta che la sessuazione, destinata a legare il maschile e il femminile nell’unità sincronica della specie umana, si sviluppa tuttavia nella forma di una degradazione: dal «modello originario universale» del maschio, alla figura corporea manchevole della donna, che, occupando il primo gradino di una serie discendente verso l’animalità, va «a lacerare la monosessuata perfezione originaria del prototipo maschile» (saggio 6, p.116); e ciò mentre, sul piano cosmico, il femminile va a occupare lo spazio informe della Chora, compagna e antagonista dell’opera plasmatrice del Demiurgo secondo le idee.
La requisitoria procede per altre vie nei tre saggi che seguono, prevalentemente legati all’incontro di Cavarero con la prospettiva di ricerca di Hanna Arendt, studiosa tutt’altro che consonante con il filone di indagine della «differenza» femminile, ma incline a leggere Platone sotto l’angolatura fornita da Karl Popper in La società aperta e i suoi nemici (1944), e cioè come un portatore non innocente dei germi di un pensiero politico tendenzialmente totalitario, in quanto ostile alla pluralità dei soggetti e delle opinioni del mondo politico reale. Sarebbe difficile entrare davvero nel merito dell’analisi puntuale e acuta svolta nei saggi 7-8-9, che percorre luoghi cruciali della Repubblica platonica, dall’allegoria della caverna (libro VII) alla condanna di Omero (libro X), al nesso tra teoria e pratica dell’utopia politica (libro IX). Mi permetto però di esprimere il mio dissenso sul fil rouge che li lega e che, a mio parere, costringe la ricchezza analitica dell’indagine testuale di Cavarero dentro la rete di un presupposto ermeneutico infondato: «che Platone sia l’antesignano di una clamorosa fuga dalla realtà della politica» (saggio 9, p.175).

Riportato correttamente come principio-base della lettura arendtiana, l’assunto si appoggia sull’importanza che la theoria riveste nella ricerca platonica della Repubblica e su quell’enfasi del ‘vedere’ che si rinviene in particolare alla fine della costruzione della «città perfettamente buona», quando essa si rende visibile come «paradigma in cielo» e se ne discute il possibile uso sul piano della realtà. Trasformare in un metafisico «primato della teoria sulla politica» un risultato teorico faticosamente raggiunto in aperto contrasto con le voci dissonanti della città reale, significa ignorare (come è sicuramente il caso della Arendt) le premesse conflittuali della ricerca platonica della giustizia, compreso il disagio morale espresso dai principali protagonisti della Repubblica a vivere in un ambiente politico degradato, in cui la possibilità stessa di praticare un comportamento di corretta reciprocità è negata, nel nome del più violento e naturale desiderio di sopraffazione. La visione arendtiana di una vocazione tipicamente umana alla vita activa era probabilmente di ostacolo a cogliere il valore propositivo di quel distacco dall’esistente, che è il cuore normativo dell’utopia platonica. Quale che sia il nostro giudizio sui contenuti specifici di quella utopia.

Tornando a Cavarero, io credo che la passione autentica per la forza provocatoria della scrittura platonica abbia alla fine avuto la meglio e trovato la strada per esprimersi. Nell’ultimo saggio della raccolta, un intervento del 2017, dedicato a rinvenire «un’archeologia della post-verità», la studiosa torna al Platone critico delle opinioni incontrollate, che suggestionano e orientano senza difficoltà la volubile mente dei «molti»; e ricollega la portata epocale del tema, nella città della democrazia, sia al dibattito sul rapporto ‘demagogico’ tra capo e masse, che segnò un momento cruciale della storia del Novecento, sia all’attuale dominio delle verità “virali”, attraverso l’immenso potere anonimo della rete in cui passano le comunicazione di massa.

È in questo contesto che la studiosa esprime un sostanziale apprezzamento della diffidenza platonica per quel demos raffigurato come un «vigoroso bestione», vezzeggiato e usato dai professionisti della politica, con sovrano disprezzo per una verità che non esiste o non può essere distinta da una menzogna efficace. L’interesse politico per Platone si riaccende di fronte a quella «descrizione della fenomenologia di una politica patologica» (p.190), che richiama, con tutte le dovute differenze, «l’attuale circo della post-verità» (p.195). Così, restituendo a Platone tutta la ragione che aveva sulla difficoltà a comunicare ai «molti» sensibili alle tempeste emozionali il semplice rigore di un ragionamento fondato, Adriana Cavarero si spinge fino a una sorta di riabilitazione di quel «primato della teoria sulla politica», che era stato arendtianamente usato come capo d’accusa: Ritengo che l’elitario Platone, la cui dottrina antidemocratica affascina così tanto le tradizioni di estrema destra e le ideologie fasciste, l’esecrabile Platone che disprezza i molti nel nome della verità razionale, ci possa aiutare a riflettere sulla vena demagogica che percorre il corpo democratico, trasformandolo in qualcosa di irresistibilmente patologico (p.197)

Da parte mia, credo sia possibile imboccare ancora, «nonostante Platone», ma ancora con lui e con i suoi fulminanti paradossi, la strada contraddittoria che unisce il realismo all’utopia, permettendo anche a noi di immaginare un «paradigma in cielo» che abbia la forza teorica di portarci fuori dalle angustie del presente politico. E potremmo ancora domandarci, pur mantenendo il sospetto del «furto» sulla creazione platonica di Diotima, quale straordinaria potenza di pensiero abbia permesso al filosofo di raffigurare la differenza profonda di una sapienza femminile, sullo sfondo del desolante e corale disprezzo delle donne che pervade la cultura del mondo greco.

il manifesto – 28 ottobre 2018

Domani a Palermo si parla di Marina Abramović


Domani, mercoledì 31 ottobre 2018, alle ore 16.30
nella Biblioteca Comunale di Villa Trabia, a Palermo,
Valeria Spallino presenta il suo libro su

Marina Abramović

«Ciò con cui convive ciascuno di noi, il piccolo sé che siamo in privato, una volta che entriamo nello spazio della performance si colloca in un sé superiore e non siamo più noi stessi. Non è il sé che conosciamo. È qualcos’altro».

Marina Abramović

 


L' OTTUSA STRONCATURA DI V. SPINAZZOLA DI UN LIBRO DI SCIASCIA

La prima edizione del volume "L'affaire Moro (1978).
La seconda (1983) uscì nella collaba blu "La memoria"
e comprende la relazione che Leonardo Sciascia presentò
alla Commissione Parlamentare sul rapimento Moro
nella sua qualità di deputato per il Partito Radicale

 
    Vittorio Spinazzola, che oggi viaggia verso i 90 anni e da ultimo ha saputo uscire dal campo minato delle recensioni e degli interventi giornalistici con qualche buon saggio, fu – nel secolo scorso - un valido critico militante, entrato piuttosto tardi nell'insegnamento universitario... Scrisse a lungo di letteratura italiana per la stampa del Pci e sui temi “politicamente sensibili” quasi mai si allontanò dalle impostazioni prevalenti nel suo partito. Quando nel 1978 uscì per Sellerio l'Affaire Moro di Leonardo Sciascia, che aveva iniziato una dura polemica con il Pci di Berlinguer proprio in occasione del rapimento dell'uomo politico democristiano, Spinazzola ne tentò la stroncatura. Secondo me, l'articolo, che qui posto come esemplare di un costume diffuso tra gli intellettuali più “organici”, è molto brutto. Fa sorridere, poi, il confronto tra il libro di Sciascia, uno dei più importanti del suo magistero civile, e un pamphlet di Arbasino uscito nello stesso torno di tempo, decisamente minore. (Salvatore Lo Leggio)
 
Divagazioni psicologiche e crociata antistatalista di un pamphlet scritto in bella prosa
 
Vittorio Spinazzola

È indubbiamente significativo che ad affrontare per primi il «caso Moro», ancora a caldo, e in forma saggistica, siano stati due scrittori di ascendenza illuminista: il settentrionale Alberto Arbasino e il siciliano Leonardo Sciascia. Diversi però sono stati i loro metodi di lavoro; l’uno si è orientato sul terreno della rilevazione sociologica, l’altro ha adottato gli strumenti dello psicologismo. E divergenti appaiono anche i risultati, che peraltro rappresentano una duplice conferma della evoluzione da tempo in atto in entrambe queste personalità letterarie. Il «frivolo» Arbasino accentua la sua volontà di intervento ironico e paradossale sull’opinione pubblica per sollecitarla ad assumere atteggiamenti di modernità laica, basati sui culto dell’empiria fattiva; l‘«impegnato» Sciascia inclina sempre più a prendere le distanze dalle forme organizzate di realtà collettiva e a richiamare con aulico cipiglio i lettori alla meditazione sulla sorte morale se non metafisica dell’individuo.
L’affaire Moro (Sellerio, pp. 146, L. 3.500) tenta infatti di interpretare le lettere scritte dalla vittima delle Brigate Rosse durante la prigionia come una straziata presa di coscienza della vanità del potere, cioè delle cose mondane, in nome dei valori perenni dell’eticità. Ma per seguire il ragionamento di Sciascia, bisogna accettarne la premessa, o meglio l’ipotesi di partenza. Secondo lo scrittore, le lettere esprimono il pensiero liberamente formulato da un uomo che, seppur prigioniero, non pativa alcuna vessazione o condizionamento. Come mai? Ma perché le BR hanno accusato il sistema carcerario vigente di tender ad alienare e annientare la personalità del recluso; la loro etica carceraria non può dunque non essere del tutto opposta: è facile dedurne che Moro godeva, da parte dei suoi sequestratori e prossimi carnefici, del trattamento più umano, corretto, leale.

Aereo sillogismo
La convalida di questo aereo sillogismo sirebbe data dal fatto che i brigatisti hanno rischiato la vita per recapitare una serie di messaggi dei quali, a loro come loro, non importava un bel niente: a tal punto erano rispettosi dei desideri del loro, diciamolo pure, illustre ospite. Veramente, qui cadiamo in una tipica petizione di principio, dando per dimostrato quel che appunto occorreva dimostrare, ossia l’estraneità della BR alla strategia epistolare impostata da Moro. Ma Sciascia non se ne cura, procedendo oltre con le sue deduzioni. E a questo punto, ovviamente, il gioco è fatto.
Il caso Moro viene configurato come l’ultima conferma di un archetipo culturale celeberrimo: il grande della terra che, percosso dalla sfortuna, ridotto in mano dei suoi nemici più fieri, prossimo al supplizio, comprende l’enormità degli errori commessi nell’esercizio del dominio: si ravvede quindi pubblicamente ed affronta la morte con spirito contrito, grato ai suoi carnefici stessi per l’occasione di salvezza dell'anima che gli hanno offerto. Se ne edificano i buoni, e gliene proviene il plauso commosso dei letterati che dianzi lo esecravano. In fondo, Il Cinque Maggio del Manzoni è fondato su uno schema di questo genere.
Si può obiettare che, anche prendendo per giusta questa interpretazione coscienziale, il problema politico restava pur sempre un altro: cioè se lo Stato italiano dovesse accettare il ricatto della proposta di scambio dei prigionieri, quale che ne fosse l’ispiratore. Ma questo, a Sciascia, è il problema che interessa meno. L’importante è che Moro fosse giunto a illuminarsi d’una certezza di cui lui, lo scrittore, s’era persuaso da tempo: per lo Stato italiano, per qualsiasi Stato, non vale la pena di sacrificare un’unghia, figuriamoci la vita. Semmai, a scandalizzarlo è che i politici non abbiano capito o abbiano fatto finta di non capire, anche loro, una verità cosi evidente, approfittando della circostanza per un atto di contrizione collettiva. Ma tant’è, si sa che i politici pensano solo al godimento del potere: o che lo gestiscano effettualmente, come i democristiani, o che aspirino a intromettervisi, come i comunisti.
A spiegare una presa di posizione che confonde cosi curiosamente stati d’animo soggettivi e realtà oggettiva, moralismi e ingenuità e pose letterarie, possono essere addotti due motivi. Il primo è la mancanza di una base di conoscenza scientifica del fenomeno terrorista; poiché Sciascia conosce invece davvicino il fenomeno mafioso, attribuisce senz’altro a quello alcuni connotati di questo, anzitutto un codice dell’onore da far davvero invidia alla «onorata società». Il secondo è che Sciascia appare ormai pervaso da un sacro furore statofobico, che lo induce a esasperare oltranzisticamente i toni e modi della crociata contro l’empietà della statolatria. Certo, L’affaire Moro si richiama alla polemica antistatalista oggi così in voga; ma con un sovrappiù di passionalità viscerale, che induce a una accentuata trascuranza per le connessioni logiche del discorso.
Il significato più autentico del libro sta nella somma di osservazioni e divagazioni etico-psicologiche concepite da un letterato esperto, convinto che la letteratura assicuri il possesso della sapienza suprema, in quanto fornisce gli strumenti infallibili per scrutare il cuore e la mente degli uomini, divinando il segreto degli eventi più oscuri. Animato da tale persuasione, Sciascia accumula le supposizioni, sottolineandone il carattere immaginoso proprio per esaltare il valore della sua sensibilità intuitiva: « E c’è da credere», « Ed è pure da credere», « E a me pare di potere affermare», «E viene il sospetto che» _ «E si può anche, da questo sospetto, far rampollarne un altro», «Si può anche avere l’impressione... ma soprattutto si ha l’impressione... E c’è da immaginare (ancora da immaginare)», «Non c’è ripeto, nessun segno certo di un tale dissenso: eppure lo si intuisce, lo si sente, lo si intravede », « E può darsi che si stia, qui, facendo un romanzo: ma non è improbabile che » e così via.
Di un romanzo in effetti si tratta, scritto in bella prosa retoricamente ornatissima, secondo i canoni più accreditati dell’eloquenza suasoria. È il prestigio della letteratura come sede di verità, quello che a Sciascia preme di ribadire: della letteratura, cioè degli « uomini d» lettere », espressione da lui preferita a «intellettuali», che gli suona «termine di generica e imprecisata massificazione». Non per nulla L’affaire Moro non rimanda quasi affatto ad avvenimenti né a testi di tipo storico-politico, ma si appoggia alla auctoritas d’una serie assai lunga di buoni autori, da Cervantes a Borges, da Unamuno a Tolstoj, da Shakespeare a Calderon, a Manzoni, Poe, Trilussa, Pasolini, sino alla Novella del grasso legnaiolo e alla commedia I mafiosi della Vicaria.
Non serve obiettare che Sciascia, lavorando solo sui testi delle comunicazioni e missive resi noti dagli assassini prima del delitto finale, doveva inevitabilmente ricorrere alla fantasia, con tutti i rischi del caso. Il punto è che, per lui, la sua prospettiva di interpretazione letteraria dei fatti, in chiave di moralismo statofobico, non poteva non essere pregiudizialmente vera. In effetti, quando i nuovi materiali rinvenuti nei covi terroristici hanno revocato così pesantemente in dubbio la tesi di fondo su cui il libro è stato costruito, lo scrittore non se ne è dato per inteso: e ha continuato a proporsi, con sconcertante arroganza intellettuale, come l’unico depositario dei criteri di verità atti a chiarire una vicenda ancora per troppi aspetti così misteriosa. Qui però dal caso Moro passiamo, come è stato detto, a un caso Sciascia: certo significativo per comprendere i corsi e ricorsi ideologici d’una parte dell’intellettualità umanistica italiana, ma un po' meno storicamente rilevante dell'altro, a dispetto del clamore pubblicitario che lo accompagna.
Di fronte alla iattanza di Sciascia acquista miglior risalto l’abile cautela con cui Arbasino ha accostato l’argomento. Il sequestro del presidente democristiano viene da lui assunto come occasione per una sorta di inchiesta asistematica sullo stato dell’opinione pubblica: cosa diceva la gente, come si comportava, che genere di reazioni aveva o non aveva durante i cinquantacinque giorni della prigionia. Ai suoi occhi, questo episodio anzi ritorno di barbarie ha dato evidenza al permanere, nella mentalità e nel costume più diffusi, di un indifferentismo morale, una mancanza di fiducia nei valori collettivi, una tendenza a rifugiarsi e smarrirsi nelle angustie degli affetti e degli affari privati, tipici di una società ancora alle prese con un retaggio di disgregazione secolare, che l’ha tenuta al margini dei maggiori dinamismi di progresso, così in campo economico come culturale.
In questo stato (Garzanti, pp. 189, L. 4.500) denuncia insomma con acrimonia il fallimento della cosiddetta rivoluzione neocapitalista, nel suo tentativo di dare un assetto di modernità al paese. Secondo Arbasino, molta parte della popolazione non ha vissuto partecipativamente sino in fondo la tragedia Moro perché ciò l’avrebbe indotta, costretta a fare i conti, in senso critico e autocritico, con la gravità complessiva della crisi attuale. In compenso, si t assistito a uno scatenamento della retorica, come è rituale accada in una “società dello spettacolo”, dove tutto diviene motivo di esibizionismi cinici, fatui, spocchiosi.

Distrazione perpetua
È soprattutto sul comportamento dei ceti colti, la bolsaggine del linguaggio giornalistico, la distrazione perpetua dei narratori, sempre assenti dove capiti qualcosa di grosso, che lo scrittore appunta la sua attenzione, volta a cogliere ironicamente il divario tra l’orgia delle parole e lo scarso senso e gusto per la concretezza delle cose.
Dall’abbondanza e anche dalla ridondanza dei materiali (non tutte le pagine raccolte nel volume appaiono indispensabili) emerge in positivo l’auspicio di uno Stato democraticamente neoborghese, forte del consenso attivo dei cittadini, inserito a pieno titolo fra le nazioni europee più ordinatamente progredite, sugli sperimentati modelli inglese o magari svizzero. Questa visione da «ultimo dei liberali » stenta a calarsi nella concreta complessità del caso italiano: in effetti Arbasino si limita ad enunziarla, in termini di buon senso empirico, ma senza articolazioni ideologiche adeguate. E non per nulla offre così poco spazio ai dati propriamente politici, dove l’originalità della questione italiana si manifesta meglio, coi suoi aspetti di ritardo storico ma anche di anticipazione innovativa.
Resta il fatto che la posizione assunta dallo scrittore, pur nella sua opinabilità, gli consente un impatto critico, efficace sugli orientamenti della nostra società civile, e soprattutto dei ceti intermedi, nelle loro inquietudini e pigrizie e velleitarismi. In questo senso, la strage di via Fani e il lento assassinio di Moro si rivelano davvero un’utile cartina di tornasole. Arbasino non nasconde la sua scarsa simpatia per l’uomo politico assassinato, cui imputa gravi corresponsabilità nell’aver ridotto l’Italia «in questo stato», cioè in una situazione per cui non appare evidente a tutti la necessità primaria di difendere le istituzioni dello Stato, con la esse maiuscola: e possono emergere quelle tendenze al cedimento, alla trattativa, contro cui lo scrittore si pronunzia beffardamente. Ma appunto da questo atteggiamento di distacco deriva la disposizione a sottolineare con spregiudicatezza i sintomi di uno scollamento fra le tendenze serpeggianti nell’opinione pubblica e le prospettive indicate ai più alti livelli istituzionali.

L'articolo, pubblicato da l'Unità il 28 ottobre 1978, l'ho ripreso, insieme al commento iniziale, dal blog di Salvatore Lo Leggio.

29 ottobre 2018

R. ROSSANDA, F. FORTINI e P. TOGLIATTI


Rossana Rossanda scopre a 94 anni che Fortini aveva ragione. Nel 1956 alle critiche dell'intellettuale socialista sulle connivenze del PCI togliattiano con i crimini di Stalin aveva risposto a nome del partito di non sentire ”la propria coscienza morale investita da problemi che non avevamo il mezzo di controllare”. Che dire? Meglio tardi che mai. Quanto alla visione “eroica” dei comunisti perseguitati (alla Rossanda fu negato il passaporto), ci viene da pensare ai militanti operai antistalinisti (anarchici, bordighisti, trotskisti) come Arrigo Cervetto (tanto per citare un nome) che, oltre alle intimidazioni padronali e poliziesche (che andavano ben oltre la non concessione di un documento) dovettero subire le calunnie e spesso le aggressioni fisiche degli stalinisti del PCI perchè loro il “mezzo [e il coraggio] per controllare” i crimini di Stalin lo avevano comunque avuto. Sappiamo che per molti la Rossanda è un'icona, ma a noi questi orfani del togliattismo, che pensano di aver avuto ragione anche quando ammettono di aver avuto torto, paiono patetici.

Rossana Rossanda
Franco Fortini e i nostri «dieci inverni»

Bene ha fatto Quodlibet a ripubblicare Dieci Inverni di Franco Fortini, anche se è lontano il tempo in cui egli li ripubblicò per la prima volta. Sono interventi che ruotano tutti intorno a un tema: il silenzio, o peggio, la complicità dei partiti comunisti occidentali, dunque anche nostra, sulla repressione che infuria in quegli anni sui dissenzienti nei paesi di «socialismo reale». La storia ne è stata fatta soltanto parzialmente, volta a volta sopravanzata dagli eventi e dall’uso che ne fecero gli avversari di classe, basti ricordare la campagna democristiana del ’48 e le «forche di Praga».

Ammesso che oggi io conti qualcosa, allora non ero nessuno, un modestissimo “apparatcik” della Federazione comunista milanese, addetta al «lavoro culturale» (qualcuno ricorderà il libro di Luciano Bianciardi) e quindi in una posizione che mi permetteva, anzi mi obbligava, di osservare dappresso il conflitto tra il mio partito e Franco Fortini.

Noi comunisti avevamo una visione eroica di noi stessi, per essere la forza politica più attaccata dal governo e dalle destre in quanto rappresentanti della classe operaia. In questo c’era una verità, gli amici stentano a credere se dico che per diversi anni a me, che appunto non ero nessuno, fu tolto senza spiegazione alcuna il passaporto, per cui essere contemporaneamente attaccati anche da un compagno socialista, tanto più in quanto egli aveva ragione, ci bruciava assai, come la nostra sordità bruciava a lui, che ci rimproverava incessantemente di tacere sugli incredibili processi e le intollerabili esecuzioni che avvenivano nelle «democrazie popolari».

Ero stata incaricata tra l’altro di rimettere in piedi la Casa della cultura di Milano, la cui prima forma era stata disastrata dalle elezioni del ’48; avevo chiesto a Fortini di farne parte, egli aveva accettato ma non per tacere nei confronti di quello che gli pareva un vero disastro sul piano politico e morale.

Per cui quando uscivano le sue rampogne e seguiva il contrattacco su Società o su Rinascita, mi trovavo giusto sulla linea del fuoco incrociato: Franco mi telefonava esulcerato di prima mattina e non era facile calmarlo, Roma (Rinascita) era lontana, Firenze (Società) anche e non si poteva contare su un intervento della Federazione socialista di Milano, allora diretta da Rodolfo Morandi, più che silenziosa nei confronti del Pci, tanto più che era in corso la vertenza sui consigli di gestione in fabbrica.

Il mio rapporto con Fortini per anni fu permanente ma difficile, per sfociare soltanto alla fine degli anni Cinquanta in un’amicizia che non sarebbe più cessata malgrado le sfuriate reciproche.
Oggi è più facile vedere quanto Fortini avesse ragione.

Il Pci non attaccò l’Unione sovietica mai, neppure con una prudente discussione fino a che Berlinguer non cominciò la sua critica nel ’69 alla conferenza dei partiti comunisti e operai a Mosca, né si fece mai su questo un’autocritica; nel dopoguerra la sua linea contro l’imperversare di Zdanov consisté nel dare alle stampe, tramite Einaudi, i Quaderni dal carcere di Gramsci, definito da Togliatti fondatore del Pci nonché martire del fascismo e perciò inattaccabile.

Per cui Franco Fortini non rinunciava a imputargli una viltà se non una copertura delle pratiche orrende delle democrazie popolari, che pesavano su noi tutti, anche quando il problema, dopo il 1956, si fece bruciante: 1947-1957 sono appunto i dieci inverni, le gelate ideologiche che ricostituiscono le tappe di un percorso per noi in pura perdita (Politecnico, i primi sciagurati interventi di Togliatti sulle arti figurative, in cui si trovò contraddetto prudentemente anche da Guttuso, la difesa dei modestissimi ma ben intenzionati romanzi neorealisti come L’Agnese va a morire o il Metello – ricordo che Muscetta li rimproverava di passare più tempo in camera da letto che alla camera del lavoro – e dei film neorealisti non senza passare sulle braci ardenti delle scienze, Aloisi e il caso Lyssenko, fino alla contesa con i critici cinematografici «sciolti dal giuramento»).

Non so valutare quanto questi interventi abbiano pesato sul percorso della letteratura, delle arti e delle scienze, ma sono persuasa che ebbero una conseguenza fatale per la disfatta attuale dei partiti comunisti: da allora fummo segnati per sempre dal marchio di essere un partito dittatoriale. Anche se è facile, ma non ci assolve, confrontarci con altri partiti come quello francese che espelleva a destra e a manca, mentre il Pci è meno violento. Per cui nella cerchia degli 81 partiti comunisti ci facemmo la fama di essere il più intelligente e tollerante.
Certo mi impressionò, quando due o tre anni fa mi sono imbattuta per caso sui verbali stenografici del processo in cui fu coinvolto, finendo poi fucilato, anche Bucharin, accorgendomi che quel materiale era stato pubblicato formalmente dall’Urss mentre neppure i più illustri compagni di strada come Romain Rolland o Jean Pierre Vernant (che non erano neppure legati dalla milizia comunista) hanno voluto o non si sono sentiti di alzare la voce contro le nefandezze indirizzate dal procuratore Viscinski appunto a Bucharin. Ammesso che noi possiamo scrollarci di dosso la medesima responsabilità: io me ne vergogno ancora.
Alcuni fra di essi avanzano una giustificazione: «Perché mi schierai con la posizione dell’Urss? Ma per battere il fascismo». Come se sarebbe stato più difficile batterlo prendendo le difese di Slanskj.

In verità questi scritti di Fortini vanno riletti oggi perché la sua analisi va ben oltre il rifiuto di tollerare quello scandalo, anzi di tollerarlo tantomeno in quanto veniva dalla sua parte politica, riguardano il rapporto fra rivoluzione e cultura, indicando anche la debolezza di posizioni non perseguitate o almeno non messe a morte.

L’intransigenza di Fortini non è mai unidimensionale, è stato più che mai attento a non dimenticare il nemico – come invece i comunisti hanno scordato di fare nel 1989, fin dal primo scambio fra Occhetto e Craxi.

Del resto non è semplice distinguere volta a volta il crinale ideologico su cui passa lo scontro di classe. Non è semplice ma proprio per questo Dieci inverni è un testo prezioso per la riflessione ancora oggi (penso anche al modo in cui Fortini giudica le ragioni non solo nei disaccordi ma anche negli accordi come su Ladri di biciclette, o sulla posizione di Vittorini, del quale è stato sempre amico e sodale, dopo la chiusura di Politecnico).
il manifesto 28.10.18

IL PORTAFOGLIO VIENE PRIMA DI TUTTO ANCHE PER I "SOVRANISTI"


Da sinistra a destra, il premier ungherese Viktor Orban e il vicepremier Matteo Salvini. I due si sono incontrati il 28 agosto, presso la prefettura di Milano (foto Ansa)

Quando di mezzo c’è il portafoglio, Salvini resta solo in Europa
–di Barbara Fiammeri  

Prima l’immigrazione, il rifiuto perentorio di solidarizzare con l’Italia nella ripartizione degli stranieri sbarcati sulle nostre coste. Ora arriva il «no» secco e senza appello anche sulla manovra. L’alleanza sovranista si è sfaldata. A conferma che quando si passa dalle dichiarazioni di principio sulla salvaguardia dei valori a quella del portafoglio, le alleanze come le amicizie e perfino le parentele vengono messe a dura prova.
Il primo a chiedere la bocciatura delle scelte del governo italiano è stato infatti Sebastian Kurz («non siamo disposti a pagare i debiti italiani») , il cancelliere austriaco, da sempre considerato uno degli alleati di Matteo Salvini e che assieme al premier ungherese Viktor Orban rappresenta l’ala destra del Ppe.
Sono loro che dovrebbero favorire la nuova Grosse koalition, dopo le elezioni europee di maggio 2019, tra il Ppe e i nazionalisti del gruppo Enf dove la Lega si appresta a diventare il primo partito, tant’è che si parla da settimane insistentemente della possibile investitura di Salvini come candidato dell’intero asse sovranista per la guida della Commissione.
Eppure a schierarsi contro l’Italia e il governo gialloverde, con toni duri e anche sarcastici, è stata anche Alice Weidel, leader di Alternative fur Deutschland, il partito dell’estrema destra tedesca reduce dal successo in Baviera, che a Strasburgo condivide lo stesso gruppo parlamentare del Carroccio: «Salvini sbraita, ma gli sfugge che l’Italia senza la flebo della Ue sarebbe fallita da tempo» .
Dichiarazioni non troppo incoraggianti. Anche perchè chi non ha parlato (vedi Orban) si è trincerato dietro un silenzio che non promette nulla di buono. Un campanello d’allarme. Soprattutto per Salvini. Il leader della Lega ha moltiplicato i consensi anche in Europa grazie alla sua battaglia per fermare gli sbarchi dei migranti. Ma ora siamo in autunno inoltrato, il mare è mosso e più dei migranti in arrivo preoccupano i conti degli italiani.

© Riproduzione riservata


Anche Leonardo Sciascia amava la poesia

Maria Grazia Insinga, Giovanna Rosadini, Aldo Gerbino e Nicola Romano il 27/10/ 18 nella Libreria Macaione

Aldo Gerbino, Nino Buttitta e Francesco Virga nella Libreria Broadway per la presentazione del n. 3/2013 della rivista nuovabusambra  


     Sabato scorso Aldo Gerbino, in occasione della presentazione dell'ultimo bel libro di Giovanna Rosadini, nel ricordare una recensione del trentenne Leonardo Sciascia di una silloge poetica della nipote prediletta del grande critico Luigi Russo, ha giustamente ricordato che, a differenza di quanto pensano tanti, lo scrittore di Racalmuto ha amato la poesia. Non a caso ha tradotto tanti poeti (di lingua castigliana, soprattutto) e, oltre a scrivere personamente molti versi, ha dato tanto spazio alla poesia nella rivista GALLERIA che dirigeva.
       L'indomani, nelle pagine culturali de LA SICILIA di Catania, Zino Pecoraro, a conferma di quanto il giorno prima a Palermo aveva detto Gerbino, ha citato alcuni versi di Leonardo Sciascia che mi piace riprendere stamattina anche perchè si avvicina il giorno dei morti.
     Naturalmente trattandosi di versi scritti, prevalentemente, nei primi anni cinquanta, e dedicati soprattutto al suo paese natale, da essi, oltre al sentimento del poeta, si può ricavare anche una immagine realistica della Sicilia di quegli anni.(fv)

 I morti

I morti vanno, dentro il nero carro
incrostato di funebre oro, col passo
lento dei cavalli: e spesso
per loro suona la banda.
Al passaggio, le donne si precipitano
a chiudere le finestre di casa, 
le botteghe si chiudono: appena uno spiraglio
per guardare al dolore dei parenti,
al numero degli amici che è dietro,
alla classe del carro, alle corone.
Così vanno via i morti, al mio paese;
finestre e porte chiuse, ad implorarli
di passar oltre, di dimenticare
le donne affaccendate nelle case,
il bottegaio che pesa e ruba,
il bambino che gioca ed odia,
gli occhi che brulicano
dietro l'inganno delle imposte chiuse.

Da La Sicilia, il suo cuore (1952)



28 ottobre 2018

Mahmūd Darwīsh, Dal gelsomino scorre sangue bianco


ph. alessandra fini

Dal gelsomino scorre il sangue bianco
della notte. Il tuo profumo
è la mia debolezza e il tuo segreto mi
perseguita come il morso di un
serpente. I tuoi capelli,
tenda di vento dai colori autunnali.
Cammino con le parole
fino alle ultime parole dette dal beduino
a due coppie di colombe.

Ti tocco come il violino la seta del
tempo remoto.
E intorno a me, a te, cresce l'erba di un
luogo antico
e nuovo.

Mahmūd Darwīsh, Sonetto V

ITALO CALVINO, Non aver più paura





L’uomo porta dentro di sé le sue paure bambine per tutta la vita. Arrivare ad non avere più paura, questa è la meta ultima dell’uomo.

Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno

GIOVANNA ROSADINI IERI A PALERMO


Da sn: Franca Alaimo, Maria Grazia Insinga, Giovanna Rosadini, Aldo Gerbino e Nicola Romano


Ieri sera, nello spazio Cultura della Libreria Macaione di Palermo,
grande incontro di poesia e di poeti  


Poi, quando il fuoco avrà ingoiato tutto,
saremo estinti, saremo cenere,
saremo linfa per un nuovo frutto,
limpida e chiara a disegnare
nuove trame, rovescio esangue
che si apre alla domanda, 
riflesso implicito che svela 
una presenza, nudo paesaggio
di cui non si può più far senza... 

Giovanna Rosadini in  Fioriture capovolte

27 ottobre 2018

E' NECESSARIO UN DOPPIO SGUARDO






Quante volte si è detto
il mondo deperisce.
Quante volte si è detto
il mondo fa naufragio.
 
Dovremmo misurare meglio
le parole: ché il mondo
deperisce eppure ingrassa;
e mentre naufraga galleggia.
 
È questa la fatica
a cui siamo vocati: sostenere
un doppio sguardo, capace
di fissare in faccia la rovina
e assieme la lamina di sole
che accende ogni mattina.

FRANCO MARCOALDI, Il tempo ormai breve, Einaudi 2008