Walter Benjamin gioca a scacchi con Bertolt Brecht
In occasione del recente anniversario della morte di Walter Benjamin (26 Settembre 1940 a Portbou in Spagna), proponiamo una recensione di Esperienza e povertà (Castelvecchi), raccolta di quattro importanti saggi del grande pensatore tedesco, a cura di Massimo Palma.
Rileggere oggi Walter Benjamin (come Simone Weil, Antonio Gramsci e Albert Camus) si impone come un comandamento intellettuale, in questi foschi tempi di barbarie
La necessità di Walter Benjamin
di Adriano ErcolaniRiflettere sull’opera di Walter Benjamin, potente e luminosa nella sua vulcanica asistematicità, è un esercizio filosofico sempre più urgente.
Con lucida fedeltà al pensatore berlinese, Massimo Palma nella sua introduzione (chiamata con ironia hendrixiana Walter Benjamin Experience), dopo aver ricostruito gli ultimi giorni, tragicamente rocamboleschi, del filosofo, osserva il fenomeno attuale del Benjamin Expo, cercando però proprio nella sua opera gli antidoti al contagio di una sua superficiale riduzione a santino. “Se non ha senso pensare di sottrarlo al valore d’esposizione che ha assunto il suo profilarsi come “prodotto”, è forse opportuno cercare di rinvenire all’interno della sua opera – proprio in quegli ultimi anni – gli antidoti a una sua presentazione come valore cultuale” scrive Palma,per poi continuare “Che Benjamin di tali meccanismi abbia rivelato presupposti e modalità ormai ottant’anni fa non è solo un ulteriore elemento d’interesse di una vicenda che lo vede protagonista suo malgrado di un processo di estetizzazione, ma una ragione per indagare nella sua opera se egli non abbia segnalato qualche antidoto a questa deriva che lo riguarda”.
Parole sagge che potrebbero valere, mutatis mutandi, anche per Pier Paolo Pasolini.
In maniera meno ardente ma più rigorosa che nell’intellettuale di origini friulane, come scrive precisamente Fabrizio Desideri all’inizio del suo saggio Dottrina della percezione e crisi della democrazia (in Tecniche di esposizione. Walter Benjamin e la riproduzione dell’opera d’arte, di cui già parlammo con i curatori), in Benjamin “la diagnosi dell’attualità si fa telescopage del futuro”.
Leggendo i quattro saggi raccolti nella presente edizione, ciò appare con impressionante evidenza: il primo saggio, Il carattere distruttivo (1931) sembra (per usare un’espressione abusata) “scritto stamattina”: “Il carattere distruttivo sta nel fronte dei tradizionalisti. Alcuni tramandano le cose rendendole intangibili e conservandole, altri le situazioni, rendendole maneggevoli e liquidandole”.
Ottantasette anni fa.
Il secondo saggio, Scavare e ricordare (1932) anticipa temi e intuizioni del saggio più celebre dell’anno successivo, che dà il nome alla raccolta, Esperienza e povertà.
Qui si trovano, al culmine di un ragionamento sul cambiamento del concetto stesso di esperienza dopo le atrocità della Prima Guerra Mondiale (pagine scritte con inquietante premonizione nel 1933), alcune considerazioni cruciali: “cosa vale l’intero patrimonio culturale, se proprio l’esperienza non riesce a congiungerci a esso?”, per poi giungere al noto passaggio sul “nuovo, positivo concetto di barbarie”, poi ripreso nella settima tesi della raccolta Sul concetto di storia. Nonostante le chiari differenze di pensiero tra i tre autori, sono parole non distanti dalle considerazioni quasi contemporanee di Artaud all’inizio del saggio su Il Teatro e il suo doppio del 1938 (“La cosa più urgente non mi sembra dunque difendere una cultura, la cui esistenza non ha mai salvato nessuno dall’ansia di vivere meglio e di avere fame, ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura, delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame”) e dalla celeberrima intuizione poetica di Costantino Kafavis di Aspettando i barbari del 1904 (“E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?/ Era una soluzione, quella gente”).
Meravigliosa, nella sua definitiva laconicità, la sentenza sulle “migliori menti” a lui contemporanee: “Il loro segno distintivo è la totale mancanza di illusioni sull’epoca e tuttavia una professione di fede senza scrupoli a suo favore”.
L’ultimo, bellissimo, saggio su Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov ha il merito, peculiare della grande mente critica di Benjamin, di cogliere in un autore apparentemente minore rispetto ai giganti della letteratura russa, sebbene di grande fascino, la presenza di temi fondanti della letteratura: la necessità e l’impossibilità attuale dell’epica, lo spirito della fiaba e l’avvento del romanzo, il meraviglioso e il sacro.
Temi in nuce presenti nella celebre considerazione: “L’arte di narrare tende al termine perché la parte epica della verità, la saggezza, sta morendo. È un processo che viene da lontano. E nulla sarebbe più fatuo di voler ravvisare in esso unicamente un “fenomeno di decadenza”, naturalmente “moderno”. Piuttosto, si tratta di un fenomeno concomitante delle forze di produzione storiche e secolari, che hanno sottratto la narrazione al regno della parola vivente, rendendo al contempo percepibile una nuova bellezza in ciò che stava svanendo”.
Parole di un nitore intellettuale ancora illuminante.
Rileggere Walter Benjamin (come Simone Weil e Albert Camus) si impone come un comandamento intellettuale, in questi foschi tempi di barbarie non positiva.
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