Due giorni fa Alfredo Reichlin - un vecchio comunista pentito - ha scritto su L'UNITA' un articolo che, malgrado tutto, contiene qualche verità. Lo ripropongo di seguito:
Alfredo Reichlin - La partita dell’Europa
Con l’espulsione di Berlusconi dal Parlamento e l’uscita dal governo
dell’ala estremista del suo vecchio partito si sono aperti nuovi scenari. La
sinistra ne dovrebbe approfittare per riflettere sulla sua esperienza di
governo con un po’ più di respiro. L’emergenza non è finita, dalla crisi non
siamo ancora usciti, e ciò per tante ragioni. Molte riguardano la necessità di
quel «cambio di passo» di cui parla Enrico Letta. Però io vorrei attirare
l’attenzione sul fatto che nodo politico principale, in ultima istanza, è il
pesante interrogativo sul dove va l’Italia se il cammino dell’Europa resta così
incerto.
Siamo seri, il cuore delle riforme è questo. È il rapporto tra un grande
Paese come il nostro che non riesce a riformare il complesso del suo
«organismo» (il nesso tra Stato e società) e una moneta unica che continua a
non avere un sovrano, e che quindi non dipende da un potere collettivo,
condiviso, bensì da vincoli in larga parte imposte dalle scelte del Paese più
forte. Il problema, a questo punto, non è più soltanto economico. Io credo sia
matura una riflessione sulle forme del potere in un mondo globalizzato. È qui
che si gioca la partita della democrazia. Pongo questo problema alla vigilia
delle primarie del Pd. Lo faccio per l’enorme responsabilità che pesa su questo
partito e, nella convinzione che chiunque sia il vincitore molto dipende dalla
coscienza di sé e del ruolo che è in grado di esprimere quell’insieme di
bisogni, di culture e di speranze che mi ostino a chiamare la «sinistra», e che
non accetterà mai di farsi emarginare, essendo un fattore costitutivo del Pd.
So che la parola «sinistra» turba alcuni nostri amici. Ma forse non si è capito
che con essa non si intende evocare storie e attori del passato. Al contrario,
si cerca di misurarsi con le nuove dimensioni dei problemi e, quindi, della
politica.
L’avanzata delle destre in tutta Europa non è leggibile (solo) con
categorie sociologiche (i ricchi, i poveri, gli emarginati, i nuovi ceti) né
(solo) con le tradizionali categorie politiche. Per capire cosa sta succedendo
dobbiamo partire dalla nuova dimensione, ormai mondiale, dei processi politici
e sociali essendo questi essenzialmente questi che ridefiniscono i termini dei
conflitti e dei nuovi bisogni. È giusto condannare quella falsa risposta che è
il «populismo». Ma la sinistra rischia davvero di ridursi a una èlite
minoritaria, se non capisce che dietro il «populismo», cioè dietro l’appello
diretto e demagogico al popolo in contrapposizione al sistema politico e
istituzionale democratico (comprese le leggi e i tribunali, nel caso della
destra italiana) non c’è solo il vecchio qualunquismo. C’è il fatto che il
centro di gravità del potere risiede sempre meno nelle istituzioni
rappresentative. È anche a causa di ciò che si è creata quella profonda
frattura tra dirigenti e diretti che quasi ovunque si manifesta. Il popolo
emerso dalla vecchia società non capisce più chi lo rappresenta, sente la
vacuità della vecchia politica e finisce col condannare tutto e tutti. Possiamo
disprezzare i demagoghi che ne approfittano, ma la sinistra riformista sbaglia
se non capisce che dietro tutto questo c’è la necessità di ridefinire il senso
e la ragione effettiva del riformismo nel mondo globale.
Dobbiamo uscire da una grande contraddizione. Siamo e restiamo convinti che
una prospettiva di sviluppo dell’Italia non è pensabile se finiamo ai margini
dell’Europa. Ma, al tempo stesso, non possiamo accettare i diktat
dell’oligarchia dominante. Perché è vero che non è la signora Merkel ma sono i
nostri sprechi e le nostre rendite più o meno malavitose che hanno accumulato
l’enorme debito pubblico. Ma il rischio che il debito italiano diventi
insostenibile resta, e tale resterà fino a quando ci viene imposta una linea di
politica economica in cui il «rigore» si mangia le risorse per lo sviluppo e in
cui i profitti finanziari si formano a scapito dell’occupazione, dei servizi
sociali e degli investimenti produttivi.
Come ne usciamo? La mia tesi è che l’alternativa, in realtà, non è così
secca: o mangi questa minestra o salti dalla finestra; o esci dall’Europa o ci
stai dentro in questo modo. Bisogna mettere in campo la grande politica, una
nuova soggettività. Non bastano i «numeri» dei centri studi, ci vogliono nuove
alleanze, politiche e sociali. Sarebbe semplicemente stupido non tener conto
dei numeri che riflettono la realtà e i suoi vincoli. Ma cos’è la realtà? Non è
così banale e così ovvio ricordare che la realtà siamo anche noi, non sono solo
i fattori esterni a noi. La realtà sono anche gli italiani: la volontà e i
pensieri di sessanta milioni di persone, un quinto degli europei. La realtà non
sono solo i pochi che contano.
Mi chiedo, a questo proposito, noi oggi in
Italia chi rappresentiamo, e chi, di fatto, abbiamo rappresentato in tutti
questi anni di governo. Ce la poniamo questa domanda? Dopotutto i popoli esistono
e alla fin fine ciò che decide è il loro modo di pensare, di schierarsi, di
unirsi o di dividersi. Non si capisce perché la loro voce non può diventare
quella di una nuova domanda di democrazia invece di quella della protesta
eversiva, senza sbocco. Forse pesa anche il fatto che il nostro linguaggioè troppo simile a quello felpato dei ministri. Certo è che la costruzione
europea non regge se consiste solo in un interminabile negoziato quasi
incomprensibile e riservato a vertici ristretti. Non è realistico. Non è
possibile misurarsi con la complessità dei problemi e dei poteri di un insieme
variegato di Stati se non si mette in campo la forza di un grande e chiaro
disegno politico alternativo, sia pure a medio termine, cioè con l’idea di una
Europa diversa e messa sulle gambe di un movimento reale; democratico e di
sinistra.
Io inviterei a riflettere bene sulla grande questione che sta venendo
all’ordine del giorno. La questione della democrazia e della sovranità in un
contesto sovranazionale. E inviterei tutti noi gli anziani ma anche i giovani a
smetterla di pensare la politica solo nell’ambito del breve periodo. Governare
non significa solo stare al governo, significa anche mettere in campo un grande
disegno politico capace di parlare a trecento milioni di persone, tra le più
colte e le più ricche del mondo, le quali non possono stare alla mercè di un
pugno di eurocrati, se non peggio. Che prospettive ha la sinistra se non
affronta questo problema?
Vorrei concludere con le parole di un autentico statista europeo, l’ex
cancelliere Helmut Schimt. «Ci troviamo di fronte a uno scenario in cui alcune
migliaia di speculatori finanziari e qualche agenzia di rating americane hanno
preso in ostaggio i governi europei». E così concludeva: «Se gli europei
avranno la forza e il coraggio di imporre una drastica regolamentazione del
mercato finanziario potremmo pensare di diventare una zona essenziale per
stabilizzare il mondo. Se falliremo, il peso dell’Europa continuerà a diminuire
e il mondo si avvarrà avvierà verso un duopolio Washington-Pechino».
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