«Prima di Benito Mussolini, nessun capo del governo italiano dedicò una simile attenzione alla produzione editoriale del proprio paese. Il Duce, forse per abitudine professionale da esperto redattore qual era, forse per appagare le sue ambizioni d’intellettuale autodidatta, lo fece costantemente, durante l’intero Ventennio. In questo modo, divenne una sorta di primo censore dell’editoria italiana.»
Il progetto fascista si proponeva di plasmare le opere e la volontà degli scrittori italiani. Dalla soppressione dell’opposizione liberale e socialista alla collaborazione più o meno genuina di sedicenti scrittori fascisti, dai rapporti con il Vaticano all’emergere delle politiche antisemite, il libro propone un viaggio originale nel Ventennio attraverso vicende spesso dimenticate della censura libraria. Al centro di ogni capitolo uno scrittore, un editore famoso o una storia particolarmente significativa: dal fascismo della ‘seconda ora’ di Brancati agli entusiasmi strumentali di Mondadori; dalla rabbiosa censura contro Sambadù, amore negro di Maria Volpi agli equilibrismi di Bompiani; dalle autocensure di Margherita Sarfatti alla barbarie delle leggi razziali. I concreti atti di protesta di personaggi come Piero Gobetti, Roberto Bracco e Benedetto Croce risaltano ancor maggiormente perché appaiono come picchi isolati in una distesa di piatto conformismo e di compromessi opportunistici.
Clotilde Bertoni - La
sottomissione dei chierici
Pare che
Mussolini, incontrando Matilde Serao, che aveva aderito al manifesto degli
intellettuali antifascisti di Croce e Amendola, provasse a blandirla
chiedendole cosa le costava essere fascista almeno un po’. Se Serao morì poi
nel 1927, troppo presto per prendere una posizione definitiva, si sa bene che a
moltissimi altri scrittori essere un po’ e anche parecchio fascisti non costò
per niente. E si sa pure che il loro assoggettamento era importante per il
dittatore, già giornalista e (almeno nelle aspirazioni) uomo di cultura,
tendente – osserva Sciascia nel Teatro della memoria – a governare
l’Italia «come un redattore-capo»: attento dunque – oltre che a filtrare o
snaturare le notizie – a imbrigliare le voci autorevoli, fagocitando la classe
intellettuale esistente, formandone una nuova, e controllando tutti i canali di
espressione, dalle accademie alla stampa, dal teatro alla produzione libraria.
Su quest’ultimo versante si concentra Mussolini
censore. Storie di letteratura, dissenso e ipocrisia (Laterza, pp. XIV-231,
E 18,00) di Guido Bonsaver (già autore di uno studio in inglese sullo stesso
argomento, qui ripreso e ampliato). Una vasta inquadratura, che ripercorre
tappe diverse della dittatura, celebri o dimenticate: dai sequestri di volumi
ordinati attraverso le prefetture, alla creazione del Ministero della Stampa e
della Propaganda (divenuto nel 1937 il famigerato Minculpop); dall’intervento
di Mussolini, nel 1934, per bloccare l’uscita del romanzo di Maria Volpi Sambadù,
amore negro (storia di amore interrazziale inaccettabile alle soglie della
guerra d’Etiopia), alla sua disapprovazione, nello stesso anno, per La
favola del figlio cambiato, opera lirica di Malipiero e Pirandello
(sostenitore del regime ma ugualmente incline a una visione sconsacrante del
potere); dalle delibere della Commissione di bonifica libraria – destinata a
espungere dai cataloghi tutte le opere di autori ebrei e di contenuto
antifascista – alle ripercussioni delle leggi antisemite (che costringono
all’esilio la Margherita Sarfatti già regista della politica culturale del
fascismo, e inducono al suicidio un editore di gran talento, Angelo Fortunato
Formiggini).
Oltre a richiamarsi a studi precedenti (specie quelli
di Philip Cannistraro e Giorgio Fabre), il libro fa leva su approfondite
ricerche d’archivio; e se ogni tanto eccede in sintesi, e incorre in una svista
(è impossibile che le modifiche al radiodramma Come tu mi vuoi, tratto
nel 1941 dall’omonima pièce pirandelliana, siano state chieste a
Pirandello stesso, scomparso nel 1936), riesce a illuminare efficacemente sia
la lunga durata della censura, sia la quantità di mediazioni, incertezze, cambi
di rotta che ne agitano il corso.
Innanzitutto, l’asservimento della cultura è
tutt’altro che omogeneo, segnato da compromessi, oscillazioni, metamorfosi: il
passaggio dell’inizialmente schieratissimo Brancati (che consulta Mussolini sul
finale del dramma encomiastico Piave) a tematiche più originali e
posizioni più defilate; l’atteggiamento provocatorio e antiborghese, non
gradito al fascismo più ortodosso, di scrittori cresciuti all’ombra del regime,
che vanno poi in direzioni ben diverse, come Berto Ricci, Bilenchi e Vittorini;
l’indipendenza un po’ malferma di Moravia, sospettato di antifascismo, ma
capace, per proseguire la collaborazione con “La Gazzetta del popolo”, di
indirizzare a Mussolini due proteste di devozione; le acrobazie dei grandi
editori, che portano avanti una produzione di alto livello mediante infinite
concessioni e trattative (i mutamenti alla leggendaria antologia Americana accettati
da Bompiani, le insistenze di Mondadori per pubblicare Remarque e Steinbeck, la
sua spontanea rinunzia a dare alle stampe Les Thibault di Martin du
Gard), e persino sbalorditive genuflessioni (la lettera in cui Bompiani
ringrazia per l’«ambitissimo dono» di una foto con dedica del duce).
D’altra parte, la stessa intolleranza del governo può
occasionalmente allentarsi o contraddirsi. A volte si tratta di intoppi pratici
o direttive contrastanti: la circolazione dei romanzi di Moravia è a più
riprese arrestata, nuovamente permessa, nuovamente impedita; Conversazione
in Sicilia di Vittorini è al principio, malgrado il suo potenziale
eversivo, elogiato anche dalla stampa di più marcato orientamento fascista, ma
poi, nel 1942, stroncato da un feroce pezzo anonimo comparso sul “Popolo
d’Italia”, secondo Bonsaver probabilmente opera di un collaboratore assiduo del
giornale, il fascistissimo classicista Goffredo Coppola (al centro di un altro
rilevante libro sui rapporti tra cultura e regime, Il papiro di Dongo di
Luciano Canfora).
A volte poi, la dittatura entra in attrito con un
potere censorio subalterno ma non privo di peso, quello della Chiesa, che
Mussolini, per ribadire la propria supremazia, non manca di osteggiare ancora
dopo i Patti Lateranensi. Intanto, il duce conserva una certa indulgenza per la
narrativa di argomento erotico e anticlericale (in cui si era a suo tempo
cimentato, con L’amante del cardinale), ad esempio per i romanzi di
Pitigrilli e Guido da Verona, peraltro pervasi di una tale verve irriverente
(per inciso, degna di riscoperta) da infastidire i fascisti stessi; e inoltre,
asseconda testi più direttamente lesivi dell’autorità vaticana, come il dramma
storico di Sem Benelli Caterina Sforza, di cui nel 1934 consente la
rappresentazione, nonostante le pressioni della Santa Sede. Un episodio,
quest’ultimo, in cui spicca soprattutto la reazione dell’“Osservatore romano”,
che attacca Benelli anche per le sue presunte origini ebraiche, e alla smentita
di questi replica con l’agghiacciante stoccata «Non giudeo. Ma Giuda»: un
esempio di quel pervicace antisemitismo di matrice cattolica, solida
piattaforma per l’antisemitismo imposto di lì a poco dalle leggi razziali,
vergogna dolorosa della nostra storia, che a tutt’oggi ci si ostina a
rimuovere.
Se il generale panorama di oppressione e conformismo è
dunque punteggiato da frizioni e tentennamenti vari, sono invece rari, e per
questo più toccanti, gli atteggiamenti che lo infrangono davvero. Atteggiamenti
di tipo differente, come mostrano gli esempi menzionati dal libro: la protesta
ardente e presto stritolata, di Gobetti; il dissenso sommesso e impavido del
drammaturgo Roberto Bracco, altro firmatario del manifesto crociano, che ha
sempre più difficoltà a portare in scena le sue opere, si ritrova isolato e
povero, ma rifiuta (peraltro con toni garbatissimi) la sovvenzione che il
governo, dietro intercessione dell’attrice Emma Gramatica, si decide a
elargirgli; e la costante opposizione appunto di Croce, che tra l’altro, come
Bonsaver ricorda, appoggia risolutamente Laterza contro la censura sugli autori
ebrei.
Un’opposizione, quella di Croce, poi tanto discussa,
perché non abbastanza tempestiva, non abbastanza eroica, non abbastanza lucida
sulla natura del fascismo; ma di fatto capace di resistere fermamente a un
ostracismo duro quasi quanto la censura diretta, cioè a uno stato che, in una
lettera a Vossler del 1936, il filosofo definisce «quasi di reclusione o di esclusione»
(aggiungendo: «In Italia il mio libro sulla Poesia ha avuto solo un
articolo, nel quale si dichiara che il libro non val nulla e potevo far di meno
di scriverlo»). Chissà se alcuni degli intellettuali di oggi – quelli che non
esitano a pubblicare con case editrici che disprezzano, a scrivere su giornali
asserviti e a gareggiare per premi screditati – sarebbero in grado di fare
altrettanto.
[Questo articolo è stato già uscito su Alias/Il
Manifesto il 13 giugno 2013]
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