05 novembre 2015

LE STRADE DI CELINE


Le strade di Céline

       1.
     Viaggiare, a volte, è l’incapacità di stare in un posto. Perché ogni luogo sembra in agonia, ogni città è un mondo senza luce, uno spettacolo sordido. E lo scenario offerto dalla natura non sembra proporre una valida alternativa: a volte non si distingue troppo dalla realtà urbana, ne è la  prosecuzione, il suo specchio deformato; altre volte appare così estraneo, così sconcertante da respingerci, da metterci voglia di fuggire via. Ci sono le strade, ma non portano da nessuna parte.
     Abbiamo appena iniziato il Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline e ogni via di fuga sembra già impossibile, ogni altrove ormai cancellato: «La natura è una cosa spaventosa e anche quando è assolutamente addomesticata, come al Bois, dà ancora una specie di angoscia ai veri cittadini». Gli eventi storici, in particolare la guerra, hanno modificato la percezione dell’ambiente naturale, il nostro modo di sentire un bosco, un albero. Ciò che in apparenza è innocente potrebbe nascondere una trappola, la morte: «L’immenso ventaglio di verzura del parco si distende al di sopra dei cancelli. Quegli alberi hanno la dolce ampiezza e la forza dei grandi sogni. Ma ora diffidavo anche degli alberi, dopo che c’ero passato attraverso le loro imboscate».
     Alla città si oppone soltanto, dunque, l’angoscia e l’insidia della natura, anche quando sembra presentarsi nella veste più docile e arresa. Sono spazi, quelli evocati da Céline, che non concedono scampo, che stringono attorno al narratore le proprie spire. E a guardarla, la città, in questa prima parte del romanzo, si mostra come una fiera sorpresa dal silenzio, svuotata di luci e di allegria. I  segni della festa finita, di un mondo deturpato e dissolto, restano ai bordi delle strade, a rendere ancora più intollerabile il paesaggio: «Nel grande abbandono molle che attornia la città, là dove la menzogna del suo lusso viene a gocciolare e a finire in putrefazione, la città mostra a chi vuol vederlo il suo gran deretano in casse di spazzatura. Ci sono fabbriche che si evitano andando a spasso, che puzzano di tutti gli odori, le une appena credibili e dove l’aria circostante si rifiuta di puzzare di più».
     Sono luoghi che raccolgono figure deformi, dove anche l’infanzia è negata: «Vicino, marcisce la festa dei baracconi, tra due alte ciminiere ineguali, i suoi cavalli di legno sono troppo cari per quelli che li desiderano, spesso per settimane intere, piccoli mocciosi rachitici, attirati, respinti e trattenuti nello stesso tempo, tutti con le dita nel naso, dal loro abbandono, dalla povertà e dalla musica».
     E’ la fine di una civiltà, il grottesco corteo funebre dell’Occidente? Non c’è più niente da conoscere e da imparare, in luoghi come questi. Suggeriscono il desiderio di fuga, ma non riescono a soddisfarlo, come se le strade – dritte, grigie, interminabili – fossero le sbarre di una prigione.
       2.
     Conviene voltare pagina, e cambiare vita. Andare alle origini. In Africa, dunque. L’Africa è il colore, la natura che non conosce confini, che esplode davanti agli occhi e tra le mani. L’Africa è un cuore che palpita, rosso di sangue e di sole. È la vita, una forza indomabile? No, non è la liberazione. E’ solo un’altra forma dell’inquietudine, lo specchio rovesciato del continente europeo. La vegetazione si mostra rigonfia, aggressiva e feroce persino entro le palizzate di un giardino, le fronde degli alberi assomigliano a «lattughe in delirio intorno ad ogni casa», e ogni casa è simile a «un raggrinzito grosso bianco d’ovo solido in cui terminava di marcire un giallo europeo».
     L’Africa potrebbe essere la bellezza, la luce, l’ambiente originario. Ma  il narratore non sa ascoltare questi richiami. Avverte solo la voracità della natura, il sapore acido di un cibo andato a male: «Tutto solo per me, dunque, il paesaggio! Avrei avuto ormai tutto il tempo per ritornarci, pensavo, alla superficie, e nelle profondità di quell’immenso fogliame, di quell’oceano di rosso, di giallo marmoreo, di venature fiammeggianti, magnifiche senza dubbio per quelli che amano la natura. Io proprio non l’amavo. La poesia dei tropici mi disgustava. Il mio sguardo, il mio pensiero su quell’insieme mi davano la nausea come il tonno. S’ha un bel dire, ma sarà sempre un posto per zanzare e pantere. A ognuno il proprio posto».
     Per Céline questo posto è la strada. Luogo dell’infelicità, dell’emarginazione, della follia, ma luogo a cui non ci si può sottrarre, che attira gli uomini come se fossero insetti, li inghiotte e li sputa via. Sono un groviglio, le strade, un labirinto di cui non si riesce a vedere l’inizio e la fine.
       3.
       Anche se forse è una falsa impressione. Forse c’è un punto da cui le strade sembrano nascere. E’ l’America, il mondo nuovo, avenues animate da un movimento senza sosta, cercando la felicità, il riscatto sociale, il benessere. Ma la miseria anche qui resta antica, sempre uguale a se stessa. La strada diventa una ferita, il punto dolente del mondo. Gli uomini, lungo di essa, si riscoprono ombre, figure che si recano al lavoro, che si trascinano in uno spazio ora pieno di tenebre, ora immerso in un chiarore «malato come quello della foresta», in una luce sporca, indistinta: «Era come una piaga triste la strada che non finiva più, con noi in fondo, noialtri, da un lato all’altro, da una pena all’altra, verso il termine che non si vede mai, il termine di tutte le strade del mondo».
     E la strada ricorda a Céline, anche in America, una realtà in maschera, ha l’aria di una festa finita male: sbadigli, sonno, una tristezza sbilenca. Sulle strade di Céline si affacciano le case come tetri ostelli della sofferenza, stanze della tortura e della follia, dove gli uomini, tra «réclames promettenti e pustolose», espiano il peccato di vivere.
       4.
     A modificarsi, a questo punto, è proprio l’idea stessa di viaggio. Assistiamo qui a una svolta decisiva, al capovolgimento di una tradizione che poteva vantare già la durata di qualche secolo. Il viaggio non è più un progetto, una forma di conoscenza, una scoperta dell’altro e dell’io, ma solo una smania, un’inquietudine dettata da una febbre che ti fa sentire sempre fuori posto, la necessità di uno spostamento, l’agitarsi di un malato prima dell’agonia e della fine, «la voglia di fuggirsene da qualunque posto, alla ricerca di un non so che, per uno stupido orgoglio senza dubbio, per convinzione di una specie di superiorità». E andare via vuol dire evitare le pareti di una casa, le ipocrisie di una vita in comune, il trascorrere dei giorni ridotto a una fisiologica abitudine. La casa trasforma l’uomo in un corpo maleodorante, la vita nell’attesa opaca della morte. Meglio allora restare sulle strade, anche quando ci conducono di fronte alla miseria e al dolore, di fronte alla noia, ai segni incancellabili che la vita lascia sul volto degli uomini. Meglio perdersi, in quelle strade.
       5.
     Questa idea così radicale del viaggio, un percorso che resta sempre ai margini, tra miseria e squallore, finisce per sconfinare nel territorio della follia: «Mi tenevo – scrive Céline – in pericoloso contatto con i pazzi, al loro livello per così dire, a furia di essere gentile con loro, è la mia natura. Non mi lasciavo capovolgere, ma continuamente mi sentivo in pericolo, come se m’avessero cupamente attirato nei quartieri della loro città sconosciuta».
     Il paesaggio si trasforma in una fotografia dell’io, ha la stessa incerta fisionomia dei fantasmi della mente. Diventa un luogo in cui tutto è instabile, in cui le strade diventano sempre più molli man mano che si snodano «tra le case scalcinate, le finestre crollanti e mal chiuse, tra quei dubbi rumori».
       6.
     Ed è a questo punto che diventa chiaro come le strade portino finalmente al cuore delle cose, alle radici della parola, alla voce. Le strade sono la forma della scrittura di Céline. Ne nasce una lingua fatta di nebbie e di sputi, un flusso di vocaboli che sembra non poter parlare che di muri scrostati, di fuochi, di baracche. La scrittura ritorna voce, suono prodotto dagli spasmi del corpo. Il che non impedisce di fare del linguaggio, così come lo concepiamo, il bersaglio di una critica inesorabile. Céline suggerisce di non fidarsi delle parole, della loro «aria di niente», della loro forma apparentemente indifesa che tuttavia arriva all’orecchio, si fissa nel cervello, inquina la nostra esistenza quotidiana fornendoci un’immagine deformata del mondo e delle cose.
     Meglio allora trasformare le frasi in un  barbuglio, in un suono indistinto. E’ una scrittura, quella di Céline, che vorrebbe andare oltre, anzi al di sotto della lingua («Si è stufi di sentirci sempre parlare… Si abbrevia… Si rinuncia… E’ da trent’anni che si parla… »), là dove la parola si fa rumore, brusio, sibilo e bava, dove è ancora alito e corpo. L’interesse per l’origine fisica, per non dire patologica, del linguaggio trasforma l’esercizio della scrittura in una specie di endoscopia: «Avevo l’abitudine e anche il gusto delle meticolose osservazioni intime. Quando ci si ferma al modo, per esempio, con cui son formate e proferite le parole, non resistono molto le nostre frasi al disastro del loro bavoso scenario. E’ più complicato e più penoso della defecazione, il meccanico sforzo della conversazione. Quella corolla di carne rigonfia, la bocca, che è convulsa nell’atto di soffiare, aspirare, e che si dimena, spinge innanzi ogni sorta di suoni vischiosi attraverso lo sbarramento puzzolente delle carie dentarie, che punizione!».
     Lo spostamento avviene ora all’interno del proprio corpo, tra piaghe e mucose. È come se la pagina di Céline volesse recuperare, e sottolineare, la propria dimensione viscerale, negare ogni neutra trasparenza.
       7.
     Le strade che ha percorso portano Céline a riconoscere, in questa idea di scrittura, il proprio posto, originale e isolato, nella letteratura del ‘900. Perché anche scrivere, alla fine, cambia direzione e significato: non è altro, cioè, che un continuo rimestare, un incessante impastare suoni e accenti. Non riguarda una mentale astrazione, non è un fondersi di pensiero e di pulsioni inconsce: è un gesto che porta in evidenza le sensazioni legate al tatto, al movimento del corpo. Qualcosa ancora una volta si sposta, e sono questa volta le articolazioni del discorso, i legami della sintassi, i nomi: «Un musicista – confesserà Céline a  Georges Cazal – non lascia in pace i suoni, un pittore le sue tele, un chimico… per me è la stessa cosa con le frasi». Un movimento senza sosta, come i passi lungo una strada.

Testo di Luigi Sasso ripreso da  https://rebstein.wordpress.com/2015/11/05/le-strade-di-celine/

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