Il sacro come difesa dalla violenza naturale dei rapporti fra gli
uomini. Questo il pilastro centrale della ricerca di René Girard, il
grande intellettuale francese scomparso nei giorni scorsi.
Roberto Esposito
Addio René Girard,
l’ultimo degli umanisti
Che René Girard sia stato uno dei pensatori più profondi e originali del nostro tempo è un’evidenza innegabile. Spostatosi dalla Francia in America, insegnando a lungo nelle università John Hopkins e Stanford, dove è morto mercoledì a 91 anni, ha attraversato tutti campi del sapere umanistico, dalla critica letteraria all’antropologia, alla filosofia, influenzando anche gli studi di psicoanalisi e l’esegesi biblica. Si può dire che la sua possente energia ermeneutica scaturisca, come un fascio di luce intensa e penetrante, da una intuizione originaria, continuamente rielaborata attraverso l’analisi dei testi più vari, capace di fornire una interpretazione unitaria dell’intera esperienza umana.
Si tratta di qualcosa da
sempre sotto gli occhi di tutti, ma, come spesso accade, proprio per
questo rimasta a lungo celata, che Girard riconduce al carattere
mimetico del desiderio. Come fin dalla sua prima grande opera,
Menzogna romantica e verità romanzesca (Bompiani 1965), egli
riconosce nei romanzi di Stendhal e di Flaubert, di Proust e di
Dostoevskji, che il desiderio ha una struttura non binaria, ma
triangolare.
Diversamente da quanto
pensava Freud – che pure, con Lévi-Strauss e a Durkheim, è stato
forse l’autore che lo ha più influenzato – Girard ritiene che il
desiderio umano non sia rivolto direttamente al proprio oggetto, ma
passi per la mediazione di un terzo termine, costituto dal desiderio
dell’altro. Come si desume anche dall’esperienza comune, tanto
più nella società dei consumi, noi desideriamo quello che gli altri
desiderano e precisamente per questo motivo.
Ciò significa che la società è naturalmente preda di una violenza insostenibile, la quale può essere fronteggiata solo da un potente dispositivo immunitario, che Girard individua nel sacrificio vittimario di un capro espiatorio. Tutti contro uno, uno al posto di tutti. La violenza, concentrata su un’unica vittima, mette in salvo l’intera comunità, proteggendola dalla sua naturale tendenza all’autodistruzione.
Secondo quanto l’autore
teorizza nel suo libro più conosciuto, La violenza e il sacro
(Adelphi 1980), la vittima, scelta per le sue caratteristiche
somatiche, e magari anche razziali, insieme catalizza la crisi e
restaura la pace, acquisendo così uno statuto sacrale. Per millenni
la civiltà si è riprodotta attraverso la ripetizione di
quest’evento sacrificale, raccontato da tutti i grandi miti –
naturalmente dal punto di vista dei persecutori. Come ancora nel
cuore del Novecento hanno ripetuto i nazisti, assumendo a vittima
sacrificale un intero popolo, solo la sua distruzione avrebbe sanato
il mondo da una malattia mortale.
Ma in questa storia di
sangue Girard individua una svolta decisiva nel Cristianesimo. I
Vangeli raccontano un mito sacrificale in apparenza non diverso dagli
altri. Anche nel caso della Crocifissione, un uomo, che si proclama
Dio, è circondato da una folla che lo colpisce a morte,
ricostituendo il proprio equilibrio intorno al suo corpo deriso e
violato. Ma con la differenza rilevante che questa volta il racconto
è condotto dal punto di vista della vittima. Da quel momento,
allorché sulle “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” –
è il titolo di un altro libro di Girard (Adelphi 1983) – si
squarcia il velo, tutto è destinato a cambiare.
Ciò non significa che la
violenza sia finita. Anzi, una volta crollato l’ordine sacrificale,
la minaccia che pesa sugli uomini si è ancora più estesa. Ma con
essa si è estesa anche la consapevolezza dell’incantesimo che ci
tiene prigionieri e dunque anche la possibilità di poterlo, un
giorno, spezzare. Quella che Girard ha costruito è un’ipotesi che
non pretende di essere positivamente verificata secondo un metodo
scientifico. Ma che ha dalla sua non solo un singolare fascino, ma
anche una potenza esplicativa difficilmente contestabile.
Oggi che il sapere va
sempre più frantumandosi, la forza dell’opera di Girard è quella
di una sintesi che riesce a conferire un significato unitario, anche
se non tranquillizzan- te, all’intera storia umana. Più che
contenerla, si può dire che questa sia contenuta dalla violenza di
un desiderio mimetico che oppone fra loro gli uomini, tutti alla
caccia delle medesime prede. L’unico modo per uscirne sarebbe
quello di vincere quest’istinto, aprendoci alla logica cristiana
dell’amore.
Certo, non sono poche le obiezioni che si possono rivolgere a questa straordinaria costruzione intellettuale. Da quella, di ordine storico, che la civiltà cristiana non ha certo prodotto un numero di vittime minore rispetto ad altre esperienze, a quella, di tipo teologico, che il sacrificio del Figlio resta da troppi punti di vista all’interno della logica del sacrificio.
Il presupposto del
pensiero di Girard è che una forma di reale demitizzazione sia
impossibile. Ciò che si può fare è rovesciare il mito,
rintracciando nel suo fondo oscuro una diversa luce. Gli uomini sono
troppo deboli per sopportare la vista della loro medesima realtà,
senza provare in qualche modo a dimenticarla o a negarla. Un’opera
come quella di Girard ci ha costretto a confrontarci con i tratti più
enigmatici della nostra condizione.
La Repubblica – 6
novembre 2015
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