Ciclo
dei mesi, 1220 - 1230, Basilica dei Santi Incoronati, Roma
E' uscito presso
l'editore Bastogi l'ultimo libro di Guido Araldo, Mesi Miti Mysteria.
Iniziamo a parlarne riprendendone alcune pagine relative al mese di
novembre e alla festa di San Martino.
Guido Araldo
Novembre il mese di San
Martino
Il nono mese negli antichi almanacchi inizia con una festa
importante: quella degli Ognissanti, cui segue la commemorazione dei
morti. Una festa antichissima, che cade esattamente a metà
dell’autunno, tra l’equinozio e il solstizio d’inverno. Questa
festa, (festabant Omnium Sanctorum), nella tradizione cristiana
commemora le anime del Paradiso, compresi coloro che non sono stati
canonizzati (santificati ufficialmente). Una festa connessa
probabilmente ad antiche festività pagane, soprattutto celtiche, ma
anche romane. È il tempo “triste” in cui Proserpina torna
nell’Erebo e la madre Cerere, dea dei campi, si rattrista
ingrigendo il mondo.
Nell’Europa Orientale,
invece, questa festa ha una diversa collocazione: nella tarda
primavera; più precisamente la prima domenica dopo la Pentecoste e
chiude, per modo di dire, il ciclo pasquale. Collocazione alla quale,
probabilmente, non sono estranei gli antichi riti misterici eleusini,
recepita peraltro dalla Massoneria universale che commemora i
“fratelli passatoi all’Oriente eterno” nei giorni
dell’equinozio di primavera.
Non a caso,
l’antichissima festa “dei santi martiri”, si celebrava
originariamente alla fine del ciclo pasquale. Soltanto in seguito,
nella parte occidentale dell’Impero Romano ridotto in briciole,
prevalse l’esigenza di farla coincidere con l’inizio della brutta
stagione: non più un tentativo di compartecipazione alla gioia delle
anime beate in Paradiso, ma più prosaicamente la festa dei defunti,
nella speranza che le loro anime siano accolte in cielo. Ad
accogliere tali esigenze provvide papa Gregorio II, nella quarta
decade del VIII secolo, in occasione della consacrazione di una
cappella dedicata “agli apostoli, a tutti i santi, a tutti i
martiri e a tutti i giusti che serenamente riposano nel mondo”
nell’antica basilica di San Pietro.
In questo caso erano
riaffiorate prepotentemente non soltanto le antiche leggende
nordiche, celtiche e sassoni, portate dagli invasori germanici, ma
anche i miti che favoleggiavano di un ritorno dei morti, per una
notte, negli stessi luoghi dov’erano vissuti: patrimonio di popoli
mediterranei, a cominciare dagli Etruschi. Sulle sponde del
Mediterraneo il ritorno dei defunti non era affatto cupo e mostruoso,
come nelle brume nordiche dove non era consigliabile, nella notte tra
il 31 ottobre e il 1° novembre, avventurarsi in boschi, paludi e
luoghi selvaggi. Sotto i cieli mediterranei quella notte si tenevano
chiassose tavolate di commensali, rievocanti antichissimi banchetti
funebri.
Saliceto, Maestro di S. Martino: il santo mentre si taglia il mantello
San Martino
Una delle più importanti
feste autunnali, non soltanto sulle Langhe e in Piemonte, ma in tutta
l’Europa, era quella di San Martino: occasione di grandi fiere che
coincidevano con la fine dei raccolti. Una festa che, peraltro,
coincide con l’ultimo sprazzo dell’estate, solito a manifestarsi
nei giorni attorno all’11 novembre, noto come “l’estate di San
Martino”.
Il nome del santo
deriverebbe da Marte, il dio della guerra, attribuitogli da suo padre
che era un ufficiale romano: lui stesso militò nella cavalleria
imperiale durante l’adolescenza e la giovinezza. Un nome, per la
verità, sicuramente non casuale: Marte apre la bella stagione, con
l’equinozio di primavera, e Martino la chiude. Si può ben
affermare che tra Marte e Martino Persefone tornava sulla terra.
Il gesto più famoso di
san Martino, ripetuto in migliaia di affreschi che hanno accompagnato
la storia della cristianità occidentale, fu il taglio del mantello
da cavaliere: “la cappella”, per offrirne una parte a un povero
questuante seminudo e infreddolito. Un simbolo di pietas e caritas di
grande effetto e suggestione: connubio tra morale antica e morale
cristiana.
La leggenda vuole che la
notte successiva al taglio del mantello Martino avesse sognato Gesù
che gli restituiva la parte tagliata e sussurrava: “Ecco Martino!
Il soldato romano che non è battezzato e che mi ha vestito”.
Subito dopo, svegliatosi di soprassalto, Martino aveva trovato il
mantello integro.
Da allora, similmente al
mantello del Profeta nell’Islam, quel mantello fu considerato una
reliquia miracolosa, tra le principali della cristianità: affidata
dapprima ai re Merovingi e poi agli imperatori Carolingi, quindi ai
re di Francia. Lo stesso termine latino “cappella”: “il
mantello corto militare” tipico della cavalleria imperiale, passò
ai guardiani che avevano l’incarico di custodirlo e che per questo
erano chiamati cappellani. Al tempo stesso la parola cappella
trasmigrò all’oratorio, dove questi guardiani erano soliti
pregare, per poi estendersi a tutte le piccole chiese della
cristianità. Purtroppo la preziosa chiesa (la prima cappella a
fregiarsi di questo nome) che conteneva il mitico mantello di san
Martino, a Tours, fu distrutta durante la rivoluzione francese.
San Martino divenne così
famoso che l’11 novembre, giorno a lui consacrato, era considerato
una festa canonica, con la stagione dei raccolti giunta al termine,
durate la quale non si doveva lavorare. Una festa che chiudeva
l’annata agricola: occasione d’incontri e festeggiamenti che
duravano tutta la notte, fino all’alba.
Per la verità, san
Martino non fu soltanto vescovo, ma anche monaco: a lui viene fatta
risalire la prima esperienza del monachesimo nelle Gallie; un
monachesimo sui generis, avulso dalla liturgia (la regola benedettina
doveva ancora venire), impegnato principalmente nella lotta al
paganesimo che manteneva profonde radici nell’Europa Occidentale.
Proprio a san Martino è attribuita l’evangelizzazione delle
campagne francesi e della Val Padana. I suoi monaci, più che le
preghiere, usavano nodosi bastoni per convertire i pagani. Furono
molti i templi che andarono distrutti: più, forse, delle chiese che
vennero edificate!
Sicuramente la fama di
san Martino non sarebbe stata tale, se il santo non fosse stato
considerato un grande taumaturgo: un eccellente guaritore. Non a caso
il monastero dove egli visse lungamente, noto come maius monasterium
(il monastero grande), ora Marmoutier, divenne ben presto meta di
pellegrinaggi da tutta l’Europa Centrale.
La grande diffusione del
culto di san Martino derivò dal fatto che il santo andò
configurandosi come il “protettore” dei Franchi e dell’impero
di Carlo Magno; come san Michele Arcangelo lo fu per Bizantini,
Longobardi, Vichinghi e Normanni.
Una leggenda postuma
vuole che, restio ad abbandonare il suo ruolo di monaco per diventare
vescovo, Martino si sia nascosto in una stalla piena di oche e che
sarebbe stato tradito dal loro starnazzare. Da allora, l’oca al
forno divenne il piatto tradizionale nel giorno di San Martino.
Un tempo erano famose le
grandi processioni serali che si snodavano la sera dell’11
settembre: data della sepoltura di San Martino e non della sua morte.
Processioni diffuse in tutta l’Europa Occidentale con lanterne,
lumini e candele, per rievocare la grande fiaccolata lungo la Loira
che aveva accompagnato il suo corteo funebre. Per la verità, queste
grandi fiaccolate avevano un precedente: in epoca precristiana si
tenevano alle idi di Novembre (il 13 novembre), ed erano
caratteristiche dei popoli celtici e germanici, in concomitanza con
l’ultimo “colpo di coda dell’estate”.
Queste fiaccolate
pagane avevano un recondito scopo: ravvivare ancora una volta la
bella stagione prossima a sopirsi. Una tradizione, quella della
fiaccolata, che si mantenne inalterata nei secoli: dalle Fiandre al
Tirolo; così radicata che fu rispettata anche dai protestanti,
notoriamente allergici ai santi. Un tempo, durante le fiere di San
Martino era tradizione rinnovare i contratti di mezzadria e di
servitù, saldare i debiti e reclutare nuovi servitori. “Fè san
martin” nella tradizione popolare piemontese significa traslocare:
infatti, alla festa di San Martino i mezzadri cambiavano cascinale,
in base ai contratti di mezzadria. Ancora cent’anni fa nel giorno
di san Martino non era raro trovare i carri di masserizie lungo le
strade. A San Martino tradizionalmente si conclude il ciclo della
vendemmia e già si possono assaggiare i primi boccali di vino
novello.
Motto dissacrante, ma
significativo di una certa mentalità langarola: san Marten u-i’ha
dä ‘a sò mantlena ä ‘n puj, e adess a bazurè e-son in dui =
san Martino ha donato il suo mantello a un pidocchioso, e adesso a
tremare per il freddo sono in due.
À san Marten tüt ër
musct u-diventa ven = a san Martino tutto il mosto diventa vino.
Soltanto dopo l’11 novembre si potrebbe bere il vino novello, che
in Francia ha una grande tradizione con il Beaujolais nouveau.
E-son parti a san Marten,
lasciandi pan e ven; e-son turnâ a l’Annunziâ, per truvè ra
fnera ruinâ = sono partita a san Martino, lasciando pane e vino;
sono tornata all’Annunziata per trovare il fienile rovinato.
Lamentazione di una rondine che non trova più il proprio nido:
lamentazione che ben si addice all’incuria dell’uomo verso gli
animali, anche i più innocui e poetici. Una realtà estremamente
drammatica nell’età contemporanea.
Come non citare infine i
prüz d’ San Marten noti anche come i Martin sec? Le pere di San
Martino piccole, dure come pietre, tra il rossiccio e il marrone, che
sono una prelibatezza se cotte nel vino con cannella, chiodi di
garofano e cosparse di zucchero dopo la cottura.
Testo ripreso da http://cedocsv.blogspot.it/
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