Al Palazzo Zabarella di Padova i capolavori della collezione danese Ordrupgaard. Nata all’inizio del Novecento, è considerata tra le migliori selezioni mondiali della pittura impressionista.
Chiara Gatti
Quando Gauguin vide
gli alberi diventare blu
Il paradiso non poteva attendere. Quando Paul Gauguin (1848-1903) decise di fuggire lontano da Parigi, via dalla pazza folla, sentiva l’urgenza di abbandonare una società conformista per ritrovare i ritmi di una vita incontaminata. «Parto per starmene tranquillo, lontano dalla civiltà» confessava a un giornalista nel 1891, alla vigilia del suo viaggio a Tahiti. «Voglio fare dell’arte semplice; per questo ho bisogno di ritemprare le mie forze a contatto con la natura vergine». Il mito del selvaggio, in tempi moderni, lo ha incarnato proprio questo gigante inquieto della pittura francese di fine secolo che, per il suo cuore ramingo e il fascino esotico dei suoi feticci di pietra o delle veneri nere, è diventato leggenda. Non stupisce che Wilhelm Hansen, uomo d’affari di successo e collezionista oculato, abbia concentrato su Gauguin il suo sguardo più attento.
Vide forse in lui il talento dell’outsider, il genio imprevedibile in grado di scandalizzare i borghesi, salvo poi incassare consensi e picchi di mercato che, da finanziere inossidabile, fiutò a distanza. Questo spiega la presenza ampia di opere di Paul Gauguin all’interno del preziosissimo fondo di Hansen, finito, dopo la sua morte nel 1936, nelle sale dell’Ordrupgaard Museum, a nord di Copenaghen.
Considerata una delle più importanti raccolte di arte impressionista in Europa, la collezione approda ora al Palazzo Zabarella di Padova per la grande mostra “Gauguin e gli impressionisti” (fino al 27 gennaio, catalogo Marsilio), a cura di Anne-Birgitte Fonsmark, che allinea sessanta capolavori firmati da autori come Manet, Degas, Monet, Renoir, Sisley, Pissarro, Cézanne, Matisse. L’arco di tempo è ampio e parte da un antefatto che affonda nel neoclassicismo di Ingres e nel romanticismo di Delacroix per spiegare le origini della modernità francese. Risalendo il secolo si comprende il debito degli impressionisti verso la verità e la luci dei loro padri putativi.
Corot aveva insegnato a
tutti che il vento ha un colore e che può essere dipinto. «Il bello
dell’arte – diceva – è la verità bagnata dell’impressione
che abbiamo ricevuto di fronte alla natura». Inutile dire che Monet
pensava a lui quando inseguiva le atmosfere cangianti delle
Cattedrali di Rouen, mentre Renoir e Sisley passeggiavano per la
foresta di Fontainebleau per respirare (e restituire sulla tela) gli
stessi umori di Dupré e Daubigny. Passaggi di testimone da una
generazione all’altra.
La lezione eterna di Courbet, incantevole
demiurgo di una fauna che palpita nel sottobosco, in un brano
straziante come L’inganno, episodio di caccia al capriolo, torna
vitale nel Paesaggio a Pont- Aven che Gauguin dipinse nella primavere
del 1888, mostrando i primi segni di insofferenza e necessità
cocente di andarsene dalla città, acuiti da una prima e fugace
trasferta a Martinica. «Amo la Bretagna. Vi posso trovare ciò che è
selvaggio e primitivo» scriveva a un amico con eccitazione. «Quando
i miei zoccoli risuonano sul granito, riesco a sentire quel tono
soffocato, cupo e vigoroso che cerco nella mia pittura». Qui, però,
l’erba era ancora verde, i tronchi bruni, il cielo celeste. E
soffiava sempre il vento fresco di Corot.
Tempo pochi mesi, complice l’influenza di Vincent van Gogh, che Paul raggiunse in Provenza nella famosa Casa gialla di Arles per coinquilini litigiosi, la sua tavolozza cambiò magicamente colore. Alberi blu. Verrà il tuo turno, bellezza! dice tutto sullo shock emotivo che lo colpì come uno schiaffo. La natura si tinse di sfumature allucinate nei suoi paesaggi visionari. «Dal fatto che un paesaggio presenti dei tronchi d’albero blu e un cielo giallo, si conclude che Monsieur Gauguin non possieda il più elementare senso cromatico» ironizzava un critico del Salon des Vingts. Era l’inizio del viaggio. Prima di ripartire per le isole, il suo spirito già fluttuava libero su territori della mente che portano gli occhi a guardare in profondità.
Paragonando il suo lavoro in mostra a quello dei colleghi che lo
accostano, si capisce perché la figura di Gauguin suturi il confine
sottile fra impressionisti e avanguardie, fra i giardini profumati di
Pissarro e i fiori irreali di Matisse che diceva «la verità intima
è l’unica che conta». E non c’è nulla di più intimo, per
Gauguin, di quel suo viaggio à rebours nel paradiso degli idoli,
dove riaffiorano pulsioni rimosse, immaginari infantili, rapporti
materni, sensualità e nostalgia. Il mondo visto da dentro. La Donna
Tahitiana del 1898, stilla passione e angoscia nel rosso ematico del
selciato. Non a caso, è la stessa donna che compare di spalle ai
margini del suo celebre testamento spirituale (custodito al museo di
Boston), manifesto assoluto dei suoi rovelli sul destino dell’uomo;
e che ha un titolo universale Da dove veniamo? Chi siamo? Dove
andiamo?
La Repubblica – 30
settembre 2018
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