15 settembre 2023

IL CINEMA AI TEMPI DI BERTOLUCCI, GODARD E PASOLINI

 



Il cinema possedeva in quegli anni una forza che rasentava la fascinazione. Veder nascere l’immagine cinematografica equivaleva quasi ad assistere alla nascita di un mondo, o per lo meno alla nascita di un determinato sguardo su quel mondo.
Era come se qualcosa venisse insieme ordinato e scompaginato, rimesso in gioco, illuminato e finalmente compreso o non compreso nel suo mistero. Posso dire che è un sentimento che ha caratterizzato quelli che gli storici chiamerebbero “gli anni della formazione” ed è un sentimento che si è rinnovato quando mi sono trovato a fare l’assistente sul set di Accattone.
Pier Paolo faceva il suo primo film, si metteva alla prova con un linguaggio per lui nuovo e a me pareva che se lo inventasse ogni giorno, ad ogni inquadratura.
Pier Paolo adorava la Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer: era il suo modello, il suo vero e unico modello. Primi piani, primi piani, primi piani, qualche raro totale. E finalmente un giorno un vecchio binario viene preso dai macchinisti, tirato giù dal camion e buttato lì, tra le baracche della Borgata Gordiani. Era la prima carrellata di Pier Paolo. E ai giornalieri a me sembrò la prima carrellata della storia del cinema.
Fare Accattone non significava soltanto imparare il cinema, quello vero, e farlo di fianco ad un poeta che stava a sua volta cercando di imparare un’altra lingua, fare Accattone voleva anche dire abbracciare una certa visione del mondo.
Erano gli anni della mia “università”. Sono stato un privilegiato, lo so. Pensate che potevo permettermi una specie di furia mimetica nei confronti di Pier Paolo, una fase che è durata dai quindici fino ai diciannove, vent’anni.
Per esempio scrivere poesie, pure imitazioni delle sue. La mia università è stata soprattutto ascoltare, la sera, cosa si dicevano al ristorante Pasolini, Alberto Moravia, Elsa Morante e Adriana Asti. “Ma non vai all’Università?” mi chiedeva mio padre. “Sì, ci vado tutte le sere, ma mi laureerò da vecchio!” Ecco, lo sapevo già, che sarebbe arrivato questo giorno…
Gli ardori di questa furia mimetica — che hanno coinciso con le mie prime vere prove di poeta e poi con il cinema — si sarebbero spostati su un’altra figura paterna e poi amica, quella di Jean-Luc Godard e del cinema della Nouvelle Vague, un cinema libero, gioioso, alimentato da quella forma di esaltata ed esaltante malattia che era la cinéphilie.
Vidi "À bout de souffle" a Parigi e restai senza fiato. Il motivo era sempre lo stesso: vedevo nascere qualcosa di nuovo proprio davanti ai miei occhi. In una delle sue ultime interviste, mio padre ha detto che ciò che ricorda degli anni in cui cominciava ad andare al cinema, ciò che gli faceva ritenere quella forma di espressione pari alla poesia, alla letteratura, alla pittura, era l’emozione di vedere un’arte che si inventava il proprio linguaggio, proprio nel momento creativo del linguaggio[1]. A me succedeva la stessa cosa.
Tornato a Roma dissi a Pier Paolo di correre a vedere quel film straordinario che era À bout de souffle. Pier Paolo ci va di domenica, con alcuni suoi amici e poi mi dice: “Sono stato a vedere il TUO À bout de souffle” e mi dice che i suoi amici hanno sghignazzato tutto il tempo.
Pier Paolo che va a vedere À bout de souffle e ne ride con i suoi amici è qualcosa che non posso capire o accettare, ma credo che in quel momento lui vedesse che stava perdendo una sicurezza che ero io, come se si accorgesse che avrebbe dovuto condividermi con Godard.
Non si piacevano troppo in quegli anni, se lo sono anche detti e scritti. Ricordo che Godard definì Pasolini e Christian Metz due “flics”, due poliziotti, che sanzionavano i film, imprigionavano il cinema tra le sbarre della semiologia.
Poi c’è stata come una catarsi, sia quando Pier Paolo ha scritto di Godard, avvicinandolo proprio a me, nel suo famoso saggio su cinema di prosa e cinema di poesia, sia quando in "Una disperata vitalità" sceglie il refrain “come in un film di Godard”.
[1] L’intervista ad Attilio Bertolucci cui si fa riferimento è contenuta in V. Zagarrio, Cinema e fascismo, Venezia, Marsilio, 2004.
Da: Bernardo Bertolucci, Il mistero del cinema, Milano, La nave di Teseo, pp. 27–31.

Nessun commento:

Posta un commento