NELL’EPOPEA DI WERNER HERZOG, ALLA RICERCA DELLA VERITÀ ESTATICA
Pubblichiamo un pezzo uscito su Linus, che ringraziamo.
Monaco, metà anni cinquanta, quartiere Schwabing, affollato di artisti, o aspiranti tali. In una pensioncina di Elisabethstraße, gestita da una signora dalla chioma arancione e da smanie mecenatesche, la situazione è tesa: il bagno è occupato da due giorni.
Dentro, da quarantotto ore, si sentono urla belluine e rumori di ceramiche in frantumi, alternati a versi scelti, scanditi in metrica impeccabile.
Al di qua della porta, c’è un dodicenne con le orecchie tese. È anche lui a pensione, con sua madre e i fratelli. Viene dall’ingenuità rurale di un’infanzia spesa in fattoria, sulle Alpi bavaresi, in fuga dalle bombe della seconda guerra mondiale. Arrivato in città per studiare, osserva da mesi quel trentenne esagitato, attore ospitato a gratis per amor dell’arte, che adesso sta infierendo sui sanitari. Affascinato, il ragazzino intuisce del metodo, in tanta follia: lo ha sentito verseggiare quotidianamente per dieci ore consecutive. Ma lo ha anche visto sfondare porte, irritato per dei colli di camicia mal stirati dalla sua anfitriona. Un giorno, in sala da pranzo, ha bersagliato, con forchette e patate bollenti, un critico reo di aver commentato una sua piccola performance teatrale, definendolo straordinario. Troppo poco: senza interrompere la lapidazione, l’attore rivendicava a gran voce: “Sono stato mo-nu-me-nta-le! Epocale!”
Adesso, dietro la porta del bagno, l’adolescente capta un verso sommesso, quasi un commiato: “Ogni essere umano è un abisso. Ti vengono le vertigini, quando ti affacci”. Poi un rumore di vetri rotti, verosimilmente lo specchio, frantumato da un pugno.
La porta si apre. L’attore, fradicio di sudore, capelli biondi incollati al viso e mano sanguinante, si ritrova davanti il ragazzo. Occhi spianati negli occhi, azzurro glaciale entrambi.
“Ho capito in quel momento che sarei diventato un regista, e che avrei diretto Klaus Kinski”. Così Werner Herzog ricorda il punto di svolta della sua esistenza. Preludio a cinque film girati insieme, entrati nella storia del cinema e corredati da un documentario indispensabile, dedicato dal regista alla memoria del suo nemico più caro.
Kinski sparisce dalla pensione, ma Herzog lo ritrova prestissimo, da spettatore. Nel film All’est si muore, di Laslo Benedek, il biondo assatanato è già un’apparizione che lascia il segno. Arruola adolescenti da mandare al massacro, durante gli ultimi giorni del Reich. In una scena dorme seduto, si sveglia di scatto e comanda freddamente una fucilazione di disertori. Per il giovane Werner è una conferma: quel demonio buca lo schermo. Nei primi anni settanta, gli appare come Cristo. E’ un messia itinerante, che gira i teatri sbraitando contro gli spettatori, godendosi ogni sera il suo ludibrio pubblico. Herzog, nel frattempo diventato il regista emergente del nuovo cinema tedesco, ascolta quei monologhi, urlati come tirate hitleriane. Sente che i tempi sono maturi per offrire al vecchio coinquilino la corazza di Aguirre, furore di Dio. Del conquistador cinquecentesco, traditore della corona di Spagna realmente esistito, Herzog è interessato ad una rilettura visionaria. Filmerà un’epica senza azione, una conquista solo mentale, eppure spinta ai confini del mondo colonizzato. Il plot è scarno: Kinski, perso nel folto della giungla, ammalierà soldati e indios, trascinandoli in navigazione sul Rio delle Amazzoni. Cercheranno l’El Dorado, leggendario paradiso terrestre, pieno d’oro e pietre preziose, da cui ogni male di vivere è bandito. Il film viene girato in ordine cronologico, perché gli attori deperiscano gradualmente, come i personaggi.
La sequenza d’apertura è un miraggio, avvolto dal suono ipnotico dei Popol Vuh: uno zoom quasi impercettibile si stringe sull’esercito spagnolo, perso sui fianchi scoscesi della montagna amazzonica. Tra quei piccolissimi uomini in fila indiana, sospesi a quattromilaseicento metri, quasi inghiottiti dal troppo verde e dalla nebbia, c’è anche Kinski, per nulla rassegnato ad essere un puntino come gli altri. In sfida aperta anche con la natura, pretende un primo piano da condottiero hollywoodiano. Al diniego di Herzog, sbotta: “Principiante! Regista di nani! Il (mio) volto è l’unico paesaggio interessante!“. Infastidito dalla banalità del concetto, più che dagli insulti, il regista non cede. Lassù si sente in pace con il destino, benedetto da un dio in vena di generosità. Se ne accorge quando la pioggia finisce a metà mattinata, incorniciando il monte con una fila di nubi immobili, regalandogli immagini piene di pathos.
Persino le iconiche rovine Inca di Machu Picchu, inquadrate di taglio, sembrano ricondotte alla loro essenza, di resti di una civiltà misteriosa, estinta di morte violenta. Annegata in quel sangue che Kinski smania di spargere ancora, dentro e fuori dal set. Per dare verità ad una sequenza, punisce un indio affamato di banane con una spadata sul cranio. L’elmo tiene, la ferita non è letale, ma Aguirre rimane un furore di dio anche dopo l’ultimo ciak di giornata: spara sull’accampamento della troupe, ferendo un’altra comparsa. Viene tollerato a stento, fino a dieci giorni dalla fine delle riprese. Fino al momento in cui decide, con un pretesto, di abbandonare il set. Stipa di tutti i suoi bagagli una canoa, ed è pronto a risalire il fiume, allungando la sua collezione di film sabotati.
Gli indios, terrorizzati, si dispongono in circolo, testa contro testa, mormorando litanie apotropaiche. Hanno capito chi dei due è il più temibile: quello che non grida mai. Herzog, voce sommessa e logica kantiana, spiega a Kinski che l’importanza del film trascende le vite di entrambi. Poi gli accenna ad un suo fucile, carico di otto colpi. Sette finiranno nella sua carne pazza, consacrandolo come grande attore postumo. Uno, quello finale, il regista lo riserverà a se stesso, per chiudere ogni strascico. Gli spiega che, rimanendo senza il suo film, non ha nulla da perdere. Kinski strepita di denunce e di polizia, ma sa bene che nel raggio di seicento miglia ci sono solo indios, acqua, rocce, alberi e scimmie. Domato, è pronto ad offrire ad Herzog la fine di quello strano film che stanno creando insieme.
“L’oro è per i servi” sentenzia, tornato Aguirre, al centro della sua zattera “A me interessa il potere”. Con il magnetismo della sua follia, sta trascinando i suoi uomini dentro un’allucinazione, che forse è l’El Dorado che cercavano, l’unico accessibile agli uomini. Mentre navigano sul fiume, le febbri cancellano il dolore, la percezione della fame, dei compagni annegati, il frantumarsi delle zattere. Il delirio fa dimenticare anche il cannibalismo e le frecce avvelenate degli indios, nascosti dal lussureggiare della vegetazione. La sproporzione tra la scalcinata spedizione di Aguirre, e il regno favoloso che cerca, è il riflesso di un’altra distanza.
Anche quella herzogiana è un’epopea folle: la costruzione di un kolossal molto personale, girato con una cinepresa rubata dal regista alla scuola di cinema di Monaco, con una troupe di otto persone e una star instabile, a bordo di una zattera costruita artigianalmente dai nativi ingaggiati nella foresta. Ne scaturisce un film aspro, privo di enfasi retorica. I tempi e i silenzi di Aguirre e della sua ciurma sono dilatati, come i gesti a vuoto: tutto restituisce veristicamente la fatica desolante, crudele e senza epica, dei conquistadores. Percepibile nei corpi stremati, di attori e comparse, e rivelatrice delle pulsioni più profonde dell’animo umano. I suoi soldati incarnano l’eterna, demenziale smania di possesso, ingoiata dalla ferocia distratta della natura. Herzog mostra l’impossibilità di inglobare quel set sconfinato e mutevole, nei canoni della cinematografia classica. Ogni rappresentazione tradizionale risulterebbe inadeguata, labile come una linea di confine tracciata con una penna d’oca, su di una mappa cinquecentesca. Destinata ad essere smentita dall’incommensurabilità dell’Amazzonia, dal distanziarsi progressivo dell’El Dorado.
Lo sguardo libero del regista denuda anche la fragilità della storia ufficiale, convinta di incastrare il tempo e lo spazio in una trama, con cause ed effetti definiti. “Pezzo a pezzo costruiremo la storia, come altri allestiscono uno spettacolo” delira a se stesso Aguirre, con le labbra tremanti. Forse, sembra indicare Herzog con la forza delle sue immagini, il tempo lineare è solo una convenzione. Tutto è circolare, come l’ultima sequenza, con la camera che ruota intorno ad Aguirre, solo al centro del fiume, sulla zattera invasa da centinaia di piccole scimmie. Lasciato a farneticare, tra cadaveri e agonie, del suo regno a venire, dell’endogamia necessaria alla purezza della sua razza. Ormai alla deriva, su quel fiume che lo affascina conradianamente “come un serpente affascinerebbe un uccellino sventato”. Qualche anno dopo, il film ispirerà a Francis Ford Coppola il suo Apocalipse Now.
Herzog comincia a diventare un regista di culto, imponendo Kinski sulla ribalta internazionale.
Impossibile non notare quelle pupille azzurre infossate nelle occhiaie, incastrate in un grumo di nervi sfrigolanti. O quei labbroni tumidi da satiro, il naso rapace, e i capelli biondo spento che colano sulla fronte. Tra le pieghe della sua vita trovi una giovinezza berlinese e un arruolamento nella Wehrmacht, allo scoppio della guerra. Catturato dagli inglesi al secondo giorno di combattimento, trasforma il campo di prigionia nella sua prima ribalta, improvvisando spettacoli per i compagni di prigionia. Torna a Berlino e si scopre ormai orfano di guerra, con casa e genitori sepolti dai bombardamenti. Seguono palcoscenici sgangherati, fame, miseria, ricoveri psichiatrici. Si innamora di una dottoressa e tenta il suicidio: bollato come schizofrenico, pericoloso per sé e per gli altri, confermerà la diagnosi per tutta la vita. La sua carriera cinematografica sarà sempre spaccata in due, come la sua mente. Spopola nell’exploitation, da richiestissimo villain deviante, antagonista di tanti spaghetti western e noir di grana grossa. Un cinema che gli fa ribrezzo, attraversato ostentando una brutale sete di denaro. Alimenta il romanzo di sé, del suo divismo ingestibile, sottraendosi agli ingaggi di Fellini, Ken Russell e Spielberg. Forse perché il suo istinto gli dice che Herzog è l’unico a capirlo, a tatuargli addosso ruoli che gli appartengano. A lui riserverà, in esclusiva, il meglio e il peggio di sé. Abbandonati presto dal padre, tutte e due, forse finiscono per ritrovarlo l’uno nell’altro. Ogni capello bianco che gli spunta, il regista lo chiama Klaus Kinski, sottolineando la natura organica del loro legame. Sono due masse critiche, capaci di nutrirsi, reciprocamente, della rabbia e dell’energia dell’altro.
Herzog considera il suo feticcio l’attore più grande che abbia mai visto. Gli riconosce un’intelligenza diabolica, con intermittenze di candore, di estraneità al fluire degli eventi, come l’Idiota dostoevskiano.
Trasparente come un fiume puro, incanalabile solo provvisoriamente, è anche il pianeta più pericoloso da attraversare, attraente come i vulcani in eruzione e dei pozzi petroliferi in fiamme. Il loro conflitto, vero o recitato che sia, apre uno spiraglio di verità sul cinema, e sull’esistenza di entrambi. A volte Herzog sembra innescare di proposito l’isteria del suo attore, come se complicarsi la vita a vicenda fosse uno strumento di ricerca, un modo per sondare i propri limiti. Il regista fieramente autodidatta ritiene Kinski il suo unico maestro di cinema. Capace di captare la luce come un sensore, di mangiarsi l’inquadratura con una piroetta di centottanta gradi, attorno alla comparsa di turno, che Herzog ribattezza la spirale kinskiana. Credibile anche nei costumi più estremi, regala sguardi straniati, tutti suoi, oltre l’orizzonte comune. Sa usare le camminate come scritture emotive, e cadenzare pause e accelerazioni della recitazione.
Nel corpo mutante di Kinski, come nel suo intero cinema, Herzog sembra cercare la verità estatica, il crinale inafferrabile in cui realtà e finzione si sovrappongono, come in una Fata Morgana, un miraggio rivelatore. Affrontare immersivamente la realtà è un modo per provare a cogliere il lato surreale dei fenomeni. Misurarsi con un totem dell’espressionismo tedesco, come il Nosferatu di Murnau, diventa invece l’occasione per compiere un altro viaggio intorno al suo attore. Se Max Schreck doveva essere seppellito di trucco, per sembrare un vampiro, Kinski viene denudato, liberato da quella chioma tanto vera quanto antinaturalistica. Rinforzare il pallore, allungare orecchie, unghie e incisivi è solo un’accentuazione dell’esistente: il vampiro è la sua essenza, non la sua maschera.
Come Nosferatu, Kinski, dietro l’aspetto da mostro seducente, sembra in fondo vulnerabile e solo, condannato alla vuota ripetitività dei suoi ruoli da cattivo. La sua sanguinosa sete di ingaggi, i disordini creati sui set, sono spie di una distorta ansia d’amore.
Herzog evoca il sublime di Wagner e Friederich, esalta la compostezza idilliaca di Delft, borgo fiabesco dei Paesi Bassi, ma poi lo trasforma nel palcoscenico desertificato di una farsa nera. Il suo Nosferatu dolente è non morto umano, troppo umano: il sintomo di come ogni aspirazione all’assoluto nasconda una condanna alla noia eterna. Al suo mortifero passaggio, la solida società positivista, con le sue aspirazioni di progresso, finisce a banchettare in piazza sui propri resti. Autodivorandosi in agonia, invasa da frotte da ratti pestilenziali, all’ombra delle sue istituzioni, duomo e municipio. Il vampiro, invece, interrompe il suo buio infinito, con una notte passata a mordere dolcemente il collo di Isabelle Adjani. Un sorso effimero di vita, prima di lasciarsi trafiggere dalla luce e trovare la sua quiete. Ma la vocazione al male dell’umano non muore con lui, continua a galoppare verso l’orizzonte. Incarnandosi in un altro incubo di Herzog, in cui Kinski è diventato il Woyzeck immaginato da Buchner. Soldato molto semplice della provincia tedesca, si muove a scatti come una marionetta biomeccanica, strattonata senza pietà dai fili istituzionali dell’esercito, e della scienza. Anche la famiglia è una condanna: per mantenere moglie e figlio, si consegna come cavia agli esperimenti cinici di un medico. Il fisico si logora, come la mente. Il cranio teso e rasato sembra sempre sul punto di scoppiare, di quella sofferenza da cui, programmaticamente, nascono tutti i film di Herzog.
Ottusamente bestiale, il soldato corre per il mondo, come un rasoio aperto. Non riesce a conformarsi con dignità, a dare una forma linguistica ai diritti e sentimenti. Pugnalare a morte la moglie fedifraga è il suo ultimo urlo, la reazione mostruosa a un mondo che lo umilia, alla marginalità a cui è condannato. Uccidere, senza comprendere, per tentare di esistere, almeno per un attimo: il ralenti di Herzog rende le coltellate fuori campo ancora più lancinanti. Poi Woyzeck si lascia affogare in un lago, ricongiungendosi allo scenario panico che lo circonda. Natura herzogiana, tormento ed estasi: diluitosi nello stagno tedesco, l’uomo d’acqua Kinski riemerge nuovamente dal Rio delle Amazzoni, qualche anno dopo. Stavolta senza la corazza e l’elmo di Aguirre, ma a bordo di una piccola barca, vestito di un lino bianco, candido come la sua anima. Scarmigliato come un bambino, tiene sotto braccio una Claudia Cardinale meravigliosamente sgualcita. Il suo nome è Fitzcarraldo, perché è così che gli indios storpiano Fitzgerald, il suo cognome irlandese. Ha le mani piagate, perché ha remato sul fiume per due giorni interi, per arrivare Manaus. È venuto ad ammirare Enrico Caruso, protagonista dell’Ernani verdiana nel teatro d’opera locale. Siamo a fine ottocento, epoca di titanismi.
Fitzcarraldo ha un chiodo fisso, che gli corruga la fronte: vuole costruire un grande Teatro dell’Opera a Iquitos, piccolo villaggio amazzonico, e portare Caruso anche lì, nel folto della giungla. Far risuonare una delle espressioni più elaborate della cultura europea, in un luogo in cui rintoccano, da millenni, solo suoni naturali. La Cardinale lo convince a finanziare il suo delirio con la raccolta del caucciù, sulla scia di tanti avventurieri. Per entrare nel business della gomma, però, bisogna far valicare una montagna al proprio battello, per evitare la rapide più violente dell’America Latina. E così il Sisifo irlandese parte, alla conquista dell’inutile, deciso a compiere un gesto grandiosamente vano. E sfibrante, proprio come il cinema di Herzog, maneggiando il denaro come combustibile per desideri, e non come status da esibire. Per farsi aiutare nella sua impresa, lascia che gli indios lo credano una divinità, un traghettatore verso chissà quale paradiso. Per troppo slancio, qualcuno di loro muore, nel tentativo di trascinare la barca sulla montagna, lasciando addosso a Fitzcarraldo la paura costante che l’incanto finisca, che ne scoprano la natura terrena, e lo massacrino. Come un artista estremo, deve mantenerne sospesa l’incredulità, a costo della vita. Quell’esistenza che Herzog ha messo completamente in gioco, nel film. Costatogli quattro anni di passione, tra accampamenti della troupe bruciati da nativi ostili, morti e feriti, argani che saltano, navi che si incagliano nelle rapide, beni personali del regista devoluti alla causa. Per non parlare di un Kinski molesto oltre ogni limite, al punto che un gruppo di indios prende da parte Herzog, e si offre di ammazzarlo. Il regista, sempre in omaggio al bene superiore del cinema, declina la proposta.
Alla fine, la nave viene portata oltre il monte. Ma dopo una notte di bagordi, gli indios sciolgono gli ormeggi e l’imbarcazione finisce in balia delle rapide. Le supera miracolosamente, ma Fitzcarraldo abbandona l’idea del teatro. Non rinuncia del tutto al suo sogno: rivende la nave, e con il ricavato ingaggia un’orchestra per un’ultima, trionfale esecuzione belliniana, a bordo del battello.
Sarebbe un happy end, ma la vita è imperfetta, e a volte anche il cinema. Kinski ed Herzog si ritrovano ancora, ma è un incontro fiacco. Persino l’eccesso, alla lunga, può risultare ridondante. Il film è Cobra verde, ispirato a un romanzo di Bruce Chatwin. Kinski è un bandito del sertão, spedito in una missione suicida in Africa, dove finirà a guidare alla rivolta popolare un esercito di amazzoni. Herzog sente che l’intesa con il nemico di una vita si sta affievolendo. Forse perché Kinski è ormai pervaso dal gigionismo erotomane del suo Paganini, sua antica ossessione, e finisce per contaminare anche Cobra Verde. Avrebbe voluto farsi inquadrare da Herzog, nei panni del violinista dannato, ma Werner si è sottratto. Condannato ad autodirigersi, Kinski sbracherà nel polpettone erotico.
Nei panni di Cobra verde, nel finale del film, cerca di trasportare una grossa barca in mare, per l’ultima fuga. Ma l’imbarcazione è pesantissima, e il bandito stramazza, esanime, sulla battigia.
Dopo averne filmato la morte, Herzog non lo rivedrà mai più. Non lo ha mai dimenticato, e ancora oggi non ha capito se era fatto della sostanza dei sogni, o degli incubi.
Ha un’unica certezza: “Alla fine, si è consumato come una cometa”.
Pezzo ripreso da https://www.minimaetmoralia.it/wp/cinema/nellepopea-di-werner-herzog-alla-ricerca-della-verita-estatica/
Nessun commento:
Posta un commento