Ecco la bellissima copertina del nuovo libro di SANTO LOMBINO e DOMENICO MICHELON sulla rivolta palermitana del Sette e Mezzo.
Il libro sarà disponibile in tutte le librerie alla fine di questo mese di settembre. In anteprima Santo mi ha invitato a pubblicare in questo blog la quarta di copertina. (fv)
Approfittando della circostanza
che nei mesi dell’estate 1866 la guerra tra Italia e Austria aveva sguarnito i
presidi militari dell’Italia meridionale, i ceti popolari di Palermo e dei
comuni limitrofi insorsero dal 15 al 22 settembre di quell’anno mettendo a
ferro e fuoco le strade e le piazze, dando l’assalto agli uffici pubblici e
alle prigioni, costruendo centinaia di barricate da cui si grida “Viva la
repubblica, Viva santa Rosalia!” e su cui sventolano bandiere rosse. La
rivolta, che per i giorni della sua durata fu chiamata “il Sette e Mezzo” nasceva
dal rifiuto della “piemontesizzazione”, della politica economica e sociale dei
governi della Destra storica, della gestione dell’ordine pubblico in Sicilia
che faceva frequente ricorso allo stato d’assedio e ai rastrellamenti militari nelle
zone “pericolose”. L’instaurazione della leva militare, la soppressione degli
enti ecclesiastici e l’incameramento dei loro beni, la mancanza assoluta di
lavori pubblici, l’uso dei pubblici poteri per favorire il governo nelle
elezioni, avevano esacerbato il malcontento popolare. Su tale malcontento si
innestava l’iniziativa della sinistra radicale che seguiva l’impostazione dei
garibaldini Giovanni Corrao (ucciso nel 1863) e Giuseppe Badia (in carcere al
momento della sommossa) contro la politica moderata dei seguaci di Crispi e dei
governi nazionali. Con tale iniziativa si registrava la convergenza di elementi
clericali e dei nostalgici filoborbonici in cerca di rivincita contro i Savoia.
L’insurrezione aveva le stesse caratteristiche di quelle dei decenni precedenti
e i ribelli erano spesso guidati dagli stessi capisquadra che avevano agito in
quelle occasioni, ma le forze governative e la stampa nazionale, nel timore di
perdere prestigio a livello internazionale, la bollarono come espressione di
“barbarie e inciviltà” e frutto di manovre della nascente mafia. Il carattere
“ibrido” della rivolta caratterizzata dal susseguirsi di due diversi comitati
insurrezionali, e la mancata discesa in campo delle altre città siciliane la
condannarono all’isolamento e alla sconfitta, determinata sul piano militare dall’arrivo
di numerosi contingenti armati e dai bombardamenti attuati e minacciati dalle
navi regie che approdarono a Palermo. Il governo Ricasoli nominò Commissario
straordinario il generale Raffaele Cadorna che giunse in Sicilia quando il moto
popolare era ormai spento. In violazione dello stato di diritto, Cadorna ordinò
l’ennesimo stato d’assedio con coprifuoco, disarmo generale, arresti
indiscriminati, tribunali militari di guerra. La ferita nel rapporto tra classi
dirigenti e popolazione dell’Isola non si rimarginerà nei decenni successivi e
rimarrà irrisolta la “quistione siciliana”.
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