13 settembre 2023

W. BENJAMIN RACCONTATO DA HANNAH ARENDT

 


Pubblichiamo, ringraziando l’editore, un estratto da “L’umanità in tempi bui” di Hannah Arendt (traduzione di Batrice Magni per Mimesis), dedicato a Walter Benjamin.

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Spesso succede che un’epoca lasci la sua traccia più visibile sull’uomo che fu da essa meno influenzato, colui che si è tenuto più lontano e, di conseguenza, ha perciò provato più dolore. Fu così con Proust, con Kafka e con Karl Kraus, e andò così anche con Benjamin. I suoi gesti, il modo di inclinare la testa quando ascoltava e quando parlava, lo stile nei movimenti, le sue maniere, soprattutto la sua maniera di parlare, fino alla scelta delle parole e all’ordine della sintassi e, infine, il carattere eminentemente idiosincratico del suo gusto: tutto ciò faceva un effetto così démodé che sembrava che Benjamin fosse stato catapultato dal XIX secolo nel XX, come (un naufrago) sulla costa di un paese straniero. Si sentì mai a casa nella Germania del XX secolo? Ne dubitiamo. Quando, nel 1913, giovanissimo, venne per la prima volta in Francia, in capo a qualche giorno le strade di Parigi erano “quasi più familiari” di quanto non lo fossero le pur familiari strade di Berlino. Aveva forse già sperimentato allora quella sensazione che vent’anni dopo sarebbe stata la sua cifra caratteristica, e cioè quanto il viaggio da Berlino a Parigi equivalesse a un viaggio nel tempo – non a un viaggio da un paese all’altro, ma a un viaggio dal XX al XIX secolo.

Lì si trovava la nation par excellence la cui cultura aveva educato l’Europa del XIX secolo e di cui Haussmann aveva forgiato la capitale, Parigi, “capitale del XIX secolo”, come la chiamò in seguito Benjamin. Quella Parigi non era di certo ancora cosmopolita, ma era, nel profondo, europea, e perciò dalla metà del secolo precedente si era offerta in modo del tutto naturale come una seconda patria per tutti i senza-patria. E né la marcata xenofobia degli abitanti, né i raffinati cavilli della polizia nazionale nei confronti dei cittadini stranieri poterono mai cambiare questa evidenza. Già da molto tempo prima della sua emigrazione Benjamin divenne consapevole di quanto fosse “straordinariamente raro riuscire a stabilire con un francese un contatto in grado di far durare più di un quarto d’ora una conversazione”, e il suo innato spirito nobile gli impedì, successivamente, una volta installatosi a Parigi come rifugiato, di trasformare in relazioni le sue conoscenze passeggere – conosceva soprattutto Gide – e di stringere nuovi legami. […]

Per quanto irritante, per quanto sgradevole avesse potuto essere quell’esperienza, la città stessa era in grado di compensare tutto, come Benjamin aveva scoperto fin dal 1913, con quell’enorme fascino della città, con i suoi boulevard, fatti di case che “non sembrano destinate a essere abitate, ma sono come coulisses di pietra tra le quali ci si incammina”. Questa città, che si può percorrere facendo il giro seguendo (dall’esterno) le vecchie porte, è rimasta quello che erano un tempo le città medievali, protette da un muro che le separava rigorosamente dal mondo esterno: uno spazio interiore, ma senza l’angustia delle viuzze, una sorta di intérieur a cielo aperto, ampio nella sua progettazione e nelle costruzioni, e al di sopra del quale l’arco del cielo diventa un maestoso soffitto. “Ciò che vi è di più bello, qui, in tutta l’arte e in tutte le attività, è che il loro splendore viene lasciato libero, in mezzo ai resti del loro splendore originale e naturale.” E si permette loro anche di acquistare una luce nuova. Le facciate uniformi, che costeggiano le vie come fossero muri interni, fanno sì che in questa città si provi la sensazione fisica di sentirsi più protetti che ovunque altrove. I passages che collegano i grandi viali, offrendo un riparo contro le intemperie, hanno esercitato su Benjamin un fascino così grande da essere evocati nell’opera principale che progettava di scrivere sul XIX secolo, e sulla sua capitale, con il semplice titolo: I passages (Passagenarbeit); e quelle gallerie di passaggio sono davvero un simbolo di Parigi, perché incarnano allo stesso tempo l’interno e l’esterno e, dunque, la quintessenza della sua natura.

A Parigi uno straniero si sente a casa, perché si può abitare in questa città come si abita altrove, nelle proprie quattro mura. E come si abita un appartamento e lo si rende confortevole, abitandolo invece di usarlo solo per dormire, mangiare e lavorare, così si abita una città passeggiando senza meta né scopo con la salda certezza degli innumerevoli caffè che fiancheggiano le strade e davanti ai  quali scorre il flusso dei passanti, la vita della città. Parigi è ancora oggi l’unica grande città che si possa comodamente percorrere a piedi e la vita di Parigi, ancor più di quella di ogni altra città, dipende dalle persone che camminano nelle sue vie, ed è minacciata dal traffico delle automobili per ragioni che non sono soltanto tecniche. La desolazione delle periferie americane, i quartieri residenziali delle grandi città, in cui tutta la vita delle strade si svolge sulle arterie della circolazione, e dove spesso si può camminare per chilometri sul marciapiede, come se fosse solo un percorso di passaggio, senza incontrare nessuno, sono l’esatto contrario di Parigi. Ciò che tutte le altre città sembrano concedere a malincuore agli scarti della società – passeggiare, girare a vuoto, la flânerie – è proprio ciò che le strade di Parigi invitano chiunque a fare. Ecco perché, fin dall’epoca del Secondo Impero, la città è diventata il paradiso di tutti coloro che non sentono il bisogno di andare a caccia di guadagni, far carriera, raggiungere uno scopo: il paradiso, dunque, della bohème, e a dire il vero non soltanto per artisti e scrittori, ma anche per coloro che le si stringono attorno perché non sono integrabili, né politicamente, come i senza casa e i senza stato, né socialmente.

Se si dimentica questo sfondo della città che è divenuto per il giovane Benjamin un’esperienza decisiva, si fatica a comprendere perché il flâneur sia diventato la figura chiave nei suoi scritti. Si potrebbe constatare in modo più chiaro in che misura questa flânerie determinasse il suo modo di pensare nella particolarità del suo modo di camminare, che era contemporaneamente, per come Max Rychner lo descrive, “un passo in avanti e un indugiare sul posto, un particolare miscuglio delle due cose”. Era il passo del flâneur, e se risultava così disarmante era per il fatto che il flâneur, come il dandy e lo snob, trova casa nel XIX secolo, un’epoca di garanzie in cui i ragazzi di buona famiglia borghese erano sicuri di percepire una rendita senza dover lavorare, e non avevano dunque alcuna ragione di avere fretta. Come la città insegnò a Benjamin la flânerie, il modo segreto di condursi e di pensare del XIX secolo, così risvegliò anche naturalmente in lui un gusto per la letteratura francese, che lo allontanò in misura pressoché irrevocabile dalla vita spirituale tedesca convenzionale.

Il pezzo noi l'abbiamo ripreso da   https://www.minimaetmoralia.it/wp/filosofia/walter-benjamin-raccontato-da-hannah-arendt

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