WILD MAN BLUES
di Antonio Casto
Per cogliere dal vero Woody Allen c’è naturalmente la sua strepitosa, nostalgica autobiografia, nonché poche preziose interviste rilasciate nel corso degli anni (soprattutto Ottanta e Novanta) in cui parla in modo ogni volta semplice e disincantato della sua vita e del suo mestiere. Ma forse la testimonianza migliore resta Wild man blues, il documentario diretto da Barbara Kopple (scelta curiosa) che segue il regista non in qualità di regista, su un set, ma come clarinettista della New Orleans Jazz Band durante le tappe del suo tour europeo del 1996.
La più grande sorpresa di questo piccolo film delizioso è che in realtà, si scopre quasi subito, è un ottimo documentario sull’Italia (di quegli anni o di sempre), e di come noi italiani ci rapportiamo alle celebrità estere: Allen e la moglie Previn (assieme alla sorella-manager Letty Aronson) fanno tappa a Parigi, Madrid, Londra con grande soddisfazione e senza mai disguidi (se si eccettua una frittata dura come la pietra in Spagna e il raffreddore in Inghilterra). Invece ogni volta che si ritrovano in una città italiana c’è sempre qualcosa che va storto, in modo possibilmente caciarone e al limite del grottesco (e loro ci scherzano su, mentre qualsiasi altra star internazionale scaglierebbe rimostranze furibonde e indignate).
A Venezia le stanze sono gigantesche, rococò, però non esistono materassi matrimoniali («It’s a concept they haven’t gotten used to here» fa subito Allen), e all’after-party un’anconetana lo subissa di complimenti da fiera di paese senza alcun senso della misura, come i giornalisti alla Ekberg ne La dolce vita (in più punti del film la colonna sonora di Nino Rota diventa una scelta obbligata). Ove ciò non bastasse, Cacciari si trascina il regista e la moglie in giro per Venezia, inseguiti da una folla di fotografi, e li costringe a visitare la Fenice appena andata a fuoco. Un cordone umano di carabinieri deve intervenire per frenare i paparazzi e permettere al gruppetto di camminare per la città. L’imbarazzo di Allen è palpabile: «It’s the same photo, no?» tenta al millesimo scatto nella centesima calle, ma Cacciari non reagisce mai, sembra totalmente refrattario all’ironia sdrammatizzante (forse che Allen gli interessa solo in quanto membro della razza ebraica?). E allora Allen a Previn: «We have to be careful. The mayor has many enemies»).
Lo stesso caos a Torino, durante una conferenza stampa irrespirabile, al punto che Allen comincia con inquietante serietà chiedendo ai giornalisti di restare seduti quando andrà via, altrimenti avrà un attacco di panico – intanto l’amministrazione se lo gioca come fiore all’occhiello come se fosse venuto apposta per loro («voglio interpretare questa visita di Woody Allen come un segno di portafortuna», qui davvero è il finale di 8½). A Bologna addirittura la folla blocca l’hotel e bisogna elaborare strategie per raggiungere il teatro incolumi uscendo dal retro (e Allen: «Non voglio affacciarmi a salutare, magari c’è Mick Jagger nell’altra stanza e loro sono qui per lui»).
Sia chiaro che a smuovere queste folle è soprattutto il personaggio e il gossip, ovvero l’ancora recente scandalo con Mia Farrow (erano le prime occasioni in cui Allen si mostrava apertamente con Previn). E certo lui è l’ultimo a farsi illusioni su questa parvenza di successo da star: quando lo inseguono mentre gira in gondola, chiosa: «They won’t pay ten cents to see one of my movies, but passing on the gondola, they love it». A onor del vero, tutte le volte che nel film si intervista il pubblico prima e dopo i concerti, nessuno ne parla: gli spettatori tirano piuttosto in ballo l’intelligenza, la simpatia, i suoi «bellissimi» film (sempre in blocco, molto in generale, senza mai arrischiare un titolo). E tutti chini come lacchè, torcendosi le mani, con la fronte sudata e zagagliando – un popolo di camerieri e di sottomessi, come dicono di noi da secoli.
A Roma Vincenzo Mollica gli anticipa l’annuncio col quale lo presenterà prima del concerto («Now ladies and gentlemen Woody Allen», ignorando affatto il resto della band), e Allen: «No no, noi non facciamo così, entriamo e cominciamo semplicemente a suonare». Poi arriva l’ora del concerto e da dietro le quinte si intravedono Mollica e Renzo Arbore sul palco che inscenano tutto uno spettacolino evidentemente a insaputa di Allen, il quale infatti fa agli altri della band: «Ma chi sono? Che stanno facendo? Che dicono?», e infine: «Basta, entriamo lo stesso, entriamo!». Nonostante tutta la proliferazione presentativa, alla resa dei conti il pubblico sembra freddino durante il concerto, tanto che Allen alla fine accorcia lo spettacolo. Però anche qui, all’after-party tutti esaltati e pieni di salamelecchi (e lui subito: «They’re more animated now than when we played for them»).
Il meglio arriva (chi l’avrebbe detto) a Milano, dove si scordano il toast chiesto da Previn per colazione («forse il cameriere è stato appena scarcerato e devono riabilitarlo» spiega Allen parlando davanti al colpevole, che si guarda attorno un po’ incerto e forse ha capito forse no). Poi l’acqua calda della super-mega-suite non funziona, e quindi subito idraulico e direttore piegati nella doccia sbiancati e muti dal terrore che smanettano coi pulsanti (Allen: «siamo i primi a usarla, serviamo da cavie»). Dopodiché a inizio concerto salta la corrente nel teatro. La band se ne infischia e suona al buio fino alla fine, accontentandosi di un lumino al centro del palco. La quintessenza dell’italianità però arriva il giorno dopo: mentre Allen sta provando, i camerini vengono invasi senza preavviso da una sfilata dell’intero «fire department» in divisa, saranno una decina, e gli consegna una targa per essere riuscito a mantenere la calma in un momento di emergenza (giuro). Anche qui, la reazione immediata di Allen è semplicemente perfetta: «Well, some people are just heroes».
Difatti, l’elemento essenziale che emerge dal seguire l’uomo Woody Allen tappa dopo tappa è proprio questa sua meravigliosa prontezza nel lanciare minuscole battute impeccabili, il suo vero dono innato, come ammette lui stesso da sempre: notazioni spontanee, scandite con nonchalance e quasi inconsapevole serietà. Qualche esempio. Appena arrivati a Madrid, Previn conoscendolo gli chiede: «The shower was excellent, wasn’t it?», e lui: «Yes. Great pressure.», prima di lanciarsi in una lunga e severa analisi della posizione del foro di scarico. Oppure la paura dell’ultima data a Londra, perché rispetto al resto dell’Europa il pubblico potrebbe «odiarmi nella mia stessa lingua». O quando gli spiegano la tabella di marcia della giornata a Parigi: «Ma se usciamo alle undici quando farò la lavatrice?». Il motivo per cui ama New York: «I like to know that if it’s 3:30 or 4:00 in the morning and I want a bowl of duck-wonton soup, I can get it. Now: I don’t get it, because who needs that at 4:00 in the morning». E poi ci sono le sue affermazioni guizzanti, frecciatine quasi impercettibili che però, a guardarle bene, da vicino, trasudano un sarcasmo feroce, e che incantano prima di tutto per il loro miracoloso, invidiabile tempismo (è lo stile asciutto e appuntito dell’amato Bob Hope). A una festa presenta la moglie così: «This is the notorious Soon-Yi Previn». Deve consegnare il bucato alla lavanderia: «I’ll give them specific instructions so they know what to violate», e a Previn: «Do you want it back with holes in it or do you want it the way we sent it in?»). Al pubblico all’uscita che continua a chiedere autografi e tende la mano: «Thank you, I must go because my mother’s on a respirator». Meravigliosa la risposta dopo il concerto a Roma, quando sente che il pubblico è stato poco partecipativo e quindi accorcia la scaletta: «We cut it down tonight, because we didn’t want to keep the people too long. I know they want to eat» (la faccia incerta degli organizzatori che annuiscono è impagabile). Credo insomma che qui si distingua bene l’enorme differenza tra Woody Allen e il suo personaggio cinematografico canonico, dove le piccole paranoie e ipocondrie sono, per esigenza di commedia, gonfiate e rese problematiche. Nella sua vita di tutti i giorni non è così (almeno questa è l’impressione): solo piccoli spunti, dubbi, rigidità autoironiche, che non lo bloccano davvero nel fare ciò che desidera, anzi su cui lui stesso scherza e sa sorvolare. Tant’è che quest’uomo ha fatto e continua a fare di tutto, sempre, dallo sport ai viaggi internazionali. Differenza forse quasi impercettibile, ma fondamentale.
Ci sono poi momenti di inattesa sincerità, dove la tenerezza e la sorpresa dello spettatore sconfinano quasi nell’imbarazzo di fronte a una certa pudica timidezza. Per esempio Previn durante una colazione che, come una madre o un’insegnante comprensiva e incoraggiante ma dal polso fermo, gli spiega come comportarsi con la band: deve sforzarsi di dialogare con tutti, non può limitarsi a parlare solo con quello che conosce meglio. Allen a testa bassa difende le sue ragioni, ma come un bravo scolaro alla fine promette che si impegnerà (i suoi tentativi saranno abbastanza goffi). O ancora, uno scambio di sguardi amorosissimo tra i due amanti in gondola, appena un barbaglio di cedimento rispetto alla solita difesa logorroica e witty contro i sentimenti. E infatti subito, con la sua autoconsapevolezza imbattibile, Allen corre ai ripari: «I could sing if you like», e poi: «It’s quiet out here… The gondolier could cut our throats and no one would know».
Niente comunque supera il finale in casa dei genitori quasi centenari, una volta tornati a New York: l’ambiente un po’ soffocante, l’atmosfera tragicamente piccolo-borghese, l’atteggiamento remissivo del figlio davanti a queste due figure così semplici ma così giudicanti, che si rivelano lontanissime e piene di sospetti nei confronti della sua professione e del suo mondo, e davanti alle quali lui rimpicciolisce – a sessant’anni e passa – come un bambino incapace di renderli contenti, pur continuando a difendersi come può con la sua ironia (protezione labile a cui loro, soprattutto la madre, sembrano impermeabili più di Cacciari). Il padre in demenza senile, la madre versione drag di Groucho Marx (così la descriveva lui stesso in certe vecchie interviste, e qui scopriamo che è vero), che lo rimprovera perché nella vita «potevi fare tante cose, eri bravo negli sport, ma non ti sei impegnato nelle cose giuste» (al regista più famoso del mondo…). Per non parlare dei rimproveri sulle scelte sentimentali, perché la madre avrebbe voluto per suo figlio una «nice Jewish girl» (lo dice davanti a Previn), e ad Allen non resta come ultima risorsa che metterla di fronte all’assurda mancanza di freni e di riguardo dei suoi giudizi implacabili, sfidando l’imbarazzo, gonfiandolo fino a renderlo semplicemente ridicolo. Infatti le chiede: «E insomma, che ne pensi del fatto che sia io che mio fratello adesso abbiamo fidanzate asiatiche?». E la madre, rigidissima (sempre di fronte a Previn): «I personally don’t think it’s right». Ciò valga a dimostrare che il successo, personale ed esteriore, può continuare a non contare nulla fino alla fine, agli occhi della tua famiglia, se chi ti giudica si era convinto da subito che sei un perdente.
Direi, per concludere, che una massima aspirazione sarebbe raggiungere la disillusa ma contenta leggerezza di questo regista, anzi di questa persona, contro tutto ciò che continuamente attorno a noi incombe e soffoca, il suo strano equilibrio tra essere accomodante e prestare attenzione a tutto, la sua sbalorditiva lucidità a più di ottant’anni (le sue rare interviste recenti diventano tanto più limpide quanto più passano gli anni, e hanno una freschezza che si cercherebbe invano nelle nuove generazioni), la sua pacifica semplicità – la parola chiave per descrivere Woody Allen è unassuming, «che non avanza grandi pretese». Proprio dall’inatteso finale casalingo di questo documentario si capisce appieno l’impenitente umiltà di questo regista, che vuole solo fare i suoi film, che li ritiene tutti piccoli spettacoli stagionali perlopiù malriusciti, che non sa comprenderne la grandezza (è convinto che Midnight in Paris e addirittura Vicky Cristina Barcelona siano migliori di Annie Hall; fece di tutto per convincere i produttori a non distribuire Manhattan), che fin dagli anni Settanta rimarca la propria indifferenza all’idea di non essere più finanziato, che deve sempre prendere i suoi progetti sottogamba per lavorare, non ambire mai per principio a pellicole che ostentino una certa grandiosità, che si ostina sempre più a non dare il massimo, a non impegnarsi troppo, perché è l’unico modo per non lasciarsi cogliere da delusioni e manie di perfezionismo (e intanto, nella supposta uniformità della sua opera, saltano fuori continui capolavori tutt’altro che omogenei nella forma, come la critica miopemente ritiene: un film che gronda Fellini, un rigoroso dramma alla Bergman, un musical sbalorditivo, pezzi di cartoni animati, finti documentari, slapstick, espressionismi anni Venti, fantascienza, film in costume, una riscrittura di Čechov, esperimenti di montaggio, thriller hitchcockiani – e hitchcockiani davvero, non come si usa dire di ogni nuovo film con un assassino), eppure graziato da questa sua delicata, imperterrita facoltà comica, e propenso a seguirla perché sarebbe scortese rifiutare un talento ricevuto in dono, nonostante «my inclination has always been to tragedy», e nonostante la sua vera più profonda ossessione giaccia in un campo tutto diverso, lontanissimo, ovvero il desiderio feticistico di commettere una colpa ed essere liberi dal rimorso e dalla punizione (sogno irrealizzabile, soprattutto per un ebreo). Ma shhh, non sottolineiamo troppo le qualità e i risultati raggiunti, pensiamo solo a continuare a lavorare, affinché lo schiacciante super-ego materno non risollevi il capo a rimarcare che è tutto sbagliato.
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