Luciano
Canfora anticipa sul Corriere della Sera un suo intervento sull'Unità
d'Italia per un ciclo di conferenze promosso da Laterza
La rivoluzione dei ricchi
Alla testa del Risorgimento una ristretta élite che ne determinò l'esito moderato
di Luciano Canfora
Per definire
l'ambito cronologico del Risorgimento italiano in quanto processo di unificazione
nazionale si possono adottare diversi criteri. È ragionevole indicare nel
«Regno italico» creato da Napoleone - che peraltro non comprendeva il Regno di
Napoli e che comportava l'inclusione nell'Impero francese del Dipartimento del
Tevere e del Dipartimento del Piemonte - una prima forma di riunificazione del
nostro Paese. Era strettamente connessa alla spinta innovatrice dovuta alla
Rivoluzione francese: la Repubblica Cisalpina e la invenzione di un Tricolore
modellato su quello della Repubblica francese ne avevano costituito un
antefatto. È altrettanto legittimo assumere un inizio più tardivo: l'insorgere
cioè di movimenti patriottico-liberali volti a mettere in discussione l'assetto
del nostro Paese stabilito dal Congresso di Vienna dopo la definitiva sconfitta
di Napoleone (giugno 1815) ed il crollo della costruzione sua incentrata sul
tentativo di egemonia francese sull'Europa occidentale. Costruzione di cui il
Regno italico (il cui sovrano era Napoleone stesso) costituiva un tassello.
Si avviò di
certo allora un susseguirsi di crisi, per lo più sincroniche e sintoniche
rispetto a più vaste crisi che scuotevano in quasi tutta l'Europa l'ordine
instaurato a Vienna e tutelato da principi e modi di azione (preventiva e
repressiva) sanciti dalla «Santa Alleanza». Essa si era arrogata un diritto di
ingerenza fondato sulla ferma volontà di impedire il ritorno della
<<Rivoluzione», dei suoi metodi e dei propositi, che avevano squassato
l'Europa per un quarto di secolo (1789-1815). In realtà, dopo il crollo del
sistema egemonico creato dal Bonaparte, le idee giacobine non si sono più
riproposte uguali, come immaginavano e paventavano i sovrani e i ministri che
avevano stabilito nel 1815 «il nuovo ordine>> europeo. Dalla sconfitta
tanto del giacobinismo che del bonapartismo e soprattutto dalle trasformazioni
sociali in atto, nascevano nuovi soggetti sociali aspiranti ad un ruolo
dirigente, nuove parole mobilitanti (non più <internazionalistiche» come
quelle della Rivoluzione e dell'Impero), nuove realtà economiche.
Perciò la
leadership del nostro Risorgimento fu nelle mani di élite borghesi non solo
intellettuali delle aree più avanzate del Paese. La partecipazione di masse
popolari fu invece intermittente né poté esprimere programmi e uomini capaci di
egemonia. Ciò non toglie che, in varie, e decisive, fasi del lungo cammino
verso il (mai raggiunto del tutto) compimento dell'unificazione nazionale, il
ruolo e l'intervento di consistenti masse popolari fu necessario, ancorché
subalterno. Alessandro Manzoni, nell'incompiuto saggio comparativo cui
attendeva alla fine della sua vita, tra il 1789 francese e il 1859 italiano,
definì <rivoluzione italiana» il sommovimento statuale e istituzionale che
si produsse in quell'anno in conseguenza della guerra franco-austriaca: il cui
effetto fu, per l'impero d'Austria, la perdita della Lombardia e, per i Savoia,
sull'onda di tale risultato, le annessioni di Toscana, Legazioni pontificie
etc. al Regno di Sardegna. Non era improprio il termine
<<rivoluzione>> per definire quel decisivo passaggio storico. È
sintomatico che, in quel saggio, Manzoni lasciasse fuori della sua analisi per
un verso il 1793 parigino (che appare in iscorcio) e per l'altro l'impresa
garibaldina (1860), conclusasi con l'annessione al Regno di Sardegna del Regno
delle Due Sicilie e con la nascita, di lì a pochi mesi, del Regno d'Italia.
Oligarchia
Nel Regno
d'Italia per lungo tempo solo una quota esigua dei cittadini ebbe diritto di
voto
Con la
travolgente avanzata di Garibaldi da Marsala a Napoli si era affacciata, sul
<<Risorgimento», la componente popolare: aveva svolto un ruolo, ma era
stata (repressione ad opera di Bixio dei moti contadini) risospinta verso una
condizione di subalternità. E la scelta di Garibaldi di non tener conto delle
sollecitazioni mazziniane, di prendere atto dell'intervento militare
organizzato in gran fretta da Cavour per «fermare Garibaldi», di cedere al «re
d'Italia>> quasi teatralmente, a Teano, l'appena conquistato (o liberato)
Meridione d'Italia determinò per decenni la nostra storia nazionale in
direzione conservatrice. Un indicatore di ciò può ritenersi la divaricazione
impressionante tra gli affollati <<plebisciti» che sancivano man mano le
varie annessioni (fino a quella conclusiva post-Teano) e il limitatissimo
diritto elettorale vigente, di elezione in elezione, tra il 1861 e il 1880. Nel
1861 hanno il diritto elettorale 418.686 cittadini, che costituiscono l'1,9%
della popolazione residente. Nel 1880 si sale a 621.896 e ad una percentuale
del 2,2%. Al che si aggiunga che del diritto elettorale si avvalgono -
all'interno di questa minuscola élite di cittadini di pieno diritto - soltanto
il 57 (massimo 59) per cento. Con la <<sinistra storica» (Depretis) si
arriverà, nel 1882, a due milioni di aventi diritto (7% della popolazione
residente) e solo nel 1890 si arriverà ad una percentuale del 9% pur sempre con
un assenteismo oscillante tra il 40 e il 50%.
Se è vero in
generale che le <<rivoluzioni» incominciano in modi propugnati e
praticati da forze radicali e però prima o poi si assestano intorno a gruppi
dirigenti moderati, questo è particolarmente vero nel caso italiano. Ed è
appunto questa la cifra fondamentale del processo risorgimentale. Ognuno vede
come un tale processo storico e politico condotto nel nome (spesso abusato)
della «libertà» si era inverato di fatto nella libertà dei <<pochi» (per
adoperare un linguaggio antico). Ed è perciò ben comprensibile che da un tale
processo siano discesi due fenomeni non di rado convergenti: la critica del
Risorgimento per il modo della sua attuazione (critica di varia ispirazione: da
Oriani, a Gobetti, a Gramsci) e il proposito di <<completarlo»>, di
sospingerlo verso altri esiti grazie al coinvolgimento di chi ne era stato
tagliato fuori. La successiva storia d'Italia è tutta racchiusa nel solco di
queste due linee intellettuali e pratiche: ivi compresi il trionfo postbellico
del socialismo (1919), la controspinta, anch'essa in veste «rivoluzionaria»,
del fascismo e poi la ricostruzione del Paese dalle macerie lasciateci dal
fascismo (1946: Repubblica e Costituzione). In un processo tuttora incompiuto.
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