E’ appena uscito per Garzanti il volume che raccoglie Tutte le poesie di Antonella Anedda, con una prefazione di Rocco Ronchi. In esclusiva per LPLC, presentiamo alcune poesie che Antonella Anedda ha scelto per noi e un estratto della prefazione di Ronchi. Noi riprendiamo tutto dal sito https://www.leparoleelecose.it/?p=47641
da Notti di pace occidentale (1999)
IV.
Correva verso un rifugio, si proteggeva la testa.
Apparteneva a un’immagine stanca
non diversa da una donna qualsiasi
che la pioggia sorprende.
Non volevo dire della guerra
ma della tregua
meditare sullo spazio e dunque sui dettagli
la mano che saggia il muro,
la candela per un attimo accesa
e – fuori – le fulgide foglie.
Ancora un recinto con spine confuse ad altre spine
spine di terra che bruciano i talloni.
Ciò che si stende tra il peso del prima
e il precipitare del poi:
questo io chiamo tregua
misura che rende misura lo spavento
metro che non protegge.
Vicino a tregua è transito
da un luogo andare a un altro luogo
senza una vera meta
senza che nulla di quel moto possa chiamarsi viaggio
distrazione di visi contro i vetri
mentre batte la pioggia.
VI.
Non esiste innocenza in questa lingua
ascolta come si spezzano i discorsi
come anche qui sia guerra
diversa guerra
ma guerra – in un tempo assetato.
Per questo scrivo con riluttanza
con pochi sterpi di frase
stretti a una lingua usuale
quella di cui dispongo per chiamare
laggiù perfino il buio
che scuote le campane.
***
C’è una finestra nella notte
con due sagome scure addormentate
brune come gli uccelli
il cui corpo indietreggia contro il cielo.
Scrivo con pazienza
all’eternità non credo
la lentezza mi viene dal silenzio
e da una libertà – invisibile –
che il Continente non conosce
l’isola di un pensiero che mi spinge
a restringere il tempo
a dargli spazio
inventando per quella lingua il suo deserto.
La parola si spacca come legno
come un legno crepita di lato
per metà fuoco
per metà abbandono.
da Il catalogo della gioia (2003)
11 settembre 2001
Seguo la scia di luce dentro i mesi, nella cripta autunnale
ascolto la prima pioggia sulle grondaie.
Settembre – dice il calendario a metà consumato con figure
d’insetti sopra i fogli. Quasi ottobre anticipano i gusci di
lumaca uno per ogni giorno a disdire con la lentezza la paura.
Loda queste creature di terra, il volo breve, la mano paziente che
disegna: contro il fuoco, contro il cielo celeste della fede.
In basso, nell’orto, la raggiante architettura dei lombrichi, un
velo di formiche sotto il melo. Mi inchino al fango, ai moscerini
alla lumaca, alla fatica con cui mi sale sulle dita.
da Dal balcone del corpo (2007)
Paesaggio
Mi avvicinai a un ramo carico di neve
dove uno dei corvi piegava sotto le zampe il legno.
Diventai quel dondolio di grigio e nero.
E quel diverso verde (misto di salvia e gelo)
che avanzava con un tocco di livore sulle nubi.
Vidi me stessa dentro quel purgatorio.
Tutto era paesaggio. La rabbia: un tumulo.
L’incertezza – a mucchi: una collina.
Il disamore: alberi con ombre intirizzite.
«Osserva» disse l’ombra nel cespuglio più vicino,
«la nebbia inghiotte il tuo dolore.
Impara nel tuo spazio mortale
imparando si sfiora il paradiso.»
Sì, risposi e la luce diminuì l’ira del mattino
divise il mio corpo dal rancore
impose alle ombre di tacere.
E un tagliente azzurro prese – era già paradiso?
il posto del paesaggio, della prima persona.
da Salva con nome (2012)
Spazio dell’invecchiare
I
Solo la nudità alla fine ci raggiunge
esatta come la luna crescente nei capelli.
Esiste una gioia nella reticenza
e un riparo perfino in questo spazio
che ha un inizio e una fine.
Non voglio scrivere un’elegia della vecchiaia,
solo dire che spingere le braccia dentro il freddo
è una prova che ha il senso di trovare il verbo in una frase.
Senti come guadagni la via del corridoio.
Non è scontato il passo col respiro.
Conta i mattoni pensando ai ciottoli di fiume
all’acqua che ti fasciava il piede
ricorda quanta tenacia c’è voluta a decifrare
le mappe dentro alle parole.
da Historiae (2018)
Clima, isole, scorie
Quanta pioggia che dorme
tra la mandria di nubi quanti
sciami di api pronti a fendere l’estate
e intanto l’isola slitta schiacciata contro il cielo
senza sorgenti e prati, senza colline
di mandorli e noccioli
senza-mai-fiori se non questi – dolcemente
radioattivi – anemoni di mare.
Osservazione 1
L’alba ci fa coraggio
questa luce che sale ci spinge ad ascoltare
dissolve ciò che deve. Dice: – ora
comincia a perlustrare
te per prima, scollando dalla mente la pelle del passato
prendendo senza ira il tuo nulla tra le dita.
S’albeschida faghet voluntate
sa luxi ki benit ispinghet a iscultare
isfagheret su ki debet. Narat: – hora
prinzipia a investigare
te po prima staccando sa pelle dal passato
pigandi su nulla intras ditas, sinza ira.
Anatomia
Dice un proverbio sardo
che al diavolo non interessano le ossa
forse perché gli scheletri dànno una grande pace,
composti nelle teche o dentro scenari di deserto.
Amo il loro sorriso fatto solo di denti, il loro cranio,
la perfezione delle orbite, la mancanza di naso,
il vuoto intorno al sesso
e finalmente i peli, questi orpelli, volati dentro il nulla.
Non è gusto del macabro,
ma il realismo glabro dell’anatomia
lode dell’esattezza e del nitore.
Pensarci senza pelle rende buoni.
Per il paradiso forse non c’è strada migliore
che ritornare pietre, saperci senza cuore.
***
One
di Rocco Ronchi
Introduzione a Tutte le poesie di Antonella Anedda.
Quasi a ogni libro – che sia una raccolta di versi, una prosa, una libera versione poetica di altre poesie o un esercizio di iconologia anomala – Antonella Anedda si confronta con «la problematica insituabilità (e instabilità) del soggetto poetante» (Riccardo Donati). La domanda sul chi del “poeta” è per lei più interessante di quella classica che chiede che cosa sia poesia, perché contiene già in se stessa la risposta a entrambe le questioni. “Poeta”, per Anedda, non è nient’altro che il chi – l’ipse o l’autós, per dirla dottamente – che ogni esistenza è per il solo fatto che è. “Poesia” ne è il sentimento. Il chi è uno/una nel senso che questo articolo indeterminativo prende quando è chiamato in causa per farsi il deittico, a un tempo, del “tutti” e del “nessuno in particolare”, vale a dire del “chiunque” che non possiamo non essere alla prima persona singolare quando semplicemente esistiamo. Nella lingua inglese, così cara ad Anedda, l’impersonale è veicolato da “one” che funziona da pronome del senza nome. Prima di essere quella «tragedia senza sangue» implicata dal “nome” che altri mi hanno dato [SCN 347], “io” sono uno/una della stessa pasta dell’uno/una che bussa alla porta o che corre sulla strada, proteggendosi la testa. Ne condivido la medesima impersonalità. Lo decliniamo al maschile o al femminile solo per convenzione grammaticale e, siccome stiamo parlando di una poetessa, per rispetto di una micropolitica dei generi, ma uno/una è neutro, non è né maschile né femminile e non è più nemmeno qualcosa di soltanto umano. L’uno/una che io sono a questa strana primissima persona – una persona senza volto e, forse, proprio per questo più che mai persona, cioè maschera vuota – è infatti differente per natura dall’io soggetto dell’enunciazione come dal tu dell’interlocutore che ogni enunciazione suppone. Attenendosi alla sapienza dei grammatici arabi, Émile Benveniste aveva escluso la terza persona dal dominio dei pronomi personali. La terza persona, sostiene il grande linguista, è la non-persona, è la deissi per la “cosa” non umana e, al limite (come avviene, ad esempio, in Lévinas), per la differenza dell’Altro, Dio compreso, nella misura in cui l’Altro, se è veramente Altro, si sottrae a ogni reciprocità comunicativa.
Il “chi” insituabile, che il nome vorrebbe esorcizzare e che la poesia invece ritrova alla radice dell’essere, è allora una res, una cosa, ma una cosa che palpita o, forse, che brulica al fondo del soggetto, a un tempo inaugurandolo e disastrandolo. La critica letteraria ha segnalato nella poesia di Anedda una pulsione verso l’inorganico, una fascinazione per l’inerte, una inclinazione alla reificazione, talvolta stigmatizzandola come una tentazione alla quale la poetessa avrebbe forse dovuto opporre maggior resistenza, ma “poesia”, per Anedda, è proprio il sentimento di questo essere neutro, è la passione, il trauma, provocato dalla solitudine assordante che si sperimenta quando vivendo ancora nel rumore del mondo si esce momentaneamente da esso, quando la soggettivazione imposta dalla socializzazione cede il passo all’ipse, alla chiaroveggenza dell’autós, dell’uno-senza-l’altro, un uno che la psicoanalisi considera perverso perché assolto dalla relazione, fuori dal tempo dell’uomo e disperso nello spazio della natura. «Di colpo ero via da me stessa mi ero uscita di mente / in uno spazio che ancora non riconoscevo. / La pioggia all’improvviso quasi fossimo al Nord / e io non c’ero.» [H 477]
Già nel titolo (Nuvole, io) la poesia da cui sono tratti questi versi evoca l’accoppiamento pareidolico delle “nuvole”, simbolo per antonomasia dell’effimero, dell’assoluto del passaggio, il solo assoluto in cui Anedda creda, con la forma “io” che è invece funzione della permanenza e della stabilità dell’esperienza. L’“io” come una di quelle figure che vediamo disegnarsi nel campo aperto di un cielo nuvoloso, non una sostanza, dunque, ma una costruzione, forse solo una fantasia. Racconta poi della fatica della poetessa a trattare con i pronomi: né io né tu funzionano, nemmeno i plurali noi o voi (Benveniste ha mostrato come noi e voi non ne siano affatto il plurale): «Dico noi / e mi sento falsamente magnanima. / Dire voi o tu mi dà disagio come accusare». Resta la terza persona, ma «mi confonde ogni volta con il sesso» [H 476], mi scambia con lei: «Lei, la me stessa con i piedi gelidi nell’acqua / non si muoveva frastornata dal vento» [H 477]. Chi è lei? Lei è il soggetto dell’enunciato, l’io in quanto “detto”, un io che è un oggetto come gli altri sulla scena della rappresentazione, come la «sabbia quasi nera» o il «mare di cobalto». Lei è il primo (pro)nome-destino, la prima clausura claustrofobica nell’essere dato, nel sesso assegnato, ad esempio. Lei è il Me stesso che Io, in quanto soggetto dell’enunciazione, non posso non essere quando parlo e quando sono parlato dall’Altro, è l’ombra che sempre mi accompagna, il monumento (Anedda preferisce documento) che non cesso di costruire esistendo. Perché esistere per un umano qualsiasi significa non solo essere ma riferirsi a sé, raddoppiarsi riflessivamente nella propria immagine allo specchio, cercarsi nei propri segni. Più che una costruzione il Me stessa è allora una sorta di effetto fotografico: «Guardavo da un riquadro le cose / ero abbagliata da un lampo di magnesio dentro il cielo» [H 477]. Il «laggiù» in cui, nei versi finali, Anedda decide di lasciare «indisturbata» la propria immagine (Lei) ha la stessa consistenza dello strano spazio che frequentiamo quando sfogliamo un vecchio album di fotografie ritrovandovi nostre antiche pose. O, più modernamente, è lo spazio nel quale un “documento” – «Lei, la me stessa con i piedi gelidi nell’acqua» – viene “salvato”.
L’ipse, l’autós, il chi, il cui sentimento giustifica la poesia, è una non-persona ma non è un oggetto dato alla terza persona come il Me della riflessione: la sua impersonalità è infinitamente più profonda perché è una impersonalità vissuta e sentita alla prima persona del singolare. Nessuno dei pronomi può allora funzionare per chi è simultaneamente terza e prima persona, non-persona e persona, cosa e pensiero. Ora, secondo Anedda, è un segno della disinvoltura dei tempi pensare di cavarsela in poesia (come in filosofia) con una bella tirata contro l’“ego”: i critici non raccomandano altro, i filosofi lo teorizzano e i poeti si accodano pavoneggiandosi. Anedda va decisamente controcorrente. «Vorrei disfarmi dell’io è la moda che prescrive la critica / ma la povertà è tale che possiedo solo un pronome» ergo «alla fine torno all’io che finge di esistere, / ma è una busta come quelle usate per la spesa / piena di verdure o pesce surgelato» [H 476]. L’io cui si ritorna non è però identico all’io di prima, ma, come recita la celebre formula di Gershom Scholem a proposito dell’età messianica, è quell’io di prima «solo leggermente diverso». Lawrence Ferlinghetti come deittico di questo io revisionato s’inventa allora una strabiliante quarta persona del singolare: «And he is mad eye of the fourth person singular / of which nobody speaks / and he is the voice of the fourth person singular / in which nobody speaks / and which yet exists / with a long head and a foolscap face / and the long mad hair of death / of which nobody speaks» (He. To Allen Ginsberg). La lascia in eredità a Gilles Deleuze, che traducendola potrà gustarne ancora di più la paradossalità, dal momento che person e nobody in francese si traducono personne: alla quarta persona (personne) del singolare è nessuno (personne) che prende finalmente la parola alla prima persona (personne).
Il “mondo”, che altro non è che un tessuto di relazioni, giudicherà questa passione morbosa e quel sentimento malato. Lo definirà, come ha fatto l’antropologo Ernesto De Martino nei suoi mirabili studi sulle «apocalissi culturali», una «crisi della presenza» e una perdita improvvisa di significatività delle cose. Lo choc culturale provocato in una comunità tradizionale dall’incontro/scontro con la modernità è, secondo De Martino, l’equivalente dell’accesso psicotico che desolidarizza un individuo dal suo ambiente quotidiano, rendendoglielo improvvisamente irriconoscibile. Si pensi all’esperienza perturbante dell’amnestico o a quella, più inoffensiva, di chi risvegliandosi la mattina in una stanza d’albergo, a causa della stanchezza e della frequenza dei suoi spostamenti, non sa più riconoscere il luogo dove è né la necessità che lo ha portato lì. «Ogni tanto, di notte o verso l’alba», scrive Anna Maria Ortese in Saluto di notte, «mi sveglio con un dolore che è il più disperato e intollerabile di tutti quelli che ho conosciuto. Non so dove mi trovo» [LLDC 84]. Sono le stesse cose di prima ma leggermente diverse, quel tanto che basta per far affiorare una solitudine che Maurice Blanchot ha chiamato “essenziale” perché precede l’apparizione di quell’“accidente” che è il “mondo”. In entrambi i casi, nella grande amnesia come nella piccola amnesia del risveglio, a tramontare è la “mondità” del mondo, ciò che si interrompe è il suo funzionare da orizzonte trascendentale di senso. L’Ich denke smette di accompagnare come un buon padre di famiglia le sue molteplici rappresentazioni, il filo della continuità si spezza, le perle della collana si disperdono sul tappeto. Al naturalismo della rappresentazione prospettica, che dispone ordinatamente la scena del mondo in funzione di un occhio da ciclope posto alla giusta distanza e rigorosamente immobile, subentra «una infranta immagine cubista» [LLDC 95]. Tuttavia là dove la filosofia novecentesca – il primo Heidegger su tutti – rintracciava il punto culminante della crisi, Anedda individua la terra stessa della poesia. Ed è una terra desertica. Il suo uno/una non abita più nessun mondo. La piccola crisi mattutina lo ha espulso provvisoriamente dal tempo, che per Heidegger rimane l’orizzonte ultimo nel quale l’essere si produce nella sua significatività, e lo ha restituito a un puro spatium. L’anti-umanismo di Anedda è anzi così radicale da catalogare come “gioie” quel sentimento di estraneità. Le microamnesie del risveglio sono, a ben considerarle, delle brevi estasi.
[…]
Abbreviazioni usate nel testo:
H Historiae
LLDC La luce delle cose, Feltrinelli, Milano 2000
NPO Notti di pace occidentale
RI Residenze invernali
SCN Salva con nome
Nelle citazioni delle poesie di Antonella Anedda i numeri di pagina si riferiscono alla presente edizione.
La citazione di Riccardo Donati è tratta da Riccardo Donati, Apri gli occhi e resisti. L’opera in versi e in prosa di Antonella Anedda, Carocci, Roma 2020, p. 98.
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