16 settembre 2023

LO SGUARDO DEL GIOVANE GRAMSCI SULLA QUESTIONE FEMMINILE

 



   Già nel corso della stesura della mia tesi di laurea su "EDUCAZIONE E SOCIALISMO NEL GIOVANE GRAMSCI", discussa nel giugno del 1975 all'Università di Palermo, ero rimasto colpito dalla grande sensibilità mostrata dal giovane Gramsci sulla cosiddetta questione femminile. Ed in particolare citavo un passo della celebre recensione della Casa di bambola fatta dal sardo sull' Avanti torinese. Oggi mi piace riproporre quasi per esteso quella recensione. (fv)


Lo sguardo di Gramsci sulla questione femminile in una recensione teatrale del 1917
La morale e il costume: Casa di bambola di Ibsen

[…] Perché il pubblico è rimasto sordo, perché non ha sentito alcuna vibrazione simpatica dinanzi all’atto profondamente morale di Nora Helmar che abbandona la casa, il marito, i figli per cercare solitariamente se stessa, per scavare e rintracciare nella profondità del proprio io le radici robuste del proprio essere morale, per adempiere ai doveri che ognuno ha verso se stesso prima che verso gli altri? […].
Perché allora gli spettatori, i cavalieri e le dame che l’altra sera hanno visto svilupparsi, sicuro, necessario, umanamente necessario, il dramma spirituale di Nora Helmar, non hanno a un certo punto vibrato simpaticamente con la sua anima, ma sono rimasti sbalorditi e quasi disgustati della conclusione? Sono immorali questi cavalieri e queste dame, o è immorale l’umanità di Enrico Ibsen?
Né l’una cosa né l’altra. È avvenuta semplicemente una rivolta del nostro costume alla morale più spiritualmente umana. È avvenuta semplicemente una rivolta del nostro costume (e voglio dire del costume che è la vita del pubblico italiano), che è abito morale tradizionale della nostra borghesia grossa e piccina, fatto in gran parte di schiavitù, di sottomissione all’ambiente, di ipocrita mascheratura dell’animale uomo, fascio di nervi e di muscoli inguainati nella epidermide voluttuosamente pruriginosa, a un altro costume, a un’altra tradizione, superiore, più spirituale, meno animalesca. Un altro costume, per il quale la donna e l’uomo non sono più soltanto muscoli, nervi ed epidermide, ma sono essenzialmente spirito; per il quale la famiglia non è più solo un istituto economico, ma è specialmente un mondo morale in atto, che si completa per l’intima fusione di due anime che ritrovano l’una nell’altra ciò che manca a ciascuna individualmente: per il quale la donna non è più solamente la femmina che nutre di sé i piccoli nati e sente per essi un amore che è fatto di spasimi della carne e di tuffi di sangue, ma è una creatura umana a sé, che ha una coscienza a sé, che ha dei bisogni interiori suoi, che ha una personalità umana tutta sua e una dignità di essere indipendente.
Il costume della borghesia latina grossa e piccola si rivolta, non comprende un mondo così fatto. L’unica forma di liberazione femminile che è consentito comprendere al nostro costume, è quella della donna che diventa cocotte. La pochade è davvero l’unica azione drammatica femminile che il nostro costume comprenda; il raggiungimento della libertà fisiologica e sessuale. Non si esce fuori dal circolo morto dei nervi, dei muscoli e dell’epidermide sensibile.
Si è fatto un grande scrivere in questi ultimi tempi sulla nuova anima che la guerra ha suscitato nella borghesia femminile italiana. Retorica. Si è esaltata l’abolizione dell’istituto dell’autorizzazione maritale come una prova del riconoscimento di questa nuova anima. Ma l’istituto riguarda la donna come persona di un contratto economico, non come umanità universale. È una riforma che riguarda la donna borghese come detentrice di una proprietà, e non muta i rapporti di sesso e non intacca neppure superficialmente il costume. Questo non è stato mutato, e non poteva esserlo, neppure dalla guerra. La donna dei nostri paesi, la donna che ha una storia, la donna della famiglia borghese, rimane come prima la schiava, senza profondità di vita morale, senza bisogni spirituali, sottomessa anche quando sembra ribelle, più schiava ancora quando ritrova l’unica libertà che le è consentita, la libertà della galanteria. Rimane la femmina che nutre di sé i piccoli nati, la bambola più cara quanto è più stupida, più diletta ed esaltata quanto più rinunzia a se stessa, ai doveri che dovrebbe avere verso se stessa, per dedicarsi agli altri, siano questi altri i suoi familiari, siano gli infermi, i detriti d’umanità che la beneficenza raccoglie e soccorre maternamente. L’ipocrisia del sacrifizio benefico è un’altra delle apparenze di questa inferiorità interiore del nostro costume.
Nostro costume. Cioè costume che ha importanza nella storia attuale, perché è il costume della classe che è della storia stessa protagonista. Ma accanto a esso è un altro costume in formazione, quello che è più nostro, perché è della classe cui apparteniamo noi. Costume nuovo? Semplicemente costume che si identifica meglio con la morale universale, che aderisce tutto alla morale universale, tale perché profondamente umana, perché fatta di spiritualità più che di animalità, di anima più che di economia o di nervi e muscoli. Le cocottes potenziali non possono comprendere il dramma di Nora Helmar. Lo possono comprendere, perché lo vivono quotidianamente, le donne del proletariato, le donne che lavorano, quelle che producono qualcosa di più che non siano i pezzi d’umanità nuova e i brividi voluttuosi del piacere sessuale. Lo comprendono, per esempio, due donne proletarie che io conosco, due donne che non hanno avuto bisogno né del divorzio né della legge per ritrovare se stesse, per crearsi il mondo dove fossero meglio capite e più umanamente se stesse. Due donne proletarie le quali, col consentimento pieno dei loro mariti, che non sono cavalieri ma lavoratori semplici e senza ipocrisie, hanno abbandonato la famiglia, e sono andate con l’uomo che meglio rappresentava l’altra loro metà, e hanno continuato nella antica dimestichezza, senza che perciò si creassero le situazioni boccaccesche che sono un retaggio più proprio della borghesia grossa e piccola dei paesi latini. Esse non avrebbero grossolanamente riso della creatura che la fantasia di Ibsen ha messo al mondo, perché avrebbero riconosciuto in lei una sorella spirituale, la testimonianza artistica che il loro atto è compreso altrove, perché essenzialmente morale, perché aspirazione di anime nobili a una umanità superiore, il cui costume sia pienezza di vita interiore, escavazione profonda della propria personalità e non vile ipocrisia, solletico di nervi ammalati, animalità grassa di schiavi diventati padroni.
Da Cronache teatrali dall’«Avanti!», 1916-1920

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