“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
31 dicembre 2013
PER UNA STORIA DELLA SINISTRA CRITICA
L'uscita quasi in contemporanea di scritti di Ingrao, Magri, Rossanda, Pintor (e ora Natoli e Foa) se da un lato ci conferma che un'epoca storica si è definitivamente chiusa, dall'altra permette una considerazione più attenta della storia politica del movimento operaio italiano al di là di sterili mitizzazioni o interessate demonizzazioni. Per questo davvero la lettura di questi materiali può illuminare le contraddizioni del presente.
Alessandro Portelli
Foa e Natoli,
la sinistra critica
Nel 1994,
Vittorio Foa e Aldo Natoli, due delle figure più
alte della storia della sinistra in Italia,
si sedettero davanti a un registratore e
cominciarono a raccontare – o meglio,
Vittorio Foa invitò Natoli a raccontare,
accompagnandolo con il contrappunto
di domande e commenti mai intrusivi, sempre
riflessivi, in un intreccio dialogico di
condivisione e di diversità. Avevano
rispettivamente 84 e 81 anni, da tempo
avevano riorientato l'impegno politico
di una vita verso la ricerca storica e la riflessione
politica, con esiti memorabili, dalla
Gerusalemme rimandata di Foa all'Antigone
e il prigioniero di Natoli; ma la conversazione
fra i due non è una semplice rivisitazione
del passato, bensì un ragionamento a tutto
campo che illumina le contraddizioni del
presente.
Come ogni
storia orale che si rispetti, infatti, anche questa
conversazione è un documento sul
passato, ma è soprattutto un documento del
presente: il racconto — Vittorio Foa /
Aldo Natoli, Dialogo sull'antifascismo il Pci e
l'Italia repubblicana (Editori Riuniti,
pp. 303, euro 23) — comincia con l'infanzia
messinese di Aldo Natoli, e ne percorre tutta
la vita fino al momento del colloquio, finendo per
farci capire molte cose sulla crisi morale prima che
politica, che la sinistra attraversava
allora e che è andata peggiorando fino ad oggi.
Abbiamo vissuto
un buon quarto di secolo ormai assillati da leader
che, dopo una vita passata fra una carica di partito
e l'altra, ci spiegavano che non erano mai stati
comunisti e che quella era una storia di
orrori che non li riguardava. Ci sono voluti dei non
comunisti come Vittorio Foa (e penso
anche a certe cose di Bobbio dopo l'89) per restituire
a questa storia l'ascolto e il rispetto senza i
quali non capiamo non solo la sinistra, ma tutta
l'Italia moderna. E ci vogliono comunisti come
Aldo Natoli, che questa storia l'hanno vissuta
fino in fondo con partecipazione
critica e appassionata, per restituircene
il senso soprattutto morale. Ascoltare queste
pagine (arricchite da accurate note e profili
biografici dei curatori, Anna Foa e Claudio
Natoli) riempie di orgoglio perché abbiamo
avuto fra noi compagni di questa grandezza,
di smarrimento (che cosa resta senza di loro?), di
rimpianto per non averli ascoltati abbastanza,
di pena per averli lasciati soli.
Vittorio Foa |
Come ogni serio
lavoro di memoria, questa intervista
intreccia due punti di vista –l'intervistato e
l'intervistatore – e due momenti del tempo: il punto di
vista «di allora» e il punto di vista di «adesso». Per
esempio. Parlando dell'8 settembre, Foa
domanda: «Come alcune cose le vedevamo allora e come è
cambiata la nostra testa dopo quaranta anni di
pace?». Quello che mi colpisce è in primo luogo
l'uso del plurale: Foa si mette dentro questa
storia che in modi insieme simili e diversi è anche la
sua. Come sempre nella grammatica
dell'intervista, è ciò che i due dialoganti
hanno in comune che rende l'intervista possibile e
comprensibile, ma è la differenza
che esiste fra loro che la rende interessante.
E poi,
attraverso il dialogo con Natoli, Foa cerca di
capire non solo come «è cambiata la testa» del suo
interlocutore, ma anche come è cambiata
la sua: le domande che l'intervistatore rivolge al suo
interlocutore le rivolge,
inevitabilmente, anche a se stesso.
Natoli, a sua volta, coglie l'opportunità – direi quasi,
come in tante delle interviste migliori,
raccoglie la sfida – per ripensarsi. Non
intende buttare a mare questa storia, non
solo sua, ma non fa apologia né di se stesso né
del partito. Ogni volta, davanti a un interlocutore
che lo rispetta e lo ascolta, si rimette in discussione,
spiega le sue incertezze, i dubbi, gli errori.
Ne viene fuori,
fra l'altro, una storia della sinistra molto più
articolata, molto più sfumata e mobile di
quanto non ce l'abbiano raccontata tante volte.
Per esempio:
a proposito del patto Hitler-Stalin del 1939,
Natoli ricorda di averlo inizialmente sostenuto
come una necessità inevitabile – ma
ricorda anche le discussioni drammatiche
che portarono a scissioni e scontri nel
gruppo romano, finendo per lasciarlo isolato e in
minoranza, «in una situazione che in qualche
modo confinava con la disperazione»; e
racconta di avere cambiato posizione dopo la
spartizione della Polonia e dopo che
l'Internazionale arrivò a dire che i nazisti non erano
il nemico principale. Foa, a sua volta ripensando
al se stesso di allora, insiste sulla dimensione
della soggettività, che è poi alla radice
della scelte politiche: «L'impressione che ho
avuto io è che i comunisti, cioè voi, pur
approvando il Patto, non ostentavate questa
approvazione, cioè che l'antifascismo, profondo,
era dominante nel vostro ambito. Mi sbagliavo o
ero nel giusto, secondo te?».
Qui mi
colpisce, intanto, il «voi comunisti»
– più tardi, parlando della Resistenza,
diventa, come abbiamo visto «noi». C'è in questo uso
dei pronomi tutta la complicata storia
dei rapporti interni alla sinistra, che
nell'intervista si esplicita poi nel racconto sul
'48 e il Fronte popolare. Ma c'è anche la traccia
di una differenza che si fa comunque ascolto
e rimane rispetto: invece di accusare i comunisti
di complicità con Hitler, Foa (allora
azionista, poi socialista) scava sotto
la superficie e ascolta da compagno. E
Natoli: «Io questo lo sentivo profondamente.
Per cui dentro di me ero convinto che gli accordi
del Patto non dovevano ripercuotersi sugli
orientamenti non solo teorici ma anche
pratici del movimento comunista
internazionale», cioè sull'antifascismo.
Rossana Rossanda con Aldo Natoli |
La stessa
complessità, lo stesso scavo nelle ragioni e
torti di allora, accompagna tutto il racconto
di Natoli, dalla svolta di Salerno all'Ungheria, senza
nascondere il suo consenso di volta in volta alle
scelte del partito, eppure dando conto di come questo
consenso si faceva sempre più faticoso e la
sua relazione col partito sempre meno
agevole. Non ci sono epifanie, svolte
brusche: è un processo graduale di
cambiamento, e non è neppure un processo
lineare – per esempio, Natoli non esita a ricordare
di avere difeso il golpe comunista a Praga nel
1948: «In quel momento non è che lo vedessi in modo
critico, lo vedevo in senso positivo, a quel tempo
io ero assolutamente ligio a quel quadro
strategico».
Lo spiega col
clima di guerra fredda, con il montare
dell'anticomunismo, cioè ci fa capire le ragioni di un
errore; ma non per questo nega di avere avuto torto. Ma
poi si trova a condurre la sua battaglia più
memorabile, quella contro il «sacco di Roma»
negli anni '50, praticamente da solo, tra il
disinteresse della dirigenza nazionale;
o prende gradualmente le distanze da una linea del
partito che non coglieva le capacità di
rinnovamento del capitalismo e
viveva nell'illusione di una suo imminente crollo. E,
naturalmente, l'Ungheria, quando la distanza
comincia a farsi incolmabile.
Seguono gli anni
delle battaglie interne al partito, Ingrao,
Amendola, la scoperta del Vietnam come
modello anche di autonomia politica rispetto
all'Urss e alla Cina, l'incontro con la Cina. E di nuovo il
dialogo con Foa, la condivisione e le
differenza. Foa ricorda che «la Rivoluzione
culturale, per noi, anche per me, solo in parte, è
parsa una bandiera» (e di nuovo il «noi», ma
articolato in un «me»); e Natoli conclude
che «la Rivoluzione culturale come tale
finisce alla fine del 1968 con l'intervento
dell'esercito... Alla fine del 1968 il movimento di
base, che era la caratteristica
fondamentale della Rivoluzione
culturale, viene represso con l'esercito». Ma la
Cina resta uno dei suoi interessi principali
anche dopo le sconfitte, i cambiamenti, le
delusioni: «non sono riuscito a distaccarmene».
E poi la nascita del Manifesto – rivista,
gruppo politico, giornale – speranze,
crisi, condivisioni, dissensi,
separazioni....
I due
interlocutori di questo libro sono stati
anche protagonisti della storia di
questo giornale. Faremmo bene a ricordarcene.
il manifesto |
28 Dicembre 2013
CHE OGNI MATTINO SIA PER TUTTI UN CAPO D'ANNO...
"Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.
Perciò
odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello
spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo
bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il
senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per
credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità
e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente
degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.
Dicono
che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma
bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali,
che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno
giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il
capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna. E
sono diventati cosí invadenti e cosí fossilizzanti che ci sorprendiamo
noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel
752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha
valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova
vita. Cosí la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di
vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea
fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al
cinematografo si strappa la film e si ha un intervallo di luce
abbarbagliante.
Perciò
odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno.
Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno.
Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me,
quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo
nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale.
Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a
quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive,
da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno
tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il
bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.[...] "
Antonio Gramsci, Capodanno, Gennaio 1916, l’Avanti!
30 dicembre 2013
VITA DI F. SCOTT FITZGERALD
Francis Scott Fitzgerald con la moglie Zelda
Classici moderni. Tra
speranze ereditate e delusioni inattese, l'autobiografia dello
scrittore americano osteggiata dal suo editor e da Hemingway, che
tuttavia non esitò a servirsene.
Luca Briasco
Fitzgerald
l'impietoso
Dal 2010,
quando, a settant'anni dalla morte dell'autore, le opere di
Francis Scott Fitzgerald sono uscite fuori
diritti e sono divenute pubblicabili ad
libitum da qualunque editore, il corpus
non vastissimo della sua produzione è stato
oggetto di un vero e proprio saccheggio. I
suoi romanzi (quattro in tutto, più l'incompiuto The
Last Tycoon), come anche le raccolte più
significative di racconti, sono stati
pubblicati in diverse edizioni; alcune delle
nuove traduzioni – profondamente
necessarie, come del resto lo sono state e lo
sarebbero per gli altri maestri della narrativa
americana degli anni venti e trenta, da Steinbeck
a Faulkner, da Caldwell all'ancora «intonso»
Hemingway – hanno consentito di ammirare
la maestria stilistica, la ricchezza di
registri, l'ironia tragica che, troppo spesso
disperse nel passaggio dall'originale al testo
italiano, fanno di Fitzgerald un maestro,
e della sua lingua e del suo stile – come ebbe modo
di scrivere T. S. Eliot in una lettera all'autore,
all'indomani della pubblicazione de Il Grande
Gatsby – «il primo passo avanti che la narrativa
americana ha compiuto dai tempi di Henry
James».
Mancano
ancora all'appello un'edizione completa e ragionata
dei racconti, che Fitzgerald scriveva
spesso di gran fretta e senza particolare
cura, attratto dalla possibilità di
incassare in tempi rapidi il denaro necessario
a sostenere e alimentare il suo
leggendario e dispendioso stile di vita,
e una raccolta dei saggi e degli scritti
autobiografici che affidò ad alcune delle
riviste più popolari della sua epoca, dal
Saturday Evening Post a Esquire. Mentre per
l'edizione dei racconti si dovrà attendere ancora
(negli Stati Uniti come in Italia), gli scritti
«personali» di Fitzgerald divengono
ora disponibili grazie a una ammirevole
iniziativa dell'editore Donzelli, che ha
deciso di seguire alla lettera l'impostazione della
edizione Cambridge, curata da James L. W. West
III.
Il volume, ben
tradotto da Maurizio Bartocci, si
intitola Good Luck and Goodbye Le pagine che
raccontano la mia vita (pp. 362, euro 23,00), ed è
corredato da un dettagliatissimo
glossario, che consente al lettore di
orientarsi nei dettagli di un mondo, quello
dell'Età del Jazz, tante volte cantato da
Fitzgerald, ma anche degli «espatriati»,
tra Parigi e la Riviera francese, che appartiene
ormai al passato.
Per
comprendere quanta importanza Fitzgerald
attribuisse alla sua produzione saggistica
e autobiografica, è sufficiente
leggere la «Nota dell'editore» con cui si apre Good
Luck & Goodbye, e che riassume e sintetizza
fatti noti nei minimi dettagli a chi abbia avuto
la ventura di leggere la bellissima
biografia che Andrew Berg ha dedicato a
Maxwell Perkins, storico editor di
Scribner's e amico personale, oltre che dello
stesso Fitzgerald, di altri maestri della
narrativa americana come Hemingway
e Thomas Wolfe.
Fu l'autore a
proporre a Perkins, già nel maggio del 1934,
all'indomani della pubblicazione di Tenera è
la notte, una raccolta dei suoi scritti
autobiografici. Proposta che fu
reiterata nel marzo del 1936, mentre su
Esquire uscivano i tre articoli («Il crollo»,
«Incollare i pezzi» e «Maneggiare con cura»)
ribattezzati da Fitzgerald «Trilogia
del fallimento», e ancora il 2 aprile del 1936,
con tanto di indice ragionato degli articoli da
includere, ed eventuale ordine di pubblicazione.
La reazione
di Perkins, già tiepida nel 1934, fu vieppiù
negativa nel 1936: è molto probabile che la
valutazione dell'editor, più che a dubbi sulla
qualità letteraria del volume, fosse
legata alla preoccupazione che una raccolta
di saggi così intensamente personali
distogliesse l'attenzione del pubblico del
magistero stilistico di Fitzgerald,
per concentrarla sugli aspetti più controversi
di un'esistenza vissuta perennemente
sull'orlo del baratro, tra spese folli, derive
alcoliche, crisi famigliari, obnubilamenti
creativi. Del resto, già la pubblicazione
del «Crollo» aveva suscitato scandalo,
provocando una reazione fortemente
negativa soprattutto da parte di Hemingway,
che rimproverò all'amico-rivale di aver esposto
i propri panni sporchi in pubblico: salvo poi
sfruttare egli stesso le pagine di quell'impietoso
autoritratto, dedicando al «povero Scott»,
e alla sua ossessione per i ricchi, un crudele
cameo dentro il suo grande racconto africano
«Le nevi del Kilimangiaro».
Fitzgerald con Hemingway |
Lette oggi, alla
giusta distanza dalle polemiche, le rivalità
e gli attacchi gratuiti nei quali si consumò
in via definitiva il rapporto tra due
maestri del romanzo americano, le tre parti
della «Trilogia del fallimento»
appaiono un piccolo capolavoro di
penetrazione psicologica: un
autoritratto impietoso e privo di
compiacimenti, nel quale Fitzgerald
accetta di mettersi a nudo e fa di se stesso e dei
propri ripetuti passi falsi l'epitome di un paese
e di una generazione che, come egli afferma in uno
degli ultimi saggi di questa raccolta, essendo
«prebellica e postbellica allo stesso
tempo», si trovava ad aver ereditato due
mondi: «quello della speranza, nel quale eravamo
stati generati, e quello della delusione, che
avevamo ben presto scoperto per conto
nostro».
La coesistenza
contraddittoria tra speranza e
delusione, romanticismo e cinismo,
sogno e dispersione di sé, rappresenta la
costante che accomuna tutti gli articoli raccolti
in Good Luck & Goodbye, e ne spiega la
straordinaria mobilità e ricchezza
di tonalità e registri. Si alternano, con un
effetto di complessità e armonia al
contempo, pagine di feroce penetrazione e
sottigliezza e altre irresistibilmente
comiche nell'esaminare gli eccessi e le illusioni
di una generazione che sembra trovare
nella famiglia Fitzgerald il suo ideale punto
di sintesi. Proprio perché impietoso
prima di tutto con se stesso, lo scrittore-saggista può
rivolgere le proprie armi acuminate
anche verso il mondo che lo circonda; raccontare
le smanie di successo e le ambizioni dei
nuovi ricchi trascorrendo nel giro di poche
righe dalla fascinazione alla critica al
ribrezzo, e senza mai perdere un'oncia di
credibilità; ridere di sé e della propria
vita e ripensarla con la nostalgia di chi ha molto
sognato, e molto perduto. È difficile
trovare in qualunque altro libro sui
ruggenti anni venti una simile capacità di
comprensione e di analisi che, nel caso di
Fitgerald e per quanto paradossale possa
apparire, è resa ancor più intensa dal fatto di
essere stato parte integrante di quel mondo, suo
corifeo e cantore.
Pur nella loro
varietà, i saggi di Good Luck & Goodbye
mantengono un livello qualitativo
quasi sempre altissimo. Ciascuno potrà
rintracciare all'interno del volume la propria
vena preferita, e optare, oltre che per la
trilogia del fallimento (che a distanza
di anni rimane una tappa irrinunciabile per
«capire Fitzgerald»), di volta in volta per le
esilaranti pagine dedicate alla difficoltà
di essere ricchi («Come vivere con 36.000 dollari
all'anno» e «Come vivere praticamente con
niente»); per le magnifiche autobiografie
«in pillole», ricostruite a partire dai
cocktail ingurgitati, gli alberghi
frequentati o i beni accumulati nel
corso degli anni e offerti all'incanto (rispettivamente,
«Una breve autobiografia», «Accompagna
il signore e la signora F. al numero...» e «All'asta –
Modello 1934»); per i saggi nei quali si fa luce, con
grande acume, sulla scena letteraria e
culturale contemporanea («Come
sprecare materiale», «Una nota sulla mia
generazione» e «Ring», tra gli altri).
Ma nessuno
potrà fare a meno di soffermarsi, incantato,
sulle rievocazioni nostalgiche di
New York («La mia città perduta») e dei propri
esordi di scrittore e di uomo, che in «Primi
successi», magnifico scritto del 1937,
raggiungono i toni profondamente
commoventi di chi, guardando a ritroso «nella
mente di un giovane che aveva percorso le strade
di New York con le suole di cartone», rievoca il
periodo troppo breve «nel quale io e lui eravamo una
persona sola, quando il futuro appagato e il
passato malinconico si fondevano in
un unico meraviglioso momento – quando la vita
era letteralmente un sogno».
il manifesto | 29
Dicembre 2013
Francis Scott
Fitzgerald
Good Luck and Goodbye
Le pagine che
raccontano la mia vita
Dozelli, 2013
euro 23,00
CREATIVITA' E FOLLIA
L'urlo di Munch
Una riflessione su
creatività e follia.
Gillo Dorfles
Se l’artista è tentato dall’albero della follia
Il vocabolo greco skizo è certamente il più idoneo a indicare quella separazione, scissione, dissociazione della personalità che costituisce la caratteristica più tipica della schizofrenia: quella che è certamente la più grave e più complessa forma morbosa mentale. Infatti, la differenza tra tante altre alterazioni mentali e la schizofrenia è per l’appunto il fenomeno dissociativo di questa forma morbosa. E, infatti è proprio il fatto dissociativo che più di ogni altro costituisce la vera essenza della dementia praecox come fu definita ai tempi di Bleuler e Binswanger. Una forma psichiatrica che si differenzia nettamente da quelle della paranoia, della melanconia o della mania, nonché da quelle dove la coazione è dominante.
L’elemento delle molteplici patologie mentali — anche nelle forme più lievi fino a quelle addirittura demenziali — è quasi sempre presente, anche se spesso non riconosciuto come forma morbosa. La dissociazione, infatti, tra mente e sentimento, tra azione e reazione, tra istinto e ragione, è molto spesso presente in parecchi casi patologici, anche quando rimangono non identificati o considerati soltanto come «un po’ strani». E questo può spiegare come accada spesso che la dissociazione affettiva e cognitiva siano invece indice di uno stato morboso che spesso non viene identificato nelle prime fasi della malattia.
Ma, a prescindere dalla vera e propria forma morbosa e dalle diversità del suo trattamento, quello che mi sembra più interessante, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti societari è che, al di là di una vera e propria forma morbosa, è il quoziente dissociativo a presentarsi anche in molte situazioni normali della nostra società. Sicché ritengo che effettivamente uno degli aspetti più significativi della nostra epoca — anche in ambiti lontani da ogni morbosità e anomalia psicologica — possa essere considerata una parziale, se non una totale forma dissociativa; che può essere ovviamente distinta dal settore psicologico, soprattutto quando colpisce esclusivamente quello societario e politico.
La nostra, dunque, può essere considerata un’età dissociata, non soltanto nei casi patologici, ma in un certo senso come testimonianza della «psicosi» di cui spesso la nostra società è affetta. Un interessante saggio — un vero e proprio manuale scientifico — sui problemi del rapporto tra schizofrenia e modernità nelle diverse arti, è il recente trattato di Louis A. Sass, Follia e modernità (Raffaello Cortina), che costituisce una messa a punto dei rapporti effettivi o apparenti tra schizofrenia e alcune forme creative come la letteratura e la pittura quando si realizzano da parte di letterati come Musil, Sartre, Breton o di artisti come De Chirico, Modigliani, Klee, sia per la particolare personalità degli stessi che per i personaggi da loro concepiti.
Tali opere
naturalmente vanno considerate con molta attenzione e cautela;
l’importanza del parallelismo compiuto da Sass — pur riconoscendo
il valore del noto psicologo della Rutgers University del New Jersey
— è un ampio tentativo di tracciare una analogia tra la vera e
propria follia e le varie forme impersonate o citate dagli artisti
considerati. Sarà opportuno pertanto prendere con molta cautela
l’effettivo valore di questa associazione, giacché molto spesso
gli artisti citati vanno riconosciuti come perfettamente normali dal
punto di vista psichico e soltanto fantasiose le opere letterarie da
loro prospettate.
È fin troppo semplicistico individuare nelle diverse opere pittoriche e letterarie la presenza di una «vena di pazzia» senza che questo abbia nulla a che fare con un’autentica schizofrenia; ma è assai facile individuare in ogni creazione artistica quella anomalia dalla norma, che può essere classificata come patologica da chi non possiede le dovute conoscenze scientifiche. Per cui citare Klee o Modigliani come affetti da anomalie psichiche non è che un «vezzo», il quale non va assolutamente considerato come una diagnosi scientifica.
Lasciando da parte il tema del volume — che del resto è senz’altro un’ottima guida da parte di uno dei più acuti specialisti di psicologia patologica — è meglio non soffermarsi sulla presunta psicosi di queste personalità senza rendersi conto di come la loro mentalità non basti a giustificare quella che rimane soltanto una «stranezza» e non ha nulla o poco a che fare con una vera anomalia psichica. Già a partire da Binswanger, l’alterazione spazio temporale, la Schrumpfung (il «raggrinzimento») della componente spazio-temporale era stata esaminata in alcuni casi di schizofrenia, ma senza precisare fino a che punto tale alterazione — ideativa ma anche percettiva — si potesse mettere in rapporto con l’esistenza di una componente conoscitiva. Ossia, fino a che punto le difficoltà interpretative della vita di tutti i giorni da parte del malato mentale potessero essere ricondotte alle alterazioni della componente spaziale e temporale di cui sopra.
Questo, forse, è uno dei punti salienti che risulta anche dall’analisi compiuta dall’autore per giustificare il problema di talune esperienze psicotiche come inerenti alla condizione normale dell’uomo e per svelare alcuni rapporti tra linguaggio letterario e artistico e linguaggio schizofrenico.
Ecco perché, per vincere il «raggrinzimento» spazio temporale del pensiero che conduce alla presentificazione di ogni ideazione e a un irrigidimento spaziale, è spesso necessario da parte del paziente servirsi di un linguaggio simbolico. In questo senso, si può forse ammettere che il linguaggio schizofrenico abbia quel rapporto con i linguaggi artistici di cui parla l’autore.
Non intendo soffermarmi più a lungo nei meandri delle diverse forme schizofreniche e del loro rapporto con le forme artistiche della contemporaneità, perché purtroppo l’elemento dissociativo è presente non solo in alcuni malati mentali, ma in molta parte dell’umanità, tuttavia non considerata come affetta da disturbi del rapporto affettivo cognitivo come in molti esempi di schizofrenia. Il fatto che una fascia dell’umanità — considerata di solito normale — abbia avuto la possibilità di sviluppare degli elementi creativi di tipo nettamente dissociativo (romanzi, pitture, teatri), ma accettati come tali dalla popolazione «normale», dimostra una differenziazione notevole dalla realtà quotidiana, così da poter essere assimilata con alcuni dei deliri schizofrenici.
Quello che invece mi sembra più importante è distinguere tra il livello di anomalia psichica e la carica creativa di un artista, in maniera da non creare quegli spiacevoli compromessi che portano a dare un giudizio estetico a un’effettiva anomalia, mentre quelle che sono le sollecitazioni fantastiche di una mente creativa presentano quasi sempre un elemento simbolico e metaforico che ha la meglio sulla nuda realtà esistentiva.
(Da: Il Corriere della sera del 20 dicembre 2013)
Louis A. Sass
Follia e modernità.
La pazzia alla luce dell’arte, della letteratura e del pensiero
moderni
Raffaello Cortina,
2013
euro 32
IMMAGINANDO ALTRE VITE...
Davvero siamo... come tronchi d’albero sulla neve?
Maurizio Ferraris
Se noi siamo le vite
degli altri
Fantasticare e pensare la vita secondo delle trame narrative scandite da ascese, cadute e resurrezioni. Rimpiangere quello che non siamo stati e ciò che non abbiamo fatto, dal massimo delle scelte professionali e sentimentali al minimo delle ordinazioni al ristorante. Immaginarsi altri mondi e farsi i fatti altrui. Essere riconosciuti e riconoscere. Tutto questo fa parte della nostra vita normale, e quando Nietzsche disse di essere «tutti i nomi della storia» (e che la coscienza è «la voce del gregge che è in noi») mise in luce enfaticamente questo stato di cose.
Se infatti guardiamo ai primi ricordi della nostra vita noteremo che, insieme a sensazioni (l’odore di certe medicine, famigliari, compagni di scuola) si mescolano inestricabilmente con ricordi di letture, cose viste, in certi casi persino immaginazioni o incubi. Il nostro essere noi stessi — ecco la tesi fondamentale dell’ultimo libro di Remo Bodei, Immaginare altre vite— è intessuto dalla narrazione delle vite degli altri. Non nel senso di spiare o inquisire, ma proprio nel senso, banale, che quello che noi siamo è il risultato di modelli che ci vengono dall’esterno, ed è questo il motivo per cui nella formazione degli esseri umani l’educazione — che, in quella che si chiama “formazione umanistica” consiste essenzialmente nella narrazione di vite vere o immaginarie — e l’imitazione di modelli e comportamenti rivestono un ruolo così importante.
L’uomo è un essere “intrinsecamente narrativo”, come suggerisce il titolo dell’autobiografia degli anni giovanili di García Márquez: Vivere per raccontarla.
Una parte importante della nostra vita come esseri riflessivi si impegna, in modo più o meno consapevole, a rendere accettabile la trama di un racconto, che da giovani è proiettato verso il futuro (e dunque è in buona parte intessuto di proiezioni e di immaginazioni di vite altrui), mentre da vecchi è fatta di rattoppi, cancellature, riscritture. Ecco che cosa ha spinto un uomo a dipingere degli animali sulle pareti di una caverna e, a maggior ragione, altri a guardare come in qualche modo significativi quei raddoppiamenti della realtà. Una narratività che si moltiplica con la crescita di registrazioni, immagini, racconti, in cui consiste lo sviluppo della cultura. E che adesso raggiunge il massimo evolutivo, in quel complicato intreccio di realtà e immaginazione che viene offerto dal mondo del web.
Se le cose stanno in questi termini — questo il suggerimento di Bodei — bisognerebbe correggere una immagine ingenua con cui rappresentiamo il nostro comportamento, come se fosse animato da un istinto immune e originario. È vero l’inverso: i bisogni e le aspirazioni vengono dall’esterno, appunto dai modelli che abbiamo avuto o dalle regole con cui ci siamo confrontati e che inizialmente abbiamo seguito in forma irriflessa.
Rari sono i casi in cui
diventiamo consapevoli di questo processo. E ancora più rari sono i
casi in cui quello che siamo ci basta. Così, la nostra coscienza si
presenta come unpat-chwork in cui giocano un ruolo essenziale i
nostri modelli, consapevoli e inconsapevoli, per cui quello che siamo
è costituito in maniera rilevante da ciò che vorremmo essere. Non
si tratta di un paradosso, ma della condizione normale della
coscienza.
A questo punto, la buona
domanda non è tanto quanto dobbiamo agli altri, alla fantasia e alla
narrazione, ma come facciamo a evitare la sensazione pirandelliana di
essere uno, nessuno e centomila. E qui la risposta, che Bodei trae
dall’idealismo tedesco e dalle sue riletture contemporanee ma che
forse può essere situata ancora più indietro, in quello che i
mistici medioevali chiamavano fundus animae, è l’opacità, la
resistenza alla comprensione e alla trasformazione.
Abituati a immaginare
altre vite e a credere di sapere benissimo come si sentiva Cesare
alle Idi di marzo, scopriamo che per quello che ci riguarda non siamo
affatto un libro aperto. E che la metafora che ci si attaglia di più
è casomai quella di una brevissima novella di Kafka: «Siamo... come
tronchi d’albero sulla neve. Questi giacciono lì solo
apparentemente e con una piccola spinta dovrebbe essere possibile
spostarli. Invece no, non si può, perché sono attaccati saldamente
al terreno».
Remo Bodei
Immaginare altre vite
Feltrinelli, 2013
22 euro
ELOGIO DELLA PAZIENZA
Sii paziente verso tutto ciò
che è irrisolto nel tuo cuore e…
cerca di amare le domande, che sono simili a
stanze chiuse a chiave e a libri scritti
in una lingua straniera.
Non cercare ora le risposte che possono esserti date
poichè non saresti capace di convivere con esse.
E il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora.
Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga,
di vivere fino al lontano
giorno in cui avrai la risposta.
(R. M. Rilke)
29 dicembre 2013
TEMPO PER VIVERE
Paul Cezanne
Ti auguro tempo
Non ti auguro un dono qualsiasi,
ti auguro soltanto quello che i più non hanno.
ti auguro tempo, per divertirti e per ridere;
se lo impiegherai bene, potrai ricavarne qualcosa.
Ti auguro tempo, per il tuo fare e il tuo pensare, non
solo per te stessa,ma anche per donarlo agli altri.
ti auguro tempo, non per affrettarti a correre,
ma tempo per essere contenta.
Ti auguro tempo, non soltanto per trascorrerlo,
ti auguro tempo perché te ne resti:
tempo per stupirti e tempo per fidarti
e non soltanto per guardarlo sull'orologio.
Ti auguro tempo per toccare le stelle
e tempo per crescere, per maturare.
Ti auguro tempo per sperare nuovamente e per amare.
Non ha più senso rimandare.
Ti auguro tempo per trovare te stessa,
per vivere ogni tuo giorno , ogni tua ora come un dono.
Ti auguro tempo anche per perdonare.
Ti auguro di avere tempo,
tempo per la vita".
Elli Michler
28 dicembre 2013
I RISCHI DEL LEADER SOLO
Michele Ciliberto -Tutti i rischi del leader solo
Due ragioni di fondo della crisi della democrazia nella fase del neoliberismo: « l' esasperata e rozza ideologia dell'individualismo; la riduzione della politica a politicismo, a pura tecnica».
Se c’è una cosa che colpisce nell'attuale dibattito politico è l'assenza di una riflessione sui limiti del potere, anche di quello democratico. Perciò va accolta con interesse la riflessione di Giuseppe De Rita sul Corriere della sera in cui si sottolinea, nel quadro di un ragionamento articolato, l’importanza dei poteri intermedi, senza i quali anche in democrazia non ci può essere effettiva rappresentanza. È una tesi in controtendenza rispetto alle correnti dominanti, e per questo va particolarmente apprezzata.
Ciò che oggi si valorizza è infatti l'idea di un potere, anche democratico, senza «limiti» (e uso volutamente questo termine), in assenza di gravità. E in questo quadro ciò che si sostiene è la funzione e il ruolo storico-politico del leader, del capo che non deve avere intralcio nella sua azione. Senza leader, si dice, non è concepibile la politica nel mondo contemporaneo: i partiti, le associazioni appunto, i corpi intermedi non hanno perciò altro compito che non sia quello di sostenere, in funzione subordinata, la missione del capo.
Ora, in questa tesi c’è un equivoco di fondo che non sempre, anzi quasi mai, viene chiarito: è almeno dalla fine dell’Ottocento che è stata riconosciuta, anche sul piano teorico, la funzione della «grande personalità» nella storia, che si è poi affermata nel Novecento sia negli Stati totalitari che in quelli democratici. Su questo punto, connesso all’imporsi delle masse, non c’è questione. Si tratta però di chiarire quali siano, specie in democrazia, i «limiti» del potere, anche di quello del leader. Naturalmente se si vuole restare in un regime di tipo democratico.
In verità, la discussione sui limiti del potere è connessa, fin dalle origini, alla riflessione sui caratteri dello Stato moderno, perfino presso i teorici dell'assolutismo. Tanto più che questo motivo è presente, fin dal 600, nei teorici della democrazia. Quando un autore come Spinoza riflette sullo Stato monarchico delinea subito il sistema di «consigli» che deve circondare, e limitare, l'autorità del sovrano, se non si vuole che la monarchia degeneri in tirannide. Ma anche nell'Ottocento un pensatore di prima grandezza come Tocqueville individua nell'associazionismo cioè nei corpi intermedi la barriera necessaria per impedire che la democrazia, di cui pur riconosce la necessità e la ineluttabilità, degeneri in dispotismo. In questo senso, si può dire che tutta la riflessione sullo Stato moderno nei suoi punti più alti è una lunga, e complessa, meditazione sui limiti del potere: perfino Bodin scrive pagine importanti su questo punto, considerandolo cruciale.
Richiamo questo tema, e questi nomi, non per gusto della citazione, ma perché essi ci conducono a quello che oggi è il centro del problema: il venir meno, anzi l’assenza, di una riflessione sui limiti del potere è un effetto diretto della crisi in atto dello statualità moderna. E in questo contesto è una conseguenza della crisi della democrazia, la quale vive e si sviluppa se è basata su un ampio e articolato sistema di bilanciamento e di controllo dei poteri, che non possono mai essere ridotti ad «unità», cioè al potere di un leader. Se e quando questo accade si esce dalla democrazia e si entra in un altro tipo di regime politico, qualunque sia il nome che gli si voglia dare: perché alla democrazia è connaturata l’idea del limite a tutti i livelli. Essa vive, e si sostanzia, del conflitto, ma in democrazia anche il conflitto per essere fecondo deve essere organizzato, cioè limitato.
Varrebbe la pena chiedersi perché oggi le cose siano arrivate a questo punto, e non solo in Italia. Ma certo in Italia questo processo degenerativo ha avuto ragioni specifiche legate ai caratteri del ventennio che si è ora concluso e alla degenerazione della politica e dell'agire politico. Se si volessero citare due elementi caratteristici di questo periodo si potrebbe dire che esso è stato caratterizzato da un lato da una esasperata e rozza ideologia dell'individualismo; dall'altro, da una riduzione della politica a politicismo, a pura «tecnica», sfociata alla fine e necessariamente, verrebbe da dire in una apologia dell’«amministrazione» con i risultati che si sono visti.
In questo ventennio la politica si è inaridita, ha perso radici, si è separata dalla gente, dalla vita quotidiana, si è messa da un 'altra parte, ha perso l'anima (direbbe Delors) provocando le reazioni che si sono viste nei giorni passati. Oggi forse il problema più grave della democrazia italiana è proprio questo discredito della politica. Eppure senza politica non c’è libertà, non c’è democrazia; ma senza «limiti» non ci sono né l’una né l’altra; non c’è vivere democratico senza «corpi intermedi»: partiti, sindacati, associazionismo in tutte le sue forme.
Sarebbe bene che le forze democratiche e di sinistra che hanno la responsabilità di non aver compreso la vastità e le implicazioni dei processi innescati nel ventennio passato ricominciassero ad interrogarsi sul valore e sul significato dei limiti del potere, senza disconoscere, ovviamente, la funzione del leader in una democrazia come quella contemporanea. Anzi, a differenza di quanto pensino, e sostengano, gli ideologi conservatori, in una democrazia liberale sono due lati dello stesso discorso.
Da l'Unità, 28 dicembre 2013
E' URGENTE CAMBIARE LA POLITICA ECONOMICA EUROPEA
«La crisi dura ormai da sei anni. Innescata dalla povertà di massa figlia di trent’anni di neoliberismo, esaspera a sua volta povertà e disuguaglianza».E' questo uno dei passi chiave della lettera aperta che un gruppo di intellettuali anticonformisti ha indirizzato la settimana scorsa ai responsabili della politica economica europea. La riproponiamo integralmente di seguito:
La crisi dura ormai da sei anni. Innescata dalla povertà di massa figlia di trent’anni di neoliberismo, esaspera a sua volta povertà e disuguaglianza. Moltiplica l’esercito dei senza-lavoro. Distrugge lo Stato sociale e smantella i diritti dei lavoratori. Compromette il futuro delle giovani generazioni. Produce una generale regressione intellettuale e morale. Mina alle fondamenta le Costituzioni democratiche nate nel dopoguerra. Alimenta rigurgiti nazionalistici e neofascisti.
Concepita nel segno della speranza, l’Europa unita arbitra della scena politica continentale rappresenta oggi, agli occhi dei più, un potere ostile e minaccioso. E la stessa democrazia rischia di apparire un mero simulacro o, peggio, un pericoloso inganno.
Perché? È la crisi come si suole ripetere la causa immediata di tale stato di cose? O a determinarlo sono le politiche di bilancio che, su indicazione delle istituzioni europee, i paesi dell’eurozona applicano per affrontarla, in osservanza ai principi neoliberisti?
Noi crediamo che quest’ultima sia la verità. Siamo convinti che le ricette di politica economica adottate dai governi europei, lungi dal contrastare la crisi e favorire la ripresa, rafforzino le cause della prima e impediscano la seconda. I Trattati europei prescrivono un rigore finanziario incompatibile con lo sviluppo economico, oltre che con qualsiasi politica redistributiva, di equità e di progresso civile. I sacrifici imposti a milioni di cittadini non soltanto si traducono in indigenza e disagio, ma, deprimendo la domanda, fanno anche venir meno un fattore essenziale alla crescita economica. Di questo passo l’Europa la regione potenzialmente più avanzata e fiorente del mondo rischia di avvitarsi in una tragica spirale distruttiva.
Tutto ciò non può continuare. È urgente un’inversione di tendenza, che affidi alle istituzioni politiche, nazionali e comunitarie il compito di realizzare politiche espansive e alla Banca centrale europea una funzione prioritaria di stimolo alla crescita.
Ammesso che considerare il pareggio di bilancio un vincolo indiscutibile sia potuto apparire sin qui una scelta obbligata, mantenere tale atteggiamento costituirebbe d’ora in avanti un errore imperdonabile e la responsabilità più grave che una classe dirigente possa assumersi al cospetto della società che ha il dovere di tutelare.
Étienne Balibar, Alberto Burgio, Luciano Canfora, Enzo Collotti, Marcello De Cecco, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Giorgio Lunghini, Alfio Mastropaolo, Adriano Prosperi, Stefano Rodotà, Guido Rossi, Salvatore Settis, Giacomo Todeschini, Edoardo Vesentini
il manifesto, 22 dicembre 2013
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