10 gennaio 2017

ANCORA SUL FILM PATERSON: POESIA E VITA


Poesia come vita da Paterson a Paterson

di Silvia Albertazzi
Say it, no ideas but in things –
William Carlos Williams


Negli ultimi anni si è assistito a un proliferare di film basati su fatti realmente accaduti, biografici o cronachistici. La frase “tratto da una storia vera” posta prima o dopo i titoli di testa è diventata tanto comune da apparire normativa, al punto che la sua assenza rischia di pregiudicare il godimento della vicenda narrata, portando lo spettatore nella migliore – o peggiore? – delle ipotesi, a inserire la pellicola che non presenta (auto)certificazioni di autenticità nell’universo dell’incredibile. Il moltiplicarsi dei cosiddetti biopics, e dei rifacimenti di episodi nella storia del passato più o meno recente, mentre vorrebbe suggerire la necessità di mantenersi ancorati al reale, sembra piuttosto implicare una mancanza di immaginazione da parte degli autori. Né deve trarre in inganno il parallelo imporsi di pellicole fantastiche, il cui eccesso di inventiva, finalizzato alla creazione di universi magici lontani dal (o quanto meno in conflitto con) il reale, tradisce piuttosto un’analoga incapacità di immaginare il quotidiano e raccontare storie in cui il pubblico possa riconoscersi e identificarsi.
Andando controcorrente, Jim Jarmusch, nel suo ultimo film, Paterson, non solo si propone di narrare il quotidiano attraverso una vicenda e dei personaggi del tutto inventati, ma si spinge a compiere un’impresa ben più azzardata, anzi, apparentemente, impossibile: raccontare la vita come una poesia, adattando allo schermo un genere – la poesia, appunto – i cui elementi costitutivi sembrerebbero intraducibili nella fattualità della narrazione cinematografica. Alla storia documentabile raccontata dal cinema biografico, Jarmusch oppone una microstoria poetica, fondata sulle “eccezioni normali” del quotidiano: gli incontri inattesi, le coincidenze fortuite, i movimenti di luce e i cambi di prospettiva che non solo rompono la monotonia delle piccole vite della gente comune, ma sono anche elementi costitutivi di una poesia il cui oggetto è, com’ebbe a scrivere William Carlos Williams, proprio l’”impalpabile rivoluzione”[1] del quotidiano.
Il riferimento a Williams non è, ovviamente, casuale: fin dal titolo del suo film, Jarmusch esplicita il proprio debito verso il poeta americano. Paterson è la cittadina del New Jersey in cui Williams trascorse tutta la vita e a cui dedicò la sua opera più ambiziosa, il poema omonimo in cinque libri, il cui protagonista è un medico che ha lo stesso nome della città. A Paterson è ambientato anche il film di Jarmusch, che ha ugualmente per protagonista un uomo di nome Paterson, ivi nato e cresciuto, di mestiere conducente d’autobus. Sia il Paterson di Williams sia quello di Jarmusch hanno una moglie, attorno cui ruota, in certo modo, la loro esistenza. E se Cristina Campo poté definire il poema di Williams “un immenso epitalamio”[2], il film di Jarmusch è un epitalamio minimale, dove, come nel Paterson williamsiano, “l’enigma di un uomo e di una donna”[3] si gioca sul rapporto tra luogo e persona, sull’osservazione delle piccole cose, dilatata sino a farne poesia. “No ideas but in things”, ovvero, “solo nelle cose le idee”[4]: l’affermazione programmatica del Paterson di Williams potrebbe tanto fungere da epigrafe al film di Jarmusch quanto essere il motto del suo protagonista che, non certo per caso, si diletta a scrivere poesia, spesso, ancora come Williams, su oggetti che ad altri parrebbero futili.
“So much depends / Upon // A red wheel / Barrow // Glazed with rain / Water// Beside the white / Chicken” (“Tanto dipende / Da // Una rossa / Carriola // Smaltata d’acqua / Piovana // Accanto alle galline / Bianche”)[5], recita una delle più famose poesie di Williams, contenuta nel volume Early Poems, particolarmente caro al Paterson cinematografico. E tanto dipende, per quest’ultimo, da una scatola di fiammiferi, da un bicchiere di birra, da un tergicristallo che scricchiola, dall’impermeabile giallo di un bambino e, soprattutto, dal suo cestino per il pranzo, autentico “oggetto a funzionamento simbolico” che rimanda a un altro poeta amato da Jarmusch e dal suo protagonista, Frank O’Hara, e ai suoi Lunch Poems. Come O’Hara, Paterson scrive negli intervalli del lavoro, nelle pause pranzo; nel suo cestino, accanto al sandwich o alla cupcake preparati dalla moglie, si trova il taccuino dei suoi versi. Seduto di fronte alla cascata del Passaic, che tanto affascinava Williams, Paterson annota, ancora come O’Hara, “quel che è accaduto ed è qui”[6], compone di getto le sue poesie, “un / foglio strofinato sul cuore / e ancora troppo umido per essere incorniciato”[7]. Ma soprattutto, ciò che accomuna Paterson a O’Hara è la capacità di osservazione del quotidiano più banale, il saper attraversare la città dilatandone con lo sguardo particolari – umani e oggettivi – sino a farne poesia. Così come la lirica di O’Hara si segnala per la capacità di definire l’attimo della creazione poetica, di delineare il componimento nel suo stesso farsi, della poesia di Paterson Jarmusch coglie proprio la gestazione, il suo nascere e crescere nella mente dell’autore, mentre s’incammina verso il lavoro o guida l’autobus per le strade cittadine, ascolta i discorsi dei passeggeri, guarda la gente al semaforo, ne riconosce le caratteristiche universali, quelle in cui ogni spettatore può trovare qualcosa di sé. Come leggendo O’Hara, così vedendo il film di Jarmusch seguiamo il dipanarsi dell’atto creativo, assistiamo al momento in cui l’oggetto acquisisce quella carica emozionale che gli permette di divenire parte integrante nella vita non solo del poeta, ma anche del lettore. Ha scritto John Ashbery che O’Hara appartiene a quel tipo di poeti che portano la lingua quotidiana dentro il sogno dei lettori[8]: parafrasandolo, si potrebbe affermare che il Paterson di Jarmusch porta la lingua quotidiana dentro il sogno degli spettatori.
Tuttavia, non sono di O’Hara né di Williams i versi che Paterson compone nel film, bensì di Ron Padgett, il poeta che, in “This fot That”, ha ironicamente risposto a “This is just to say”, la poesia di Williams preferita dalla moglie di Paterson.[9] Di Padgett sono utilizzate, oltre ad alcune liriche scritte per il film – “Love poem”, “Another one”, e “The run” – anche altre poesie già pubblicate (tra cui “Poem”, l’unica che risulti vagamente incongrua, in quanto vi si si fa riferimento alla neve e al poeta che batte a macchina i suoi versi, mentre Paterson scrive solo a mano, e l’azione del film si svolge nella bella stagione). Tutte le altre liriche, inserite nel contesto visuale, contribuiscono a creare l’effetto di “poesia come vita” e “vita come poesia” perseguito da Jarmusch, enfatizzando le inattese corrispondenze del quotidiano che affascinano (e anche un po’ stordiscono) Paterson: la costante presenza sul suo cammino di coppie di gemelli; la forte somiglianza tra il muso suo cane e il volto del padrone del locale dove beve ogni sera un boccale di birra; la ripresa nell’ambiente circostante dei motivi geometrici cari alla moglie. In questo gioco di ripetizioni, ritorni, rispondenze, in cui ogni giorno sembra uguale al precedente eppure differisce per particolari quasi impercettibili ma fondamentali, il poeta si annulla nella banalità della sua esistenza: come per Frank O’Hara, curatore di museo, come per Williams, medico, o per Wallace Stevens, assicuratore, non c’è posto in questo universo di poeti lavoratori per il mito romantico dell’artista. Rifacendosi a una poesia di O’Hara, “Nafta”[10], Paterson ricorda a questo proposito che Jean Dubuffet era un metereologo.
“Quando una fa […] una poesia … non conta, come opera d’arte, quello che dice, conta quello che fa”[11], era la convinzione di Williams. Nel film di Jarmusch, due incontri – il primo, con una piccola poetessa e il secondo con un poeta giapponese – sottolineano l’importanza del “fare poesia” come atto creativo in grado di dare un senso a tutta un’esistenza. Nel primo caso, la bambina legge a Paterson dei versi la cui apparente semplicità è in realtà costituita da una serie di echi che contribuiscono a rafforzare l’idea della poesia come trama esistenziale, su cui la vita è tessuta e da cui trova senso. Fin dal titolo, “Water falls”, la poesia rimanda, pur negandone la presenza, all’universo poetico di Williams: non a caso la bambina sottolinea più volte che soggetto del suo componimento è l’acqua che cade (due parole: “water falls”) e non le cascate (“waterfalls”, una sola parola) del Passaic, nella cui valle sorge la città di Paterson. L’eco di una lirica di Williams, “Rain”[12], attraversa tutto il breve componimento, mentre in apertura appare un rimando a un poeta inglese del XVI secolo, Thomas Nashe, il cui verso “Brightness falls from the air” affascina particolarmente gli scrittori del Novecento, dal Joyce del Portrait of the Artist as Young Man al Jay McInerney di Brightness Falls. Qui, però, non è la luce, ma l’acqua a cadere dall’aria luminosa: “Water falls / from the bright air”, recitano i primi due versi del componimento, di cui è autore lo stesso Jarmusch.
Il secondo incontro ha luogo proprio di fronte alle cascate: dopo avergli mostrato il proprio lavoro, il poeta nipponico in pellegrinaggio sui luoghi williamsiani regala un quaderno intonso a un depresso Paterson, che nega di avere mai scritto poesia, causa la distruzione fortuita del proprio prezioso taccuino (di cui non ha mai fatto una copia, malgrado le pressioni della moglie). Anche se Paterson, dopo la perdita dei suoi versi, ha affermato, parafrasando l’epitaffio di John Keats, che si trattava soltanto di parole scritte sull’acqua, il film si chiude su una nuova poesia, un nuovo inizio cui, nel gioco delle casualità poetiche, hanno contribuito, paradossalmente, oltre al dono, anche le poesie del giapponese, che pure Paterson non ha potuto leggere, perché scritte in lingua a lui sconosciuta. E’ l’ironico trionfo dell’“ars poetica” di McLeish, secondo cui “A poem should not mean/but be” (“Una poesia non deve significare/ ma essere”)[13], ma è anche una felice rappresentazione di quello che Vittorio Sereni, proprio in riferimento a Williams, ha chiamato “potere di irradiazione della poesia”, la sua capacità, cioè, di suscitare “in altri, in altra forma” i sentimenti di cui il poeta si era servito, “trasformandoli, per una costruzione in divenire”[14]. Una costruzione che, con Jarmusch, ha forma di film.

[1] W.C. Williams cit. in Id., Poesie, a cura di C. Campo, V. Sereni, Torino, Einaudi, 1961, p. 13.
[2] C. Campo, ivi, p. 15.
[3] W. C. Williams, da “Paterson”, ivi, p. 260 (trad. C. Campo, p. 261).
[4] W. C. Williams, “Paterson” in A. Rizzardi (a cura di), Lirici Americani, Caltanissetta-Roma, Sciascia, p. 168 (trad. Rizzardi, p. 169)
[5] W. C. Williams, “The Red Wheelbarrow”, ivi, p. 164 (trad. Rizzardi, p. 165)
[6] F. O’Hara, “For Bob Rauschenberg” in Id., Poesie, Parma, Guanda, 1976, p. 111 (trad. C. A. Corsi).
[7] Ibid.
[8] J. Ashbery, “Introduzione” a F. O’Hara, Lunch Poems, Milano, Mondadori, 1968, p. VI.
[9] Williams: “I have eaten / the plums / that were / in the icebox // and which / you were probably / saving / for breakfast // Forgive me / they were delicious / so sweet / and so cold”.
Padgett: “What will I have for breakfast? / I wish I had some plums / like the ones in Williams’s poem. / He apologized to his wife / for eating them / but what he did not / do was apologize to those / who would read his poem /and also not be able to eat them. / That is why I like his poem / when I am non hungry. / Right now I do not like him / or his poem. That is just / to say that.”
[10] Ivi, pp. 52-55.
[11] W. C. Williams in Poesie, cit., p. 32.
[12] Ivi, pp. 42-49.
[13] A. McLeish, “Ars Poetica” in A. Rizzardi (a cura di), cit., p. 306 (trad. Rizzardi, p. 307)
[14] V. Sereni, in W.C.Williams, Poesie, cit., p. 32.

Articolo pubblicato il su http://www.leparoleelecose.it/?p=25709

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