Anche se lo condivido solo in parte, mi sembra utile rileggere questo articolo di Canfora che rilancia un dibattito antico:
Equivoci della non violenza
Luciano
Canfora
La
discussione pro e contro la «non violenza» e il «pacifismo integrale» ha tutto
l'aspetto del falso problema.
È ben noto
che la vicenda della liberazione umana è un costante intreccio di violenza e
non violenza, un dosaggio che risulta dal concreto equilibrio delle forze e
dalie situazioni politiche, militari, diplomatiche ecc. È ingenuo separare la
«vittoria» di Gandhi in India dalla crisi dell'impero inglese, dovuta, tra
l'altro, alla tremenda guerra inflitta dal nazifascismo all'Inghilterra. (il
che aiuta a capire la insensibilità di Gandhi sul terreno dell'antifascismo)…
Difficilmente riusciremmo ad immaginarci - in alternativa a ciò che è
effettivamente accaduto - una liberazione «non violenta» dell'Algeria dalla
oppressione coloniale esercitata dalla Francia, come sperabilmente qualcuno
ancora ricorda, con lo «stato di tortura» (governatore dell'Algeria era allora
il socialista Lacost); e non di meno è innegabile che l'ultima spallata
(l'ultima, dopo anni di durissima lotta armata) al dominio francese venne dalle
pacifiche e imponenti manifestazioni di piazza delle donne algerine, che
proseguirono nonostante le truppe francesi falciassero a mitragliate i
dimostranti: l'efficacia politica e morale di quelle manifestazioni suicide fu
un fattore non secondario nella decisione gollista di chiudere la partita.
Gli esempi
si potrebbero moltiplicare e mostrerebbero che solo una visione unilaterale o
mitizzante dei fatti porta a dimenticare il necessario intreccio dei due
fattori, a dimenticare cioè che anche i «profeti disarmati» - per usare la
vecchia polarità del Machiavelli - furono in realtà, in qualche misura, «armati»
(quelli davvero disarmati purtroppo immancabilmente «ruinorno» per dirla ancora
col Machiavelli). Per essere «armati» non c'è bisogno di avere sottomano in
corpore vili delle divisioni. La celebre battuta attribuita a Stalin
(«quante divisioni ha il Papa?») mirante a screditare il Papa come
interlocutore politico appunto in ragione della sua scarsezza di «divisioni», è
indegna di un politico accorto: non già perché dia tanto peso alla forza
militare ma perché mostra di non percepire che un capo politico sui generis
come il Papa dispone comunque, per le alleanze che sapientemente instaura e per
gli interessi in pro dei quali si schiera, di una forza computabile anche in
«divisioni».
È dunque un
po' ipocrita l'atteggiamento dei «non violenti» puri nel momento in cui
essi mostrano di ignorare che la loro azione necessariamente si inserisce in
concreti e complicati contesti, dei quali diviene un ingrediente, un fattore
tra gli altri fattori, e soprattutto che essa intanto risulta efficace in
quanto riesca a trarre giovamento dai rapporti delle forze e dalle tensioni e
contrapposizioni esistenti per così dire tra i «violenti» circostanti.
«Violenti» a proposito dei quali una precisazione mi pare necessaria.
Contrapporre categorialmente violenti e non violenti è molto fuorviante, direi
francamente intollerabile, in quanto mette allegramente nella prima categoria,
quella dei violenti, indiscriminatamente tutti insieme oppressi e oppressori:
segregazionisti sudafricani e combattenti anti-apartheid, Gauleteir
nazisti e rivoltosi del ghetto di Varsavia, Ku-Klux-Klan e «pantere nere» e,
più in generale, diciamo la parola desueta, sfruttatori che opprimono e
sfruttati che si ribellano. Solo una grande ingenuità (quando non sia malafede)
può portare a classificare indiscriminatamente tutti costoro come «violenti»
magari alla fine «brigatisti» come dice Angiolo Bandinelli con espressione
demonizzante.
Io sono e
resto del parere che la polarità fondamentale non sia tra violenti e non
violenti ma tra oppressori ed oppressi e che perciò la questione sia la
liberazione dei secondi dal dominio dei primi. Per tale liberazione tutti i
metodi proficui, capaci di fornire risultati durevoli, sono buoni: e la non
violenza e la predicazione pacifistica rientrano, e non da oggi, tra i mezzi di
lotta che gli oppressi adoperano contro i loro avversari. È perciò un po' buffo
dire (leggo la citazione nell'intervento di Folena) che «l'idea della non
violenza assume oggi un valore rivoluzionario».
In realtà
l'ha sempre avuto questo valore, non già come atto di fede astratta, ma come
attivo impegno antimilitarista, strumento tra gli altri strumenti nella lotta
degli oppressi. Contro la carneficina della prima guerra mondiale il movimento
operaio, nelle sue formazioni più consapevoli, dichiarò «guerra alla guerra»: i
socialisti italiani (diversamente dai «maggioritari» tedeschi) furono in prima
fila in quella «guerra alla guerra», e perciò furono spesso trattati da
traditori della patria. Eroi del movimento operaio come Rosa Luxemburg
predicarono allora che «il nemico di ciascun popolo si trova nel suo proprio
paese», e si riferivano con ciò ai governanti che guidavano i popoli al macello
nella esultanza dei vari Marinetti (questo sia detto a proposito delle
«avanguardie» tanto care a Bandinelli). Quando gli sforzi pacifisti si
palesarono vani, si affermò e fu vincente la strategia di Lenin di trasformare
la guerra in rivoluzione. E mentre la scelta di Kerenski era stata quella di
continuare a compartecipare all'inutile carneficina, il primo atto del governo
sovietico fu l'appello «al mondo» per la pace immediata, seguito immediatamente
da un atto concreto e duro a compiersi quale la terribile pace di Brest
Litovsk. Ragione per cui al faro bolscevico guardarono allora con entusiasmo
quei socialisti che in tutta Europa avevano condotto in condizioni aspre e
perdenti la «guerra alla guerra»: dalla Luxemburg in Germania all'allora
direttore dell’“Avanti!”, Giacinto Menotti Serrati. Ecco un caso concreto
macroscopico di intreccio tra violenza, giusta necessaria violenza, e
pacifismo,
Sarebbe però
profondamente antistorico credere di ravvisare in quella memorabile vicenda un
modello eterno, una stabile ricetta. Se l'esperienza delle due guerre mondiali
poteva aver indotto qualcuno alla schematica deduzione secondo cui la guerra è
il terreno di cultura più favorevole alla rivoluzione, questa idea è stata
rimossa ben presto con l'aprirsi dell'era atomica…
Per lo meno
a partire dal discorso che Togliatti pronunciò a Bergamo nel marzo del 1963 (Il
destino dell'uomo) è divenuto senso comune per i comunisti italiani il
convincimento che «la guerra sia diventata ormai cosa diversa da ciò che mai
sia stata»; che la lotta per la liberazione degli oppressi cioè per il
socialismo, deve essere dunque ora più che mai lotta alla guerra, a quella
terrificante guerra-olocausto che le armi atomiche rendono purtroppo possibile.
Orbene, questa proclamazione, presa per sé, rischia di apparire oggi fin troppo
ovvia, se non la si integra con alcune considerazioni: 1) che intanto è
possibile una guerra alla guerra perché l'imperialismo non domina più
incontrastato sul pianeta ed esiste al contrario un equilibrio di forze tra
differenti e ben differenziati schieramenti; 2) che la guerra generale si è
forse allontanata e funziona politicamente come minaccia anziché come evento,
ma le guerre cosiddette locali si moltiplicano e non sono neanche più
formalmente distinguibili dalle altre forme di violenza.
Contro
queste guerre che si svolgono quotidianamente sotto i nostri occhi, e contro
cui non c'è Onu che tenga, non basta la predicazione non violenta, la quale
rischia - se assolutizzata - di diventare un comodo alibi per gli intellettuali
che discettano nel giardino dell'impero.
E vi è
infine una considerazione che vorrei porre a conclusione di questo intervento.
Si tratta di una distinzione che a me pare necessaria tra l'uso per così dire
«del senso comune» e l'uso concettualmente più rigoroso della nozione di
violenza. La confusione tra i due usi introduce una notevole e ormai tradizionale
incomprensione nel dibattito politico: incomprensione che rischia di inchiodare
ciascuno ad un suo proprio stereotipo, i marxisti nella parte dei predicatori
di violenza ed i «non violenti integrali» come loro illuminati ma purtroppo
inascoltati pedagoghi. Alla base c'è, tra l'altro, il deleterio uso delle
citazioni aforistiche: onde, ad esempio, il fatto che il Manifesto dei
comunisti si concluda con la celebre affermazione secondo cui i comunisti
«dichiarano apertamente che i loro fini possono essere raggiunti soltanto col
rovesciamento violento di tutto l'ordine sociale finora esistente» fa sì che
l'immagine storica dei comunisti resti comunque quella di un partito
intrinsecamente manesco quand'anche si camuffi più o meno perbenisticamente a
seconda delle opportunità. È questo un tipico caso di prevalenza del pensiero
volgare (o del benedetto senso comune) sul rigore concettuale. Giacché
«violenza» è in realtà sul terreno dell'ordine sociale, e soprattutto dal punto
di vista di chi quell'ordine difende, ogni modificazione o proposito o
tentativo di modificazione dell'ordine vigente. Ordinamento che a sua volta
viene difeso con la violenza attraverso la compagine statale qualunque forma
essa abbia, essendo lo Stato - come insegna Bobbio - «per sua natura, quale che
sia il suo regime, organizzazione della forza monopolizzata, e dunque non già
eliminazione della violenza ma sua istituzionalizzazione» (Il problema della
guerra 1979). Ciò significa che violenza è, dal punto di vista dell'ordine
costituito, anche la non violenza se abbia come fine (ed è il caso che qui ci
interessa), la modificazione appunto di tale ordine. Ragione per cui nel lungo
e non facile ma esaltante processo storico apertosi con il Manifesto dei
comunisti e tutt'ora in pieno sviluppo, si può dire che violenza e non
violenza hanno finito non solo con l'intrecciarsi (come dicevo in principio) ma
addirittura col coincidere.
«Credo - è
sempre Bobbio che parla - che parte della diffidenza che esiste fra movimenti
marxisti e movimenti non violenti dipenda dal fatto che i marxisti vedono nei
movimenti non violenti soltanto gli aspetti di rivolta individuale e parziale,
mentre da parte non violenta una certa diffidenza nei riguardi del marxismo è
fondata sulla convinzione che per il marxismo la dottrina della violenza
collettiva sia irrinunciabile, mentre non viene presa in considerazione
l'enorme capacità che hanno dimostrato i movimenti che si ispirano al marxismo
di promuovere manifestazioni non violente di massa».
Luciano Canfora
Postilla
Ho ripreso l'articolo dal blog di Salvatore Lo Leggio che non ha saputo indicare con certezza la fonte da cui l'ha attinto.
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