Pietro Citati racconta perchè è ancora attuale il mito del sommo Trismegisto,
il dio che non smette mai di creare il mondo.
Pietro Citati
Ermetismo, l'eterna
rivelazione
Siamo abituati a credere
che la filosofia occidentale dipenda da alcuni grandi pensatori:
Platone, Aristotele, Cartesio, Spinoza, Kant, Hegel. E dimentichiamo
l'enorme influenza esercitata da una filosofia apparentemente minore,
quella ermetica, immaginata da pensatori sconosciuti, che per
diciannove secoli attraversa come un fiume sotterraneo tutta la
storia dell'Occidente. Appare, scompare, si nasconde, torna alla
luce, viene tradotta, assimilata, trasformata, modellata,
rimodellata, sino ad assumere forme imprevedibili.
In due grossi volumi, un
eccellente studioso, Paolo Scarpi, ha pubblicato La rivelazione
segreta di Ermete Trismegisto, raccogliendo i testi essenziali della
dottrina ed altri meno noti (Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori,
pagine CXXII-544, XL-652, 60). Un gruppo di studiosi ha tradotto e
ampiamente commentato: insieme a Paolo Scarpi, Alberto Camplani,
Chiara Cremonesi, Simonetta Feraboli, Claudio Marangoni, Chiara
Poltronieri, Andrea Rodighiero, Lorenza Savignago, Andrea Tessier,
Michela Zago, la quale ha inoltre preparato un vasto Indice delle
cose notevoli, utilissimo per addentrarsi in questa selva, che a
volte si ispessisce e diventa quasi inestricabile.
Non sappiamo quando sia
stata annunciata per la prima volta La rivelazione segreta
di Ermete Trismegisto: non certo nei tempi antichi della storia
egiziana, all'ombra delle Piramidi e delle Sfingi, come favoleggiava
una leggenda diffusissima; ma probabilmente nel tardo Egitto
tolemaico, prima di Cristo e nei primi tempi della storia cristiana.
L'Egitto è la patria ideale dell'Ermetismo: «L'immagine del cielo,
o vero e proprio luogo di trasmigrazione e di discesa di tutte le
cose che si dispongono e si attuano in cielo»; «Il paese che si
trova al centro, puro e immune da turbamento, che gode di una
posizione di eccellenza, e grazie alla sua costante serenità genera,
ordina, educa». Influenze ebraiche, platoniche, stoiche, alchemiche,
cristiane si riversano nel grande crogiolo egizio, e lo colorano in
modi diversi.
Nel primo secolo dopo
Cristo, l'Ermetismo è già ampiamente conosciuto: tra il primo e il
quarto secolo avviene la redazione e la traduzione della maggior
parte dei trattati. Esiste un ermetismo greco, latino, copto, armeno,
arabo. Dopo un periodo di probabile (ma non certo) occultamento, esso
torna a diffondersi: tra l'undecimo e il quattordicesimo secolo,
specialmente l' Asclepio ispira Abelardo, Bernardo Silvestre, Alano
di Lilla, Alberto Magno, Meister Eckhart, forse Dante.
Nel 1463, Marsilio Ficino
traduce l'originale ermetico greco e lo consegna nelle mani di Cosimo
de' Medici: Ludovico Lazzarelli e Pico della Mirandola lo soccorrono.
Il secolo XVI è sostanzialmente ermetico. Poi l'influenza diventa
meno vistosa, ma non meno capillare e profonda: senza la lettura
(talvolta indiretta) dei testi ermetici, non si potrebbero
comprendere Bosch, Angelo Silesio, Milton, i Rosacroce, Swedenborg,
William Blake, Goethe, Balzac e, in epoca più vicina a noi, William
Butler Yeats.
La filosofia ermetica è
un dialogo di molte voci, che hanno parlato a lungo in segreto,
occultando rigorosamente il proprio nome e la propria persona. Anche
alla superficie, il dialogo emerge: nel Poimandres e negli
altri trattati, ascoltiamo le domande e le risposte del grandissimo
dio Ermete Trismegisto, di Poimandres, non meno grande di lui, e di
tutti gli altri: Asclepio, Tat, Iside, Horus, Ammone. Ma i
partecipanti non debbono essere molti, perché dove appaiono i molti
la verità si degrada o si copre di tenebra. Il dialogo non è
ininterrotto, come quelli platonici: avviene a sprazzi, ad episodi,
di giorno in giorno. C'è il padre e il figlio: chi insegna e chi
apprende; sebbene a volte abbiamo l'impressione di ascoltare una sola
voce, quella del dio che discorre con se stesso, interrogandosi e
rispondendo.
Durante il dialogo, a
tratti Ermete fissa l'Oriente con i suoi occhi che vedono tutto: lui
solo scorge qualcosa di invisibile; gli altri dialoganti si stringono
attorno a lui, e fanno attenzione, con tutta la forza della loro
mente e la perspicacia di cui sono capaci. La dottrina ermetica è
somigliantissima a un fiume impetuoso, che dalla cima di un monte
scorre verso il basso con rapinosa violenza, e la sua estrema
velocità supera persino la capacità di concentrazione di Asclepio e
di Tat. Tutti parlano nel santuario. Quando escono all'aperto, è il
tramonto; e i dialoganti volgono lo sguardo verso Occidente e pregano
in silenzio ringraziando il sommo dio, che ha confidato loro la
conoscenza della sua natura.
La conoscenza ermetica
non è una filosofia, o lo è solo in apparenza, perché i discorsi
razionali sono inutili e senza peso. Essa è una rivelazione, che
viene rivolta a ciascuno degli esseri umani. Talvolta chi parla è lo
stesso dio, talvolta un mediatore, come Cristo nel cristianesimo. Ma
questa rivelazione è, allo stesso tempo, silenzio: qualcosa di
nascosto, occulto ed enigmatico, che dio, quando vuole, fa
riaffiorare alla nostra memoria. «Ora taci, figlio mio - dice Ermete
al figlio Tat -, e osserva un religioso silenzio; grazie a questo, la
misericordia non smetterà di scendere su di noi». Senza segreto, il
discorso ermetico perde il proprio valore profondo.
Asclepio invita il re
Ammone a fare in modo che la rivelazione non giunga ai Greci, che
hanno un eloquio «tracotante, fiacco e, per così dire,
imbellettato», il quale sbiadisce la sacra nobiltà, il vigore e
l'energia dello stile egiziano. Così, tra rivelazione ed estasi,
trascorrono i grandi testi ermetici, come il Poimandres e
l'Asclepio: con un potente slancio lirico, che si rapprende in
sentenze da affidare alla memoria, con una specie di ebrietà lucida,
che deve rendere il soffio divino che senza posa percorre l'universo.
In alto, sopra tutto, in
un luogo che nemmeno gli occhi della mente riescono a intravedere,
sta l'Uno: o qualcosa al di sopra dell'Uno. Anche se li estraiamo da
una cornucopia inesauribile, i verbi, i nomi, gli aggettivi e gli
avverbi non bastano a definirlo. Esso è l'incorporeo, lo stabile,
l'imperturbabile, l'intangibile, l'immutabile, l'immobile,
l'invisibile, l'incontaminato, l'illimitato, l'ingenerato, l'unico:
non ha dimensioni, non ha forma, non ha colori, non ha sostanza, ed è
dissimile da qualsiasi altro essere o corpo. Esso è luce e getta
luce: è sapienza, bene, virtù, bellezza; è eterno, e avvolto dalle
spire dell'eterno.
«Immaginare dio è
difficile - dice Ermete a Tat -: esprimerlo, quand'anche si
riesca ad immaginarlo, impossibile». Dio, oppure l'Uno, o il
Sopra-Uno, è ineffabile, indicibile, al di fuori e al di sopra di
tutti i nomi; e, al tempo stesso, possiede tutti i nomi. Solo il
silenzio può pronunciarne il nome segreto: ma esso è così tremendo
e venerabile, che l'universo ha paura, sbigottimento e timore, quando
lo ascolta. «Tu vigile - dice l'Inno di Ermete al Pantocratore -,
dall'occhio di fuoco perpetuo, che dai la vita alla corsa dell'etere,
che governi il calore del sole, che con la tempesta scacci le nubi,
il cui nome il mondo non può contenere; occhio incorruttibile,
eterno, che su tutto vigili, spaventoso, io lo so che sei padre di
tutti gli esseri, che tu soltanto sei dio, che da nessuno hai
origine».
Verso questo Uno, o
Sopra-Uno, il dio, gli dèi e gli uomini conoscono una profonda
trance ed estasi. Mentre i sensi sono intorpiditi, come accade a chi
piomba in un sonno pesante, l'intelletto si leva in alto; e vede ed
ascolta, perché la rivelazione è sia visiva sia acustica. La luce è
senza limiti, serena e gioiosa: non è l'improvviso e violento raggio
di sole che abbaglia e fa chiudere gli occhi; il fedele riesce ad
accogliere la visione nitida, lucida, non accecante, o che attraversa
la cecità, per salire sopra di essa.
«Quando non avrai più
nulla da dire sul bene - dice Ermete -, allora soltanto lo vedrai».
Mentre dio tiene a lungo lo sguardo sul fedele, un tremore o uno
smarrimento si impadroniscono di lui. Il dio gli dice: «Hai visto la
forma archetipica, il Principio anteriore del Principio infinito».
Allora il fedele prova un meraviglioso slancio e desiderio di
conoscenza, e un egualmente meraviglioso compimento di questo
desiderio. A nome di tutti i fedeli, Ermete dice: «Provai una gioia
senza confini. Il sonno del corpo era divenuto attenta lucidità
dell'anima, e stare con gli occhi chiusi era diventato un vero e
proprio vedere; il mio silenzio si fece pregno di bene».
Questa parte
della Rivelazione segreta esprime un'idea profondissima del
trascendente, come si trova in Platone, Plotino e in Dionigi
Areopagita. Ma certe espressioni ci stupiscono. In realtà, la gloria
del trascendente ermetico è, al tempo stesso, la gloria e i colori e
i riflessi e il fascino dell'immanente: è un paradosso, ma è lo
stesso grandioso paradosso sul quale è fondato il Taoismo, dove
sentiamo l'Uno nel mutevole, il mutevole nell'Uno. Mentre dio ci
guarda, e noi lo contempliamo come qualcosa di assolutamente unico,
ecco che la sua luce si esplica «in un numero incalcolabile di
potenze». Dio si moltiplica.
«Egli - dice Ermete -
non si manifesta ed è invisibile, ma dando a tutte le cose
un'immagine diventa tutte le cose, e si manifesta specialmente a
coloro ai quali ha voluto manifestarsi». Nessuno è più visibile di
lui - l'invisibile. Nessuno è più corporeo di lui - l'incorporeo.
Le energie divine agiscono non solo sui corpi animati, ma anche su
quelli inanimati, alberi e rocce: «Li fanno crescere, fanno loro
produrre i frutti, li recano a maturazione, li fanno corrompere,
marcire, perire e li sminuzzano in polvere».
Così dio, l'Uno, è il
Tutto. È tutte le cose: ha in sé tutti gli esseri; e nulla
esiste al di fuori di lui, nulla in cui egli non sia: egli è persino
le cose che non esistono, le ombre, le illusioni, le evanescenze. Il
fedele gli risponde: «Tu sei tutto ciò che sono, tu sei tutto ciò
che faccio, tu sei tutto ciò che dico». Dio abita in ogni luogo.
«Chi potrebbe celebrarti - dice Ermete - o renderti lode,
rivolgendosi a te? E da che parte dirigerò il mio sguardo per
lodarti? In alto, in basso, dentro, fuori? Non c'è una direzione, né
un luogo attorno a te: ma tutto è in te, tutto viene da te, tutto
dài e nulla prendi».
Dio non si ferma mai. Se
vogliamo comprenderlo, dobbiamo pensare all'anima, che è
velocissima: se le dici di partire alla volta dell'India, è già lì,
più rapida del tuo ordine: se le dici di partire alla volta
dell'Oceania, ecco, non meno rapidamente è lì, come se non si
spostasse da un luogo all'altro; se le ordini di alzarsi in volo
verso il cielo, non ha bisogno di ali.
Dio non si ferma mai,
perché è immensamente creativo. Non fa altro. E, al contrario del
puro dio trascendente, che può trascorrere un'eterna vita oziosa,
«non esiste eternamente se non creando tutte le cose»: nel cielo,
nel mare, sulla terra, negli abissi, in ogni parte dell'universo. Lui
solo crea: infinite cose diverse - i demoni, gli astri, gli uomini,
gli animali, la vita, la morte, l'anima, il corpo, l'immortalità, il
movimento. Anche l'uomo genera, quando si accoppia con una donna: ma
mentre l'uomo genera un bambino, che è diverso da lui, dio è ciò
che crea. Imperturbabile, impassibile, non oscurato da gioia né da
dolore, egli è tutte le cose create, anche quelle che sembrano più
lontane da lui.
Creare è buono: anzi è
l'essenza della bontà; perciò la creazione non ha principio né
fine. Come la luce del sole si diffonde e fluisce dovunque, senza
interrompersi mai, la generazione degli esseri viventi è continua e
ininterrotta. Tutto è fertile, vitale, umido, crepitante:
«verdeggia», come diceva Goethe. In ogni trattato ermetico, questo
tema viene variato, trasformato, prolungato; e forse né l'ebraismo
né il cristianesimo hanno mai conosciuto una esaltazione così
entusiastica dell'attività creatrice di dio.
Tra le creazioni di dio,
l'uomo è «una vera meraviglia, alla quale si deve onore e
venerazione»: è congiunto agli dèi per il suo elemento divino, ma
possiede anche una parte terrestre, e stringe a sé con il vincolo
dell'amore gli esseri ai quali sa di essere unito. Anche lui è in
tutte le cose e in tutti i luoghi: non solo riceve la luce, ma dona
la luce; non solo si muove e progredisce verso dio, ma rafforza gli
dèi. Occupa il centro della ramificata e complicatissima costruzione
degli esseri: il cuore di quell'infinito rapporto che è l'universo.
Nemmeno l'atomo più insignificante vive senza rapporti con gli altri
esseri creati. Niente è irrelato: niente è separato; tutto è
connesso; e il legame tra l'uno e l'altro elemento è così saldo,
che non c'è nemmeno la possibilità che qualcuno o qualcosa resti
isolato, in disparte.
Quando il movimento di
dio si è esteso sino agli ultimi limiti dell'universo, perfino
in «ciò che non è», incomincia il nostro ritorno. Dapprima l'uomo
sente una specie di nostalgia dolorosa di ciò che sta in alto:
sospira e piange sull'eterna durata del mondo superiore; e mentre
contempla il cielo, soffre alla vista della sua bellezza. Sogna di
essere in alto. «Oh, - dice - se mi fosse possibile, dotato di ali,
levarmi in volo in alto nell'aria, e fermo sospeso nel mezzo, tra la
terra e il cielo, vedere la massa solida della terra, il fluire dei
mari, lo scorrere dei fiumi, il libero movimento dell'aria, il
penetrante impeto del fuoco, la corsa degli astri, la rapidità del
cielo».
Infine, l'uomo si
ricongiunge con dio, e diventa dio. Va più in alto di ogni sommità
e scende più in basso di ogni profondità: raccoglie in sé tutte le
sensazioni delle cose create, del fuoco, dell'acqua, del secco,
dell'umido, e pensa di essere nello stesso tempo in terra, in mare,
in cielo, non ancora nato, nel ventre materno, giovane, anziano, già
morto, oltre la morte. Mentre risale lungo il percorso del cosmo,
dovunque dio gli viene incontro, e dovunque lo vede: dove e quando
non se lo aspetta, quando è desto, quando dorme, quando naviga,
quando cammina, di notte, di giorno, quando parla, quando tace. Dio
si specchia in lui, e lui si specchia in dio. La sua ascesa è la
fine del dolore: è la conoscenza della gioia, la temperanza, la
giustizia, la verità, il bene. Questo slancio in alto non lo porta
verso il futuro: ma è un balzo all'indietro, verso le cose
originarie e antiche. Alla fine non c'è altro che l'Uno, come non
accade né nell'ebraismo né nel cristianesimo.
Giunti qui, trasformati
in dio, sembra che il processo ermetico sia compiuto, e possiamo
chiudere l'ultima pagina del grandioso libro della Rivelazione. Ma
non è così, perché l'Ermetismo culmina in un ultimo paradosso.
Dove è il male? Finora non ne abbiamo nemmeno pronunciato il nome,
perché, se dio è dovunque, non possiamo nemmeno immaginare la
presenza del male. In realtà, il male esiste: già
nel Poimandres intravediamo una «zona inferiore,
spaventosa e tetra», raccolta «in tortuose spirali»: un «corpo
umido, rimescolato in maniera indescrivibile», che «emette un fumo,
prodotto da un fuoco», e lancia un grido inarticolato, «un suono di
ineffabile dolore». L'odiosa materia esiste: l'odiosa morte esiste;
il corpo è «ordito dell'ignoranza, sostegno della malvagità,
vincolo della carne, morte vivente, sepolcro che ti porti addosso».
Il male è prodotto da
quello stesso incessante movimento creativo, in cui avevamo colto
l'essenza di dio. «Ogni cosa soggetta a mutamento è menzogna»:
«Nel loro mutare le cose mentono». Poi giunge la catastrofe, sia
pure spostata in un futuro prossimo. Una voce disperata annuncia:
«Dalla terra dio risalirà al cielo e lascerà l'Egitto: la terra,
che fu la sede dei culti, rimarrà priva della presenza divina, e
abbandonata. Razze diverse, straniere, invaderanno le contrade di
questi paesi, e una proibizione, con parvenza di legge, interdirà
religione, pietà e ogni culto. Allora questa terra santissima, sede
di santuari e di templi, sarà piena dovunque di sepolcri e di morti.
L'Egitto, che un tempo fu santo, pieno d'amore per dio, diventerà
l'esempio più grande di incredulità. Le tenebre saranno preferite
alla luce e la morte sarà giudicata più utile della vita. Nessuno
alzerà più il suo sguardo al cielo».
Nella tradizione
ermetica, queste diverse visioni si sovrappongono: il dio invisibile
e quello visibile; il dio immobile e quello mobile; il movimento come
emanazione e come degradazione; il corpo incorporeo e il corpo come
materia. I nascosti autori della Rivelazione segreta ci chiedono di
afferrare con un solo sguardo e un solo lampo l'unità celata di
queste rivelazioni, che ai profani appaiono opposte. Dopo aver
affrontato, opposto e fuso le contraddizioni, l'armonia finisce per
vincere sulla dissonanza.
C'era un citaredo, al
quale era propizio il dio tutelare della musica - racconta un
discusso testo ermetico. Durante un agone musicale, una corda della
sua cetra si spezzò: ciò gli impediva di proseguire la gara; ma
intervenne la benevolenza di dio. Una cicala si posò al posto della
corda: supplì alla corda spezzata; accordò la sua musica alla
musica del brano, e rese di nuovo piena e perfetta l'armonia, in modo
che il citaredo ottenne la vittoria e la gloria. Nell'immenso mondo
ermetico, non manca mai questa casuale e provvidenziale cicala:
questo particolare in apparenza insignificante. Basta un lievissimo
tocco, perché la luce divina trionfi su qualsiasi ombra.
Da Il Corriere della sera - 26 ottobre 2011
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