20 gennaio 2017

UN RITRATTO DI SYLVIA PLATH



Sylvia Plath, Boston 1932 - Londra 1963

Un profilo di Sylvia Plath 

Elena Petrassi



Dalla cenere io rinvengo, e con le mie rosse chiome, 

divoro uomini come aria di vento.


Una casa sull’oceano, un padre professore di cui è la preferita, una madre devota al proprio ruolo, un fratello che ha poco spazio nel suo triangolo edipico, questo il teatro dell’auto-mitologia della poetessa e scrittrice americana.
«Il paesaggio della mia infanzia non fu la terra, bensì la fine della terra, le fredde, salate, fluenti colline dell’Atlantico. A volte, penso che la mia immagine del mare sia la cosa più chiara che possiedo… E in un flusso di ricordi, i colori si fanno più profondi e brillanti, il mondo di allora respira».
È la madre che fa scoprire ai due bambini la gioia selvaggia della poesia, ma sarà solo il padre, morto precocemente quando Sylvia ha otto anni, l’unico destinatario delle poesie. Alla madre Sylvia scriverà per tutta la vita lettere minuziose che raccontano la vita brillante, l’eccellenza negli studi, i riconoscimenti al precoce talento letterario, i numerosi corteggiatori. Ma il lato solare della giovane donna perfetta, incarnazione del sogno americano, vaga nell’ombra della depressione che oscura tutte le pagine del diario, anche quelle della grande felicità trovata nella relazione con Ted Hughes, futuro poeta laureato d’Inghilterra, il colosso che riporterà in vita il padre morto e che perseguiterà la poetessa sino all’esito finale di un suicidio che è ingiusto scegliere come chiave di lettura dell’intera opera poetica.
Un crollo nervoso seguito dal primo tentativo di suicidio, a vent’anni, non le impedirà di concludere gli studi allo Smith College e di vincere una borsa di studio per Cambridge. Sylvia e Ted si conoscono a una festa, si piacciono, si saggiano con un bacio feroce che diventa un morso sulla guancia di lui. A una donna ossessionata dall’eccellenza poteva piacere solo un genio e lui, per lei, lo era. Sylvia non ebbe mai dubbi sulla loro vita insieme: avrebbero scritto, si sarebbero sostenuti, avrebbero creato la famiglia perfetta, lei sarebbe stata una grande poetessa e scrittrice, lui il più grande poeta di lingua inglese del mondo.
La vita quotidiana si gioca sempre sul filo della competizione e dell’invidia. Tanto Hughes attinge a piene mani dai sogni per scrivere, tanto per lei la scrittura sarà una lotta con un demone contrario, che sempre le sibila all’orecchio l’inadeguatezza delle sue parole. Ma Sylvia studia con accanimento, si esercita, legge e confronta i propri versi con quelli dei poeti che più ama. Durante un soggiorno annuale a Boston, mentre cerca di far scoprire agli americani la poesia del marito, frequenta i corsi di scrittura creativa del poeta confessional Lowell e conosce l’altra grande poetessa Anne Sexton. Più che amiche furono rivali, condividevano bevute di martini e racconti dei tentati suicidi ogni settimana dopo le lezioni. Solo nel diario la Plath si lasciava andare a commenti acidi e all’invidia nei confronti dell’altra che, al contrario di lei, scriveva con estrema facilità. Alla morte della Plath, Anne scrisse nel suo diario che anche in quell’occasione Sylvia l’aveva preceduta.
Un soggiorno nella colonia artistica di Yaddo vede Sylvia e Ted in attesa del primogenito, lei intenta nella composizione di quello che sarà il primo libro, Il Colosso. La figlia Frieda e il libro vedono la luce a breve distanza uno dall’altra, a Londra, nel 1960. Fu però il Devon, dove gli Hughes acquistarono una fattoria, lo scenario del penultimo atto di questa grande tragedia. Ogni fatto della vita, quotidiana, intima o sociale, trova uno specchio e un esito nella poesia e nella narrativa della Plath. L’unico romanzo La campana di vetro, pubblicato sotto pseudonimo per non ferire i famigliari, ebbe un discreto riscontro nel 1961. Ma neanche questo bastava al demone per placarsi. Mentre Ted andava sempre più spesso a Londra per partecipare a presentazione e reading radiofonici, Sylvia viveva la vita della casalinga di campagna che le andava sempre più stretta. Un giorno in preda alla gelosia più feroce, arrivò a distruggere il manoscritto delle poesie e la copia annotata dei sonetti di Shakespeare del marito, che tardava a tornare dalla città. Neanche la nascita del secondo figlio Nicholas Farrar, morto anch’egli suicida nel 2009, poté rinsaldare la coppia. Ted si invaghì di Assia Wevill, che si suiciderà con la figlia avuta dal poeta qualche anno più tardi. Sylvia lo cacciò di casa.
Durante l’ultima vacanza insieme in Irlanda, un amico consiglia a Sylvia di non divorziare per una storia che non sarebbe durata ma lei è inferocita. Una febbre altissima la pervade e la porta, tra la fine di settembre e i primi di dicembre, a scrivere le quaranta poesie di Ariel. Il demone infine le permette di coincidere con l’immagine della grande poetessa alla quale pensava forse sin da ragazzina. Così scrive a un’amica: «Vivo come una spartana, scrivo in preda a una febbre e produco quello che per anni avevo chiuso a chiave dentro di me. Mi sento stordita e molto fortunata. Continuavo a dirmi che ero il tipo che riusciva solo a scrivere quando era tranquilla e in pace, ma non è vero, la musa è venuta qui, adesso che Ted se n’è andato». Il ritorno a Londra coincide con una nuova fase maniacale, l’inverno più freddo del secolo fa gelare l’acqua nelle tubature, i conti con i genitori sono stati regolati nelle poesie Daddy e Medusa, a gennaio del 1963 il fuoco si spegne, niente più la tiene legata a questa vita. L’11 febbraio, lo stesso giorno del futuro suicidio di Amelia Rosselli, altra grande poetessa e sua traduttrice, dopo avere messo al riparo i figli nella loro cameretta, con la finestra socchiusa e pane e latte vicino, la bambina che voleva essere Dio si inginocchia davanti al forno, poggia il capo sul piano e muore da sola. La porta per l’aldilà, quella scrivania dove ha scritto le sue migliori poesie e che Ted le aveva costruito, si chiude e diventa la sua lapide.


Da “Enciclopedia delle Donne”

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