Giacinto Spagnoletti
Giacinto Spagnoletti è stato uno dei più acuti critici letterari del 900. Ho avuto la fortuna di conoscerlo direttamente nel 1976, al Centro Studi e Iniziative di Trappeto, nei mesi in cui preparava il libro su Danilo Dolci che pubblicò l'anno successivo.
Mi piace pubblicare oggi una sua lettera inviata al grande poeta Sandro Penna (1906-1977), poco prima che quest'ultimo, dopo una vita travagliata, chiudesse definitivamente gli occhi. (fv)
Mi piace pubblicare oggi una sua lettera inviata al grande poeta Sandro Penna (1906-1977), poco prima che quest'ultimo, dopo una vita travagliata, chiudesse definitivamente gli occhi. (fv)
26 dicembre 1976
Caro Penna,
leggo il tuo
ultimo straordinario libro di poesie Stranezze (edito da Garzanti),
“stranezze” che mi paiono assolutamente omogenee all’universo in cui vivi, e
perciò del tutto normali, e dopo aver esultato all'idea che nessuno meglio e
più di te ha mantenuto per tanti anni la medesima grazia e limpidezza di voce,
vado a scorrere quasi distrattamente il risvolto di copertina dove qualcuno ha
creduto di “raccontare” la tua vita. Come mai si commettono ancora di queste
imprudenze? E a vantaggio di chi, mi chiedo. Singolare è il modo - e più di un
tuo amico rimarrà costernato - in cui vengono descritte le tue tribolazioni di
uomo, dall’adolescenza in poi: “Di famiglia borghese (il padre commerciante
sfortunato; la madre un po' nobile, un po' plebea), non sente fino alla
maturità le ristrettezze economiche che poi si faranno abbastanza vive, più per
una sua completa incapacità di adattamento sociale (addirittura psicologico)
che per reali disavventure. Oggi che il suo carattere sarebbe divenuto più
limpido, per conservare una sua libertà (ormai obbligatoria) è ugualmente costretto
a molte e strane occupazioni”. Tutto il pezzullo risale a tre anni fa, quando
uscì presso il medesimo editore la tua raccolta di racconti, Un po’ di
febbre, ma allora la cosa passò inosservata. Io stesso recensii questo
libro e non me ne accorsi.
Facciamo
finta dunque che l’idea sia nata appena ieri e che si possa (ma si può?) dar
sulla voce a chi ha pensato di edulcorare in quelle poche righe la magia e il
dolore della tua esistenza. Quante cose rivela l’analisi del linguaggio! In
primo luogo l’anonimo estensore del risvolto ha ritenuto di farti un piacere
distribuendo fra borghesia, nobiltà e pezzenteria la “condizione” tua e dei
tuoi genitori. Come dire che, per essere così “diverso” il contenuto della tua
prosa (e dei tuoi versi), meglio non far risaltare in modo netto le origini. La
cui chiarezza potrebbe eccitare a chissà quali discorsi malintenzionati un
critico marxista, proponendo insane equazioni. Ad esempio, un poeta che osa
dichiarare (da sempre) l’amore per i fanciulli correrebbe un serio rischio, se
fosse “un po’ plebeo” come sua madre. Freud e Marx appena da qualche anno
timidamente nel nostro paese si tendono la mano, forse solo da quando Fromm è
intervenuto sul problema, vulgatim, e in economia. Resta il fatto che
lasciare a un poeta come te tutto intatto il sangue borghese con un cucchiaino
di aristocratico liquore ben sciolto risponde meglio al canone tradizionale che
si perde nella notte dei secoli, sino ad Anacreonte e oltre. Da questi
borghesi, che hanno una madre “un po’ nobile”, c’è da aspettarsi di tutto.
Difatti, lo ricordavamo oggi Bassani ed io, di fronte a una società qual è la
nostra, il povero Pasolini si è vergognato sempre delle sue propensioni
sessuali; e la televisione italiana lo remunera da morto, mostrando alle famiglie
insonnolite delle ore ventitré poetiche immagini del Friuli, interrogando
quanti lo conobbero da ragazzo, politici e non politici (chi ricordava però che
fu cacciato dal P.C. e dal suo paese?), e soprattutto leggendo lettere inedite,
in cui il poeta parla di ragazze, di feste campagnole, di stupendi balli al
tramonto, eccetera eccetera.
Veniamo ora
alla parte sostanziale del pezzullo. C’è scritto che tu non hai sentito sino
alla maturità (parola vaga che non vuol indicare un’età precisa, se Rimbaud a sedici
anni era perfettamente maturo) “le ristrettezze economiche che poi si faranno
abbastanza vive”. Benedetto Iddio, adesso cominciamo a ragionare, sono in ballo
le ristrettezze; e chi ti conosce sa di che si tratta; ma un po’ di dolce in
bocca a chi compra il libro (ignaro) occorre pur lasciarlo, ed ecco
quell’“abbastanza”, capolavoro di finezza editoriale, perché anche i più
scalcinati linguisti non ignorano che “abbastanza” preposto a “vive” toglie
invece di aggiungere. Tutto sommato, insinua il nostro bravo estensore, è
naturale che un poeta, giacché ha avuto in sorte un padre “commerciante
sfortunato”, debba soffrire sino alla maturità (?) di qualche ristrettezza.
Anche a Svevo, anche al Belli capitò quella sorte, e a chissà quanti altri...
Però, attenzione, qui si desidera andare più a fondo: un po’ di colpa possiamo
darla alla famiglia, ma la cosa non sarebbe stata così grave se il poeta non si
fosse dimostrato così disadattato. Adesso bisogna rivelare di quale
disadattamento soffrisse. Ci risiamo con Marx e Freud. Disadattamento sociale o
psicologico? Il nostro editorialista ha qualche esitazione, infine, che male
c’è, si risolve per tutti e due. Solo che aggiunge un “addirittura”, che
francamente, tu mi intendi, caro Penna, è inspiegabile. Perché “addirittura”?
Se fossi in te, vorrei avere ragione di questo sopruso. Un linguista lo
giudicherebbe un lapsus semantico, un sottile, esilissimo insulto di chi è
incapace di offendere. Un giudice forse deciderebbe per un’escussione di testi,
come usa. E di teste in teste, risalirebbe alla fonte dei tuoi guai, che la
poesia svela ma che la giustizia non capirà mai.
Alla fine,
l’affanno dell’estensore sembra sciogliersi. Tant’è dir le cose come stanno:
Penna vere e proprie disavventure non ne ha mai avute. Quelle “ristrettezze”
sono passate come acqua sulla sua pelle. Di che cosa lamentarsi nelle sue
interviste? (cfr. “Tempo”, 28 novembre ’76). E c’è di più: “Oggi che il suo
carattere sarebbe divenuto più limpido (altre sfumature, altre ambiguità
editoriali..., badate a quel condizionale, chi lo sa, forse i critici pensano
il contrario, e difatti Garboli, eccezionale critico di Penna, è proprio su
questa linea), per conservare una sua libertà...”. Occorre interrompersi un
momento, ora siamo di fronte al vero ostacolo: dunque, per conservare una sua
libertà... l’estensore della nota ha dei dubbi, deve pur uscirne, di quale
libertà si tratta?, politica, morale, religiosa, sessuale, ah troppo troppo
difficile scavare nell’animo di un poeta, e allora... altro casus ahimè
gravissimo, richiudo in parentesi e ci metto “ormai obbligatoria’’, tanto chi
andrà a investigare fra libertà e libertà, basterà che sia... obbligatoria, e
siamo già alla follia, lo riconosco, ma ormai è fatta, bisogna dire altro.
Soprattutto bisogna aggiungere che il poeta è “ugualmente costretto a molte
strane occupazioni”.
Carissimo
Penna, poeta fra i rarissimi da stimare oggi sul nostro pianeta, hai davvero
ragione di lamentarti: ma non tanto di ciò che affermi nelle tue interviste,
bensì di quello che ti fanno a tua insaputa. Sono convinto che pochi
resisterebbero a certe insinuazioni. Che cosa ti tiene tanto stranamente
occupato, notte e giorno? I mali di cui soffri, l’ingratitudine umana, la
poesia, il ricordo del passato, il nero vuoto spirituale che ci avviluppa,
i quadri che vorresti vendere, le telefonate a cui non sai rinunciare, la
notte che è più brutta del giorno, il giorno che è più orrendo della notte?
Questi interrogativi si riferiscono a qualcosa, ma non sono “strane”
occupazioni: appartengono a te, al tuo dolcissimo selvaggio amor della vita.
“Il mondo mi pareva un chiaro sogno, / la vita d’ogni giorno una leggenda”.
Appunto. Scusami questa tiritera, e ricevi un affettuoso saluto dal tuo
Giacinto Spagnoletti
Da “Poesia”,
Anno XIII n.138, Aprile 2000
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