30 gennaio 2017

UNA LETTERA DI G. SPAGNOLETTI A S. PENNA



Giacinto Spagnoletti









     Giacinto Spagnoletti è stato uno dei più acuti critici letterari del 900. Ho avuto la fortuna di conoscerlo direttamente nel 1976, al Centro Studi e Iniziative di Trappeto, nei mesi in cui preparava il libro su Danilo Dolci che pubblicò l'anno successivo. 
      Mi piace pubblicare oggi una sua lettera inviata al grande poeta Sandro Penna (1906-1977), poco prima che quest'ultimo, dopo una vita travagliata, chiudesse definitivamente gli occhi. (fv)


26 dicembre 1976

Caro Penna,
leggo il tuo ultimo straordinario libro di poesie Stranezze (edito da Garzanti), “stranezze” che mi paiono assolutamente omogenee all’universo in cui vivi, e perciò del tutto normali, e dopo aver esultato all'idea che nessuno meglio e più di te ha mantenuto per tanti anni la medesima grazia e limpidezza di voce, vado a scorrere quasi distrattamente il risvolto di copertina dove qualcuno ha creduto di “raccontare” la tua vita. Come mai si commettono ancora di queste imprudenze? E a vantaggio di chi, mi chiedo. Singolare è il modo - e più di un tuo amico rimarrà costernato - in cui vengono descritte le tue tribolazioni di uomo, dall’adolescenza in poi: “Di famiglia borghese (il padre commerciante sfortunato; la madre un po' nobile, un po' plebea), non sente fino alla maturità le ristrettezze economiche che poi si faranno abbastanza vive, più per una sua completa incapacità di adattamento sociale (addirittura psicologico) che per reali disavventure. Oggi che il suo carattere sarebbe divenuto più limpido, per conservare una sua libertà (ormai obbligatoria) è ugualmente costretto a molte e strane occupazioni”. Tutto il pezzullo risale a tre anni fa, quando uscì presso il medesimo editore la tua raccolta di racconti, Un po’ di febbre, ma allora la cosa passò inosservata. Io stesso recensii questo libro e non me ne accorsi.
Facciamo finta dunque che l’idea sia nata appena ieri e che si possa (ma si può?) dar sulla voce a chi ha pensato di edulcorare in quelle poche righe la magia e il dolore della tua esistenza. Quante cose rivela l’analisi del linguaggio! In primo luogo l’anonimo estensore del risvolto ha ritenuto di farti un piacere distribuendo fra borghesia, nobiltà e pezzenteria la “condizione” tua e dei tuoi genitori. Come dire che, per essere così “diverso” il contenuto della tua prosa (e dei tuoi versi), meglio non far risaltare in modo netto le origini. La cui chiarezza potrebbe eccitare a chissà quali discorsi malintenzionati un critico marxista, proponendo insane equazioni. Ad esempio, un poeta che osa dichiarare (da sempre) l’amore per i fanciulli correrebbe un serio rischio, se fosse “un po’ plebeo” come sua madre. Freud e Marx appena da qualche anno timidamente nel nostro paese si tendono la mano, forse solo da quando Fromm è intervenuto sul problema, vulgatim, e in economia. Resta il fatto che lasciare a un poeta come te tutto intatto il sangue borghese con un cucchiaino di aristocratico liquore ben sciolto risponde meglio al canone tradizionale che si perde nella notte dei secoli, sino ad Anacreonte e oltre. Da questi borghesi, che hanno una madre “un po’ nobile”, c’è da aspettarsi di tutto. Difatti, lo ricordavamo oggi Bassani ed io, di fronte a una società qual è la nostra, il povero Pasolini si è vergognato sempre delle sue propensioni sessuali; e la televisione italiana lo remunera da morto, mostrando alle famiglie insonnolite delle ore ventitré poetiche immagini del Friuli, interrogando quanti lo conobbero da ragazzo, politici e non politici (chi ricordava però che fu cacciato dal P.C. e dal suo paese?), e soprattutto leggendo lettere inedite, in cui il poeta parla di ragazze, di feste campagnole, di stupendi balli al tramonto, eccetera eccetera.
Veniamo ora alla parte sostanziale del pezzullo. C’è scritto che tu non hai sentito sino alla maturità (parola vaga che non vuol indicare un’età precisa, se Rimbaud a sedici anni era perfettamente maturo) “le ristrettezze economiche che poi si faranno abbastanza vive”. Benedetto Iddio, adesso cominciamo a ragionare, sono in ballo le ristrettezze; e chi ti conosce sa di che si tratta; ma un po’ di dolce in bocca a chi compra il libro (ignaro) occorre pur lasciarlo, ed ecco quell’“abbastanza”, capolavoro di finezza editoriale, perché anche i più scalcinati linguisti non ignorano che “abbastanza” preposto a “vive” toglie invece di aggiungere. Tutto sommato, insinua il nostro bravo estensore, è naturale che un poeta, giacché ha avuto in sorte un padre “commerciante sfortunato”, debba soffrire sino alla maturità (?) di qualche ristrettezza. Anche a Svevo, anche al Belli capitò quella sorte, e a chissà quanti altri... Però, attenzione, qui si desidera andare più a fondo: un po’ di colpa possiamo darla alla famiglia, ma la cosa non sarebbe stata così grave se il poeta non si fosse dimostrato così disadattato. Adesso bisogna rivelare di quale disadattamento soffrisse. Ci risiamo con Marx e Freud. Disadattamento sociale o psicologico? Il nostro editorialista ha qualche esitazione, infine, che male c’è, si risolve per tutti e due. Solo che aggiunge un “addirittura”, che francamente, tu mi intendi, caro Penna, è inspiegabile. Perché “addirittura”? Se fossi in te, vorrei avere ragione di questo sopruso. Un linguista lo giudicherebbe un lapsus semantico, un sottile, esilissimo insulto di chi è incapace di offendere. Un giudice forse deciderebbe per un’escussione di testi, come usa. E di teste in teste, risalirebbe alla fonte dei tuoi guai, che la poesia svela ma che la giustizia non capirà mai.
Alla fine, l’affanno dell’estensore sembra sciogliersi. Tant’è dir le cose come stanno: Penna vere e proprie disavventure non ne ha mai avute. Quelle “ristrettezze” sono passate come acqua sulla sua pelle. Di che cosa lamentarsi nelle sue interviste? (cfr. “Tempo”, 28 novembre ’76). E c’è di più: “Oggi che il suo carattere sarebbe divenuto più limpido (altre sfumature, altre ambiguità editoriali..., badate a quel condizionale, chi lo sa, forse i critici pensano il contrario, e difatti Garboli, eccezionale critico di Penna, è proprio su questa linea), per conservare una sua libertà...”. Occorre interrompersi un momento, ora siamo di fronte al vero ostacolo: dunque, per conservare una sua libertà... l’estensore della nota ha dei dubbi, deve pur uscirne, di quale libertà si tratta?, politica, morale, religiosa, sessuale, ah troppo troppo difficile scavare nell’animo di un poeta, e allora... altro casus ahimè gravissimo, richiudo in parentesi e ci metto “ormai obbligatoria’’, tanto chi andrà a investigare fra libertà e libertà, basterà che sia... obbligatoria, e siamo già alla follia, lo riconosco, ma ormai è fatta, bisogna dire altro. Soprattutto bisogna aggiungere che il poeta è “ugualmente costretto a molte strane occupazioni”.
Carissimo Penna, poeta fra i rarissimi da stimare oggi sul nostro pianeta, hai davvero ragione di lamentarti: ma non tanto di ciò che affermi nelle tue interviste, bensì di quello che ti fanno a tua insaputa. Sono convinto che pochi resisterebbero a certe insinuazioni. Che cosa ti tiene tanto stranamente occupato, notte e giorno? I mali di cui soffri, l’ingratitudine umana, la poesia, il ricordo del passato, il nero vuoto spirituale che ci avviluppa, i quadri che vorresti vendere, le telefonate a cui non sai rinunciare, la notte che è più brutta del giorno, il giorno che è più orrendo della notte? Questi interrogativi si riferiscono a qualcosa, ma non sono “strane” occupazioni: appartengono a te, al tuo dolcissimo selvaggio amor della vita. “Il mondo mi pareva un chiaro sogno, / la vita d’ogni giorno una leggenda”. Appunto. Scusami questa tiritera, e ricevi un affettuoso saluto dal tuo
Giacinto Spagnoletti


Da “Poesia”, Anno XIII n.138, Aprile 2000

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