Persiste ancora,
nonostante la grande mole di studi degli ultimi decenni, una visione
ottocentesca del medioevo come mondo immobile. Un libro di Giuseppe
Sergi, già docente all'Università di Torino, cerca di ricostruire
la vera immagine di un periodo storico da riscoprire.
Alessandro Barile
Tra realtà e
mistificazione
Da decenni quasi tutte le
opere di divulgazione sulla storia del medioevo hanno come primario
obiettivo quello di demistificare una serie di credenze, leggende e
miti impressi nella memoria collettiva. Come afferma Giuseppe Sergi
nel suo ultimo libro (Soglie del Medioevo, Donzelli 2016), “il
medioevo è il periodo forse più frainteso della storia e più di
altri argomenti ha bisogno di procedure di spiegazione”. Questo
fraintendimento non si è generato per caso.
Da una parte, la
definizione stessa di medioevo rimanda a un periodo di mezzo tra
l’età classica e l’età moderna, rafforzando il preconcetto
negativo su di un’indistinta età di passaggio tra l’antichità e
il mondo di oggi. Dall’altra, racchiudere in un’unica definizione
forzata mille anni di storia ha consentito di inserire in questa
abnorme periodizzazione tutto e il contrario di tutto, trattando in
blocco eventi e processi storici affatto diversi, come se l’VIII
secolo fosse equiparabile all’XI e questo al XIV. Il tutto, poi,
letto attraverso una progressività della storia vittima
dell’impostazione positivista ottocentesca, che ha contribuito a
deformare la percezione che abbiamo del periodo.
Infine, l’uso politico
della storia medievale, anch’esso promosso da certo nazionalismo
ottocentesco, ha definitivamente fatto del medioevo il luogo mitico
dove recuperare origini e tradizioni in chiave legittimante. Tutto
questo ha prodotto non una “memoria collettiva”, quanto quella
che Sergi chiama “cultura diffusa”: “un impasto di ricordi
scolastici, di permanente successo di miti del passato, di usi
simbolici della storia da parte della grande informazione”. E’ un
vero e proprio medioevo immaginario quello a cui rimandano i nostri
ricordi, fatto di fantasie tramandate artificialmente che però non
corrispondono agli eventi e ai processi storici effettivamente
avvenuti.
Per cogliere bene il
senso di questa prospettiva falsificata della storia è
imprescindibile la lettura dell’opera ormai classica di Hobsbawm e
Ranger, L’invenzione della tradizione, laddove afferma con
chiarezza, nell’introduzione, che le “tradizioni che ci appaiono,
o si pretendono, antiche hanno spesso un’origine piuttosto recente,
e talvolta sono inventate di sana pianta”. Un testo che infatti
ricorre spesso nel libro di Giuseppe Sergi.
I luoghi comuni medievali sono tali e tanti che risulta impossibile farne una panoramica esauriente. Il professore torinese svela però il marcio dietro ad una serie di mitologie imperiture. L’alimentazione, ad esempio. Vulgata vuole che l’alimentazione medievale sia costituita da una dieta largamente insufficiente, tra le principali cause dell’elevata mortalità. Eppure, almeno fino al secolo XI, è proprio la carne la principale portata della tavola medievale, vista la predominanza silvo-pastorale della produzione alimentare. Una gestione che consentiva una relativa abbondanza dei prodotti del bosco, successivamente divenuti pregiati a causa delle recinzioni degli incolti boschivi e fluviali ai margini delle città.
Un’altra mitologia
persistente è la ricerca delle origini alto-medievali delle identità
nazionali moderne, un tentativo a dire il vero oggi meno evidente ma
che ha inciso fortemente nel dibattito nazionalista tra Ottocento e
Novecento. Eppure, seguendo Patrick Geary nel suo Il mito delle
nazioni. Le origini medievali dell’Europa, scopriamo il peso
(nullo) dei legami di sangue all’interno delle popolazioni
medievali “barbariche” (termine da preferire a “germaniche”
proprio per evitare infondati legami etnici tra le diverse
popolazioni migranti dei territori mitteleuropei).
In realtà, come ormai
accertato dalla storiografia degli ultimi decenni, non esisteva
contrapposizione tra “romani” e “germani”, quanto una
compenetrazione basata su incontri tribali, accostamenti culturali,
simbiosi sociali, dialettiche tra integrazione-separazione e progetti
d’egemonia di circoscritti gruppi dominanti. Anche il termine
“romani” è d’altronde equivoco secondo Walter Pohl, data la
natura multiforme ed eterogenea delle popolazioni risiedenti sotto
l’Impero, impossibile da ridursi attorno a devianti “caratteri
comuni” inesistenti persino nella stessa penisola italica. Nessun
legame o scontro etnico dunque è alla base della “nascita
dell’Europa” dopo la dissoluzione dell’Impero romano, e
soprattutto, secondo Sergi, “la corrispondenza tra i “popoli”
altomedievali e i popoli contemporanei è un mito”.
Altra reductio deformante è quella del medioevo come “società feudale”, laddove al contrario il feudalesimo è un sistema di rapporti interno all’aristocrazia, e non il modello socialmente prevalente tra la popolazione. Semmai, è solo dopo il XII secolo che lo sviluppo signorile apportò profondi mutamenti nelle campagne, sfruttando il rapporto feudo-vassallatico come strumento di controllo e organizzazione del territorio. La “rifeudalizzazione”, o “seconda età feudale” secondo Marc Bloch, ha finito col descrivere tutti i rapporti sociali medievali, avallata in questo senso dalla storiografia ottocentesca.
La natura “piramidale”
della società medievale, incancrenita nella nostra percezione anche
da certe reminiscenze scolastiche, non corrisponde alla reale
stratificazione sociale presente negli anni attorno al Mille, quanto
semmai intervenuta successivamente in epoca già tardo-medievale.
Anche in questo caso, ad essere smentita è una certa visione
necessariamente progressiva del corso della storia, che dispone gli
eventi storici in una catena inequivocabilmente crescente di
civilizzazione. Ne esce frantumata anche l’idea di poter trattare
il medioevo in senso univoco e omogeneo: “gli anni cosiddetti
medievali, una volta defeudalizzati, risultano troppi perché
l’insieme del medioevo (un millennio) possa essere giudicato una
categoria storica”.
Altro mito destinato a perdurare in quella che Sergi ha definito “cultura diffusa” è la presunta immobilità delle società medievali. Al contrario, il medioevo è periodo di forte mobilità – intesa sia in termini di spostamenti della popolazione – che di forte sperimentazione istituzionale: “i secoli centrali del medioevo, intorno al Mille, sono definibili come periodo di sperimentalità politica e sociale, in questo senso il più caratteristico che la storia europea abbia mai vissuto”.
L’incontro
“latino-barbarico”, guidato dai Franchi in epoca merovingia,
integra efficacemente il modello aristocratico-militare delle
popolazioni nomadi con quello delle famiglie gallo-romane normalmente
più impegnato nella gestione dei grandi latifondi e delle carriere
ecclesiastiche. L’arrivo dei Franchi in Italia alla fine del VIII
secolo rafforzerà in questo senso un modello di governo che fonde
alcuni elementi tipici delle due civiltà entrate in contatto
reciprocamente, creando ex-novo una forma del potere da cui
prenderanno origine le embrionali organizzazioni statuali dell’Europa
tardo medievale.
Giuseppe Sergi, in questo tentativo di introduzione colta e professionale al medioevo, non si limita a decostruire un certo “abuso della storia” medievale. Interviene anche sul metodo, prendendo le distanze tanto da un certo “ritorno all’ordine” evenemenziale, tipico di certa pseudo-storia molto in voga in questi anni, quanto da certe fascinazioni culturali derivate da una scarsa comprensione del modello delle Annales, che hanno prodotto, per contrasto, un’idea di medioevo affascinante ma forse altrettanto irrealistica. Uno strumento utile per tornare ad interpretare seriamente un periodo tanto importante quanto poco conosciuto. Soprattutto in tempi come questi in cui, come direbbe il grande medievista Vito Fumagalli, la natura torna a fare paura, portandosi con sé pezzi di Italia medievale che costituiscono parte del nostro passato più prestigioso.
Il manifesto -7 gennaio
2017
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