20 gennaio 2017

M. RECALCATI SULL'ENIGMA ULISSE


Il personaggio creato da Omero è, ancora più di Edipo, simbolo eterno dell’oltrepassamento del limite, come racconta Dante nell’Inferno. Ma poi il Novecento (vedi Heidegger e Canetti) ha riletto in tutt’altra chiave le sue avventure, enfatizzandone i lati decisamente non egoistici: dal pianto per Troia al ritorno in famiglia. Queste nuove interpretazioni non cancellano aspetti come il desiderio infinito o la curiosità insaziabile: piuttosto sottolineano la divisione tragica dell’uomo.

Massimo Recalcati

L’enigma Ulisse eroe narcisista che scelse l’Altro

Ulisse è l’eroe della mitologia che più di tutti ha forse incarnato la tendenza umana all’oltrepassamento di ogni tabù. Al contrario di Edipo, il figlio, che di fronte all’eccesso di verità (non è re ma parricida, non è marito ma figlio della regina, non è padre ma fratello dei suoi figli) sprofonda nella colpa, Ulisse incarna la spinta positiva della conoscenza che sa trasformare ogni ostacolo in uno stimolo a proseguire la sua ricerca. Non ci siamo forse riconosciuti tutti in questa spinta, si chiede Roberto Benigni commentando con il suo solito estro lo straordinario canto XXVI della Commedia di Dante che ha proprio in Ulisse il suo maggiore protagonista? Non siamo noi tutti divisi tra la brama di conoscere l’ignoto e l’attrazione nostalgica verso le nostre radici, il suolo familiare, la nostra identità, Itaca?

L’interpretazione dantesca del desiderio di Ulisse sembra però sbilanciare a senso unico questa divisione: non il padre Laerte, non il figlio Telemaco, non la moglie Penelope e nemmeno la propria terra, sono in grado di quietare l’irrequieta brama di conoscenza di Ulisse. Il suo “folle volo” coincide dunque con la sua massima colpa ( ma non fu la stessa di Edipo?): la conoscenza non rispetta il suo limite umano, non riconosce la sua insufficienza. Secondo Dante è questo il nucleo del dramma di Ulisse: l’hybris del vincitore di Troia è, infatti, per il sommo poeta tragicamente colpevole. «Misi me nell’alto mare aperto », dichiara l’Ulisse dantesco a sottolineare l’indipendenza sovrana della sua volontà.
Il nostalgico ritorno verso Itaca è allora solo un pretesto per soddisfare la sua curiosità irrefrenabile, la sua fame di esperienza? Secondo Dante il suo viaggio è destinato alla morte perché non sa cogliere il senso del limite che è innanzitutto il senso dei propri limiti. Ulisse come Edipo trascura l’indicazione socratica: «Conosci te stesso!». L’uno cerca il colpevole fuori da se stesso, l’altro rincorre la soddisfazione per mari sconosciuti senza alcuna capacità di raccogliersi presso di sé. 
La vera colpa di Ulisse, sempre secondo Dante, non è lo stratagemma fraudolento del cavallo di Troia, ma la superbia di voler accedere all’inaccessibile, di sfidare con la propria intelligenza il mistero della vita e della morte, di non saper mai realizzare il proprio desiderio fatalmente destinato all’insoddisfazione perpetua. Per questa ragione Dante, alla fine del Canto XXVI, immagina che la morte di Ulisse accada proprio nel momento in cui egli oltrepassa il tabù delle colonne d’Ercole inoltrandosi in un viaggio impossibile, destinato al naufragio («infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso »).

Nella raffigurazione dantesca Ulisse è alle prese con un problema narcisistico che non gli consentirebbe di fare mai a meno del proprio Io. In totale contrasto con questo ritratto Elias Canetti in Masse e potere indica il fascino di Ulisse in tutt’altra dimensione. Al centro del suo brevissimo ritratto è l’immagine della diminuzione. Ulisse non è vittima della superbia del proprio Io, non è sedotto dalla potenza del proprio intelletto, ma è colui che sa salvarsi perché rinuncia al proprio prestigio, finanche al proprio nome, alla propria individualità, come accade nell’avventura con il Ciclope. 
È solo facendosi Nessuno che l’eroe riesce a scongiurare la vendetta dei Ciclopi invocata dall’ira di Polifemo accecato. Su questa stessa linea troviamo anche una straordinaria lettura di Heidegger in un breve scritto titolato Aletheia, contenuto in Saggi e discorsi. La scena è quella di Ulisse che assiste al racconto della guerra di Troia del cantore Demodoco nel palazzo dei re dei Feaci. A ogni passo della narrazione che gli rammenta l’atroce risultato della sua astuzia, colpito dall’emozione, egli nasconde il proprio capo per piangere in segreto.

Quanto è diversa questa immagine di Ulisse da quella dantesca del “folle volo”? Ulisse non incarna qui la spinta indomita alla conoscenza del mondo, quanto il valore di ciò che resta nascosto, che non appare. L’esatto contrario dell’orgogliosa affermazione narcisistica di sé che Dante gli imputa. Nel mezzo di una festa, Ulisse, l’esiliato, il senza patria, il naufrago, si ritira in solitudine nel pianto e nella vergogna. Il sapere non è qui potere, ma, se vuole avere un qualche rapporto con la verità, deve saper arretrare. Non è questa un’altra versione di Ulisse che entra in attrito con quella più nota che lo ha consacrato come eroe tragico e superbo della conoscenza? Non è questo gesto di ritegno in contrasto con l’orgoglio di colui che oltrepassa ogni divieto? Ecco tutto il valore del passo indietro, del rinunciare al nome proprio, della diminuzione sulla quale insiste anche Canetti.

Non è forse per questa capacità di sottrarsi alla presenza che Ulisse può respingere l’offerta di Calipso che in cambio del suo amore è disposta a promettergli la vita eterna? Cosa rende possibile a Ulisse, il superbo, scegliere di ritornare da Penelope, da suo figlio Telemaco e alla sua terra? In questa scelta Ulisse — come accadde alla corte dei Feaci — si rivela un soggetto capace di riconoscere il profondo debito che lo lega all’Altro. Non cancella Penelope, non dimentica Telemaco, non scorda Laerte. Non la vita eterna, l’oltrepassamento della morte, ma la vita dell’amore che vuole restare fedele alla sua promessa è ciò che più conta. Questo altro Ulisse non cancella ovviamente l’Ulisse del desiderio infinito e della curiosità insaziabile che Dante ha supremamente scolpito, ma ne esalta piuttosto, con ancora più forza, la divisione tragica che lo attraversa.

La repubblica – 10 settembre 2016

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