Johanna Bonger
Buona parte della fama
di Van Gogh si deve a una donna, Johanna Bonger, moglie di Theo, il
fratello del pittore. Fu lei a far circolare le opere dell'artista e
crearne il mito. Ora un libro racconta la sua storia che è anche la
ricostruzione di come Van Gogh, fino allora considerato
semplicemente un pazzo, divenne il Van Gogh che tutti amiamo.
Elisabetta Rasy
La donna che scoprì Van Gogh
Verso la fine delle
compassate memorie che Elisabeth van Gogh dedicò all’inizio del
Novecento all’ormai celebre fratello si leggono queste parole: «La
sua scoperta è opera di una donna che ha fatto conoscere il lavoro
di Vincent mossa dal suo amore per l’arte, dal suo spirito
commerciale e dalla sua compassione». È una sintesi veritiera ma
insufficiente della straordinaria impresa di Johanna Bonger, la
moglie di Theo, fratello dell’artista, e del suo speciale lavoro di
trasformazione delle centinaia di opere neglette del cognato morto
suicida in capolavori ammirati in tutto il mondo e della vita di
Vincent in una leggenda.
La storia di questa
singolare figura la racconta ora in un piccolo libro appassionante
, La vedova van Gogh, lo scrittore e giornalista argentino
Camilo Sanchez. Non si tratta di una biografia e neppure di una vita
romanzata, ma di un racconto dal vero che compone fatti realmente
accaduti secondo il disegno e la visione dell’autore. Al centro
della visione l’evocazione della donna che a ventisette anni sposò
Theo van Gogh e subito si rese conto di averne sposato anche il
fratello Vincent.
I due uomini erano più
che legati: Theo non solo aiutava finanziariamente Vincent e da
sempre aveva cercato di indirizzarne l’estro e l’inquietudine
verso la via dell’arte, ma era a lui vincolato da un inestricabile
intreccio emotivo e psicologico. Morì sei mesi dopo di lui,
prostrato dal lutto e folle per il dolore o forse per la sifilide,
lasciando a Johanna un altro Vincent, il figlio neonato, centinaia di
dipinti di tutte le stagioni espressive del fratello e una scatola
con le innumerevoli lettere che avevano scandito il loro rapporto per
buona parte della vita di entrambi. Un lascito difficile. Ma la
vedova di Theo, che aveva conosciuto solo fugacemente il cognato
prima della disperazione e della fine, non era una ragazza qualsiasi.
Nata in una raffinata
famiglia di Amsterdam, Johanna Bonger aveva ottenuto il permesso di
andare a studiare a Londra, si era appassionata ai poeti romantici,
Shelley in particolare, conosceva diverse lingue. Rimasta
precocemente vedova soprattutto non voleva che il terzo Vincent
subisse la maledizione dei primi due: il pittore era venuto al mondo
a un anno esatto di distanza da un fratello morto appena nato che
portava il suo stesso nome.
Intraprendente, colta e
determinata a trasformare tutta l’oscurità di quella storia
famigliare in qualcosa di luminoso, cominciò a riordinare le opere
dell’artista, a riallacciare i rapporti con i suoi non molti
all’epoca estimatori, a favorire a proprie spese esposizioni e
viaggi delle opere. Ma non dimenticò le lettere, che Theo aveva
morbosamente custodito come una preziosa reliquia del fratello
scomparso. Le rilesse, le riordinò e nel 1914 pubblicò il primo
volume dell’epistolario che avrebbe definitivamente trasformato la
dolorosa vita di van Gogh in un mito intramontabile.
Johanna fin dai suoi
diciassette anni aveva tenuto un diario: il libro di Camilo Sanchez
ne riproduce (o forse ne simula) dei frammenti, che suggeriscono la
temperatura emotiva e l’energia interiore della giovane vedova.
Occuparsi dell’opera del cognato, raccogliere l’eredità del
marito – tele accatastate qua e là, che nessuno voleva comprare, e
fiumi di inchiostro sui fragili fogli della loro corrispondenza –
non coincidono, per questa singolare figura, con il tradizionale
annientamento di sé nella devozione agli uomini di casa, che fanno
parte di una lunga tradizione di sorelle, moglie e figlie, eroine di
una femminilità umbratile e sacrificale. Johanna invece insegue nei
quadri di Vincent il lato solare, la luce dell’arte che sta dietro
il buio della vita per illuminare la sua, di esistenza.
Sa che le lettere sono un
tesoro e che dovrà custodirle pazientemente. Sa che deve darsi da
fare per mantenersi: dopo il suo rientro in Olanda col figlio e un
breve passaggio da una sorella e poi dai genitori, apre una locanda
in un piccolo paese non lontano da Amsterdam. Si occupa
appassionatamente della vita quotidiana – le cameriere , i
pensionanti, soprattutto il benessere del bambino – e altrettanto
appassionatamente combatte perché il lavoro di Vincent abbia la
gloria che merita. Il breve e faticoso matrimonio non le ha lasciato
rimpianti e la disattenzione di Theo per il loro ménage, le sue
frequentazioni dei cabaret, la sua abitudine all’alcol e alle
prostitute non le hanno lasciato rancori. E il ricordo fosco del
cognato insofferente e delirante è cancellato dall’ammirazione per
quella che lei definisce la poesia dei suoi dipinti e delle sue
lettere.
Il libro di Camilo
Sanchez la lascia quando la sua avventura con quel parente difficile
con cui «ha condiviso solo quattro giorni e una domenica» è appena
cominciata e lei «non sa se ha davanti una porta che si chiude o una
porta che si apre». Noi posteri invece sappiamo che la porta si aprì
e ci fu un lieto fine: la vita futura di Johanna fu ricca e piena, e
altrettanto piena fu la vita di quel terzo Vincent, che lei voleva
strappare alla cupa sorte del padre e dello zio. Ingegnere in giro
per il mondo, - tra l’Europa, gli Stati Uniti e il Giappone –
donò alla Fondazione van Gogh nel 1962 le opere ereditate dalla
madre perché la collezione non andasse dispersa, gettando così le
basi del futuro Museo van Gogh, dove fino alla sua morte, nel 1978,
riceveva lui stesso i visitatori.
Il Sole 24 Ore - 30
ottobre 2016
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