Ieri sulle pagine del Corsera Felice Cavallaro ricordava, in modo celebrativo, il famoso articolo di Leonardo Sciascia contro i cosiddetti "professionisti dell'antimafia" che riproduciamo più avanti. Molto più sobrio e corrispondente alla realtà ci sembra il breve corsivo di Massimo Bordin apparso stamattina su IL FOGLIO (fv)
Controversie tra Sciascia e Paolo Borsellino
La promozione a procuratore di Marsala di Paolo Borsellino, votata dal Csm, veniva citata da Sciascia come deroga ai criteri ordinariamente seguiti dall’organo di autogoverno della magistratura
Da IL FOGLIO 10
Gennaio 2017
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Trent’anni dopo
La profezia avverata di Sciascia
sui professionisti dell’antimafia
Quello appena concluso è stato l’anno della caduta di alcuni «miti», in particolare personaggi simbolo della lotta alla criminalità finiti sotto processo
di Felice Cavallaro
PALERMO -
Adesso che dal palcoscenico di un’antimafia di facciata rotola uno stuolo di
“professionisti” travestiti da politici, imprenditori, giornalisti, preti,
magistrati “duri e puri”, la profezia di Leonardo Sciascia viene spesso
richiamata e condivisa anche da chi contestò lo scrittore eretico di Racalmuto.
A trent’anni dalla pubblicazione del famoso e discusso articolo. Tanti ne sono
trascorsi dal 10 gennaio 1987, quando nelle edicole e nella vita pubblica
irruppe il provocatorio titolo del Corriere della Sera sui “professionisti
dell’antimafia”.
Antimafia da vetrina
Con la sua
profetica lungimiranza, senza che nessuno potesse allora immaginare la deriva
dei nostri giorni, in tempi recenti segnata perfino dall’assalto di famelici
magistrati ed avvocati sulla gestione dei beni confiscati, Sciascia, dal suo
buen retiro di Contrada Noce, dalla casa di campagna a dieci minuti dai Templi
di Agrigento, provava a smascherare i rischi dell’impostura, di una antimafia
da vetrina. E ne aveva titolo, lui che la mafia l’aveva fatta diventare caso
nazionale negli anni Sessanta con saggi e romanzi, sbattendola in faccia ad una
opinione pubblica distratta, ad una classe dirigente spesso connivente,
indicando la strada da perseguire, quella dei soldi, delle banche, delle
tangenti.
La caduta dei miti
Trent’anni
dopo l’impostura è drammaticamente confermata dalla “caduta dei miti”, come la
definisce l’ex presidente dell’Antimafia Francesco Forgione nel suo libro “I
tragediatori”. E’ il caso di Silvana Saguto, la magistrata dei beni confiscati,
del presidente della Camera di commercio Roberto Helg, beccato con una tangente
da 100 mila euro accanto allo sportello antiracket intitolato a Libero Grassi.
Incriminati il direttore di TeleJato Pino Maniaci per estorsione e un altro
giornalista di Castelvetrano come prestanome di boss. Mentre non si placa la
lite interna a Libera fra Don Ciotti e il figlio di Pio La Torre. E si è in
attesa di una estenuante definizione dell’inchiesta tutta da chiarire dopo due
anni sul presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante.
Il giorno della civetta
Ma, quando
ancora la trincea di Palermo era insanguinata dall’attacco dei boss e mentre
qualche buon risultato già arrivava dal maxi processo di Giovanni Falcone e
Paolo Borsellino, nel 1987 quel titolo scatenò una reazione scomposta. Animata
anche da un gruppo di giovani (e meno giovani) costituiti in “Comitato
antimafia”, decisi a rovesciare addosso allo scrittore un nomignolo coniato ne
“Il giorno della civetta”. Si, lo definirono ”quaquaraquà”. Prendendo spunto
dalla classificazione dell’umanità richiamata nel confronto fra il padrino di
quel libro, don Mariano Arena, e l’uomo dello Stato, il capitano Bellodi. Molti
lo difesero, ma scattò una delegittimazione di Sciascia, criticato anche da
Pino Arlacchi, Eugenio Scalfari, Nando Dalla Chiesa, Giorgio Bocca, Giampaolo
Pansa, pronti a protestare contro un articolo interpretato come un attacco a
Leoluca Orlando e a Paolo Borsellino. Il riferimento all’allora sindaco di
Palermo c’era davvero. Stimolo, diceva Sciascia, per evitare di ridurre
l’amministrazione della cosa pubblica al solo rafforzamento dell’“immagine”
personale. Una spinta a far prevalere scelte concrete sugli imbellettamenti
superficiali della città. Spunto per spiegare che pesano di più i fatti e non
le parole, che “vera antimafia è un acquedotto in più, anche a costo di un
convegno in meno”. E, forse, Orlando ha anche apprezzato l’indicazione, con gli
anni.
Borsellino a Racalmuto
Il secondo
bersaglio non era Borsellino. Come Borsellino capì. Nel mirino c’era il massimo
organo di autogoverno della magistratura, il Csm, che, avendo fissato delle
regole per le carriere interne, non le applicava. Come accadde quando, per la
poltrona di procuratore a Marsala, fu scelto lo stesso Borsellino al posto di
un suo collega, virtualmente con più titoli, stando a quelle regole. Borsellino
capì che non era un attacco a lui e lo disse a Racalmuto nel 1991 presentandosi
ad un convegno nel paese di Sciascia, insieme con Falcone e con l’allora
ministro della Giustizia Claudio Martelli: “Chiarimmo con Sciascia. L’uscita
mirava ad altro. Ma fu sfruttata purtroppo all’interno di una pesante corrente
corporativa della magistratura che sicuramente non voleva quei giudici e quei
pool”. E, un anno dopo l’articolo, se ne ebbe conferma. Perché quella stessa
elastica interpretazione fu utilizzata all’interno della magistratura per
impedire a Falcone di guidare l’Ufficio Istruzione. A distanza di trent’anni,
tanti pensano ancora che in quell’occasione sarebbe stato preferibile eliminare
dall’articolo ogni margine di equivoco. Proprio per evitarne un uso
strumentale. E Sciascia ebbe modo di parlarne con Borsellino, a Marsala, fra
testimoni come Mauro Rostagno, il regista Roberto Andò, il suo amico Aldo
Scimè.
Gli studenti pentiti
Si scatenò
però un attacco astioso all’uomo, perdendo di mira la questione posta, e
mischiando così le carte con quel nomignolo. Come ammettono oggi tanti di quei
giovani coinvolti nel Comitato antimafia. Un po’ pentiti. E’ il caso di
studenti come Pietro Perconti e Costantino Visconti. Il primo oggi prorettore a
Messina, il secondo professore di diritto penale, un’autorità in materia
antimafia con il suo maestro Giovanni Fiandaca, autore di un libro fresco di
stampa, “La mafia è dappertutto. Falso!”. Una mazzata agli impostori caduti da
quel palcoscenico, commenta: “L’antimafia si è fatta potere”. Ed ancora: “Lui
guardava con le lenti della profezia, più avanti, noi calati nel presente fino
ai capelli eravamo una sparuta minoranza. Non potevamo prevedere gli effetti
connessi ad una antimafia che si faceva essa stessa potere”.
Le nuove imposture
Riflessioni
fatte proprie da un altro leader di quel Comitato, Carmine Mancuso, poliziotto,
figlio dell’agente di scorta caduto con il giudice Cesare Terranova, ex
senatore: “Una lucidità profetica, quella di Sciascia”. Stessa posizione di
Angela Lo Canto, la pasionaria del Comitato, poi consigliera comunale con
Orlando, adesso ben lontana dal sindaco: “Sciascia vide dove nessun altro
poteva vedere. In quel momento storico considerammo l’uscita infelice. Ma quel
‘quaquaraquà’ ci scappò di mano...”. Vergato da un giovane racalmutese, Franco
Pitruzzella, poi arruolato nel gruppo dei collaboratori dei magistrati
impegnati nel processo contro Andreotti. Forse l’unico non pentito. A
differenza di altri due studenti oggi dirigenti di polizia a Palermo, Giuseppe
De Blasi, allora da 110 e lode, adesso in questura, e Giovanni Pampillonia,
capo della Digos. Entrambi ormai da tempo faccia a faccia con le nuove
imposture che ogni volta fanno pensare alla profezia.
Corriere
della Sera, 9 gennaio 2017
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