Vedere il mondo attraverso la musica:
La La Land (Damien Chazelle, 2016)
Prima ancora di cominciare a vedere,
sentiamo: il suono sporco dei motori proveniente dalle vetture infilate
nel traffico metropolitano mattutino; clacson impazienti, voci che
parlano al telefono; qualcun altro che protesta a caso, e, ancora, altri
rumori striduli provenienti dalle molte radio di altrettante macchine
bloccate in una rampa autostradale di Los Angeles. Nel mezzo di questa
disturbata coreografia dell’incubo più comune e più antimusicale della
contemporaneità, vale a dire l’ingorgo automobilistico, ecco che,
improvvisamente, proprio al centro della confusione acustica, il tempo
della vita sprecata a perder tempo si interrompe, mentre parte una
canzone, Another Day of Sun
(le musiche del film sono di Justin Hurwitz). Spunta fuori perfino una
Band, e, uno dopo l’altro, tutti escono dalle auto che rinchiudevano
tante indistinte solitudini; tutti adesso cantano, ballano, stanno
assieme a tempo, incantandoci, tra musica, danze e colori, in uno
spettacolare pianosequenza lungo almeno sei minuti.
La canzone finisce: tornano il caos e il
traffico, ed è il momento in cui entrano in campo, separatamente,
nervosamente attaccati ai volanti delle proprie auto, Sebastian (Ryan
Gosling) e Mia (Emma Stone); lui è, si crede, un «musicista serio» di
Jazz, che vorrebbe aprire un locale tutto suo, ma intanto si arrangia
suonando jingle natalizi in un ristorante piano-bar; lei sogna
ostinatamente di realizzarsi come attrice, mentre, per mantenersi tra un
provino e l’altro, fa la barista in una caffetteria di Hollywood.
La prima volta che si guardano si
offendono, per una banale ma significativa questione di precedenza;
ognuno tira avanti, e il racconto li segue separatamente, raccontandoci
prima Mia, e poi Sebastian, fino alla seconda successiva occasione di
incontro, quando la ragazza, fuggita da una noiosa e inutile festa, è
attirata dalla musica che sente suonare in un locale, così entra e di
nuovo vede Seb. Ma non accade nulla nemmeno stavolta, così dovrà
arrivare un’ulteriore occasione prima che nasca una relazione. Le
vicende di La La Land sono scandite in stagioni: all’inizio è
Inverno, poi arriva la Primavera, quando si ritrovano; poi viene
l’Estate, l’epoca dell’amore, intanto che Sebastian trova il successo
lasciando da parte i propri sogni e suonando la tastiera in una Band
alla moda; e, ancora, l’Autunno, quando i due si separano perché i loro
sentimenti non riescono a stare in armonia con le loro ambizioni.
Passano cinque anni, arriva un altro Inverno: Mia, che ha davvero
conquistato il successo come attrice, una sera, per caso, entra nel Jazz
Club che Seb è riuscito a metter su.
In sintesi, e senza rivelare troppi dettagli, la vicenda di La La Land è
tutta qui: in un insieme di situazioni che tornano su sé stesse, come
in un giro di valzer dove però il passo si rompe, tant’è vero che i due
protagonisti, almeno fino al quinto pannello del racconto, pare che non
riescano mai ad andare a tempo: perché arrivano tardi al lavoro, ai
provini, al cinema, all’occasione di un bacio, allo spettacolo in cui
Mia debutta, mentre Seb non riesce a raggiungerla.
Forse non basta definire il terzo film di Damien Chazelle come un musical, giusto per procedere al raffronto con le tante opere citate (e di cui si può trovare una bella rassegna qui). La cifra del musical non basta in senso formale, come pure per capire perché il film funzioni e sappia emozionarci così tanto. Proprio come Casablanca (citato due volte: tra i film che Mia guardava da piccola, e in una locandina appesa accanto a un negozio maliziosamente chiamato “Les Parapluies”, alludendo stavolta al musical francese Les parapluies de Cherbourg (1964), di Jacques Demy), come nel grande cinema, La La Land ci fa uscire dalla sala felici di aver sognato a occhi aperti. E allora, cercando una risposta a questa riuscita, si può dire che Chazelle non ha realizzato un musical, bensì si serve del musical.
Non è bizzarro insistere su questi
aspetti, anzi in un certo senso sarebbe strano il contrario, ossia
trascurare, in un film musicale, le forme e gli effetti di significato
create dai suoni. Tutto, in La La Land asseconda un senso della
vita come ritmo e improvvisazione. Quegli effetti di battere e levare
continuamente prodotti dai significanti – il titolo, la struttura delle
scene che si ripetono, i dialoghi, persino il format del cinemascope –
tutto batte il tempo, e così facendo ci parla e ci fa vivere la felicità
non come idea, e nemmeno come discorso, ma come ritmo, come scatto in
avanti o all’indietro, come effetto sincopato, come spinta rincorsa e
salto dentro la possibilità di un altro tempo, o di un’armonia elettiva.
«You’re the someone ready to be found» canta Mia in Someone in the Crowd
; « – Non è strano che continuiamo a incontrarci? – // – Forse vuol
dire qualcosa – ». Dall’inizio del film al momento in cui si
incontreranno nuovamente nel ristorante dove Sebastian suona – in una
scena che sarà decisiva anche per la parte finale, dove sarà ripresa
alla maniera di un tema musicale – fino a questo momento in cui non si
incontrano ancora il film mantiene le vite dei due personaggi su due
linee narrative separate e autonome (prima la storia di lei, poi la
storia di lui), come due strumenti che eseguono un assolo in attesa di
incontrarsi.
Il genere del musical ci chiede di
acconsentire incondizionatamente ai sogni dei personaggi: pretende che
aderiamo a ciò che vediamo attraverso gli occhi di chi sogna, e che
molto spesso è una persona comune. Nel musical si allestisce uno scambio
tra vita e illusione sotto il segno di un artificio esibito,
improvvisamente trasformato in performance: musica, danza,
recitazione, luci, fotografie, movimenti di macchina, tutto crea e
mantiene lo spettacolo di una rottura eclatante dentro la quotidianità –
anche per questo la strada è l’habitat del musical: la magia della
trasfigurazione avviene dentro l’esperienza dell’ordinario.
Affascinandoci, il musical riesce anche a raggiungere, attraverso la comunicazione extraverbale, un pubblico enorme e differente, perché, come in origine accadde per il musical teatrale americano nato tra gruppi di immigrati di origini diverse e che ancora non parlavano bene l’inglese, lo spettacolo della vita unisce anche le esperienze più lontane.
Chazelle riprende questa tradizione –
«tutti gli stereotipi di Hollywood in un colpo solo»; certo magari non
sempre eguagliandola, ma forse non è questo il punto, perché, come già
si diceva, il regista di La La Land più che altro imita il
musical, la sua leggerezza, i suoi colori, se ne serve: anzitutto per
riempire di sogni e di speranza gli occhi degli spettatori, per
ricordarci che il cinema è stato ed è, in buona parte, anche questo; ma
forse anche per sperimentare qualcosa di diverso, e che già esisteva,
come personale traccia artistica, già nei due film precedenti: Guy and Madeline on a Park Bench (2009) la storia dell’amore mancato tra un musicista Jazz e una ragazza, e Whiplash (2014): due film che già lavoravano sulla reciprocità di musica e significato. «Come
lo salvi il Jazz se nessuno lo ascolta?», chiede provocariamente a
Sebastian Keith, il leader della band di successo con cui il
protagonista si è messo a suonare. Sebastian rimane in silenzio, ma La La Land,
forse, è precisamente la risposta a questa domanda: un film che,
imitando il musical, salva il Jazz, la passione per il Jazz, inteso non
solo come un tipo di musica, ma come forma di esperienza e di
rappresentazione del mondo. «Non devi ascoltarlo! Devi vederlo»,
risponde Sebastian a Mia, quando, agli inizi della loro relazione, cerca
di convincerla ad apprezzare il Jazz: «- What do you mean you don’t
like Jazz? – || – It just means that when I listen to it, I don’t like
it». Ma Sebastian insiste: «You have to see it!». Ecco: La la land non
è un film che parla del Jazz, o che è ambientato nel mondo del Jazz; ma
un’opera che cerca di raccontare il Jazz come maniera in cui si può
guardare la vita. Non racconta cosa sia e chi la suoni, ma cosa ti può
dire e ti fa vedere la musica Jazz. Fa vedere, anche nel senso
di sperimentare la forza comunicativa di questo genere musicale. Il
jazz, spiega Sebastian a Mia, «è l’unico modo per comunicare tra persone
che non parlano la stessa lingua». Un po’ come il musical.
Tutta la partitura scenica, drammaturgica e musicale di La La Land sperimenta
continuamente la possibilità della manipolazione del tempo
cinematografico attraverso il suono. È così, tra l’altro, che rielabora –
sincopandola, facendola sparire, coprendola con altri suoni,
lasciandola vibrare in un giro di note improvvisate apparentemente fuori
ritmo – la vita comune rotta dal dolore, dalla frustrazione, ma
soprattutto, la vita non vissuta, quella che i protagonisti, e noi con
loro, hanno bisogno di continuare a sognare, a sperare, a musicare. Per
sentirsi vivi.
La scena più intensa di La La Land è quella che più dialoga con il momento in cui Sebastian aveva raccomandato a Mia di imparare a vedere
il jazz. È il punto, nell’ultima parte del film, in cui Sebastian, nel
suo Club, saluta il pubblico, prima di cominciare a suonare, e in
quell’attimo intercetta, tra gli altri, la presenza di Mia. Il tempo si
ferma: Seb si siede al piano, e dopo una pausa attacca il suo pezzo: e in quell’esecuzione,
intanto che, simultaneamente, e nello stile di un musical dagli scenari
di cartapesta, passano le immagini della loro vita parallela, quella
che non si è realizzata per far realizzare i loro successi. La musica
riesce, appunto, a vedere, a far vedere, senza bisogno di parole:
ascoltando e guardando stiamo vedendo il mondo, l’illusione di quel
mondo, ovvero la sua umanità, dall’interno di quell’esecuzione: una
melodia in tono minore inizia il brano e via via sarà ripetuta; si passa
dal piano solo (che è figura di Sebastian) e su su, in crescendo,
arrivano gli archi, le trombe, i fiati, come in una jam session che
progressivamente rende visibili, attraverso i suoni, gli accordi e gli
sbalzi, le pause, i passaggi della storia sognata di Mia e Sebastian:
quella che poteva accadere. Ritmo e improvvisazione sono gli occhi della
musica, e creano un effetto oscillante tra due poli: da un lato il
senso nostalgico e struggente di un passato perduto anche perché, in
parte, non è mai esistito, chiuso nelle note di un carillon (boîte à musique/music box);
dall’altra lato, e insieme, l’impulso a andare avanti seguendo il
ritmo, come se quello che abbiamo vissuto nel passato, compreso il
dolore, quello che ha rotto il tempo, incantandolo su una nota scura,
potesse creare malinconia nel momento stesso in cui ci dà anche la forza
per essere quello che si è ora. Ritmo e improvvisazione. Questo è il
Jazz. Il film di Chazelle ci dona uno dei finali più romantici degli
ultimi anni, intendendo, per romanticismo, la tensione vibrante tra la
vita come rappresentazione e la vita come consapevolezza.
La La Land percorre una
sequenza di quattro stagioni (Inverno, Primavera, Estate, Autunno) e,
dopo una pausa, salta all’inverno di cinque anni più tardi. Il Jazz è la
quinta stagione, il tempo fuori dal tempo. E grazie alle contaminazioni
con il musical racconta allora non solo l’illusione della vita, ma la
vita stessa, con i suoi ricordi e le sue solitudini: «la gente adora
quelli che hanno una passione perché gli ricorda quello che hanno
dimenticato». Come se guardassimo attraverso un suono che si ripete e si
disperde: La La Land: ta//ta//tàa.
Recensione ripresa da http://www.leparoleelecose.it/?p=25979
Recensione ripresa da http://www.leparoleelecose.it/?p=25979
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