30 gennaio 2017

PRAGA, CAPITALE LETTERARIA DEL XX SECOLO




Sintesi emblematica della storia del mondo, la città boema è stata soprattutto una dimensione del passato per molti autori, oggi riproposti: da Rilke a Kafka, a Perutz a Werfel.

Luca Crescenzi

Praga, capitale del ventesimo secolo

La biografia delle città, non diversamente da quella di un qualsiasi individuo, si compone di verità e menzogne, di fatti e finzioni, di illusioni e disillusioni; così pure la memoria del passato si confonde con la leggenda di ciò che non è stato, ma avrebbe avuto ragione di essere, offrendo altre possibilità al rigido corso della storia. Forse per questo la biografia di Praga è stata riscritta innumerevoli volte: come se la città potesse compensare la tragedia del proprio destino storico attraverso i suoi testimoni e i suoi cronisti.

Del resto, se Parigi è stata la capitale del diciannovesimo secolo, in Praga si sono rispecchiate tutte le contraddizioni e le tragedie del ventesimo. In un succedersi di mutamenti e catastrofi paragonabili solo a quelli vissuti da Berlino la città ha visto tramontare il mondo di cui era parte e, con esso, l’età degli imperi; è stata capitale di una repubblica democratica cancellata dall’invasione nazionalsocialista; ha patito lo sterminio della popolazione ebraica e gli orrori della guerra; è stata repubblica socialista oppressa e inquieta; ha dato vita a un eroico tentativo di riformare la sua vita politica subendo, nel 1968, la seconda invasione nel giro di trent’anni; ha vissuto la dissoluzione dell’impero sovietico ed è tornata, infine, capitale di una repubblica democratica, ma separata dalla sua metà slovacca e da buona parte della sua identità storica.

Più che una semplice città, Praga è stata, negli ottant’anni delle sue drammatiche metamorfosi, la sintesi emblematica della storia del mondo. Per questo, forse, la sua narrativa resta al centro di un interesse testimoniato dalla frequenza delle sue riapparizioni. Anche nella sua età più felice, di metropoli absburgica ricca e moderna, Praga è stata percorsa da conflitti etnici e politici tra la sua componente slava, povera e largamente maggioritaria, e la borghesia tedesca e ebraico-tedesca. Non per nulla molti suoi grandi scrittori l’hanno sofferta come una prigione e, presto o tardi, l’hanno abbandonata. Rilke – che la lasciò poco dopo i vent’anni – non vi fece più ritorno e creò di sé l’immagine del poeta esiliato e senza casa.
In una delle prose scritte poco dopo l’arrivo a Monaco – contenuta nei Racconti da poco ripubblicati da Guanda nella classica traduzione di Giorgio Zampa e Adriana Apa (pp. 364, euro 18,00) – racchiude però il destino di un personaggio che lo rappresenta in questa similitudine: «Il mondo? Ma egli in tutte le città aveva cercato solo quanto era suo: come uno che entra in una stanza buia per prendere un dato oggetto». Madre generosa trattata con rara ingratitudine dai suoi figli, la città è stata per questi ultimi soprattutto una dimensione del passato, il ricordo di un’infanzia o di un’adolescenza osservata dalla distanza dell’età adulta e della lontananza. Per questo la ricerca delle tracce di Praga nell’opera dei suoi autori, diventata un’ovvietà culturale dopo esser stata, per decenni, una moda, è una strada ambigua.

Prendiamo l’esempio di Kafka, il più grande dei suoi scrittori e, in apparenza, il più inseparabile dal suo luogo d’origine. Reinhard Stach, di cui Adelphi ha tradotto la raccolta di testimonianze intitolata Questo è Kafka? (pp. 360, euro 28,00) – dalla quale emerge un’immagine evidentemente anticonvenzionale dello scrittore – ha inserito tra i documenti riprodotti le cartoline infe rocite che il Kafka ventenne, piantato in asso a Monaco, invia all’amico Paul Kisch che avrebbe dovuto introdurlo alla vita letteraria della città ed è invece scomparso. È il riconoscimento rabbioso di una sconfitta che lo riporta a casa, agli studi di giurisprudenza e alla città che definirà – in questa occasione – «una mammina con gli artigli». Per Kafka, Praga è una costrizione; e tale resta fino a quando, ormai tardi, riesce a trasferirsi a Berlino. Difficile però dire se, senza Praga, un Rilke o un Kafka sarebbero mai nati.

La progressiva dispersione e diffusione nella periferia d’Europa della cultura nata nelle grandi capitali dell’ottocento trasporta da Londra e Parigi a Dublino, Monaco e Praga frammenti di discorsi tradizionali e sistemi di pensiero i quali, mentre dimostrano la loro fragilità, si riaggregano in forme diverse nei nuovi contesti. Se gli intellettuali conservatori di fine ottocento avevano visto in questa atomizzazione della cultura, in questa «perdita del centro», il grande male della decadenza moderna, i disillusi scrittori e filosofi del nuovo secolo ne fanno il fondamento della loro visione del mondo.

Accade così che a Praga, come in molti altri luoghi emblematici del nuovo secolo, non si affermi più una cultura dominante dalla chiara e riconoscibile impronta, ma si sviluppino forme e modi di pensare e scrivere disparatissimi, scaturiti dalle più diverse fonti, che producono un’esplosione di narrativa e di riflessioni diverse. A Praga si incontrano e si intrecciano le mode e le tendenze più eterogenee: l’eredità del realismo e quella del romanticismo, l’avanguardismo, il naturalismo, il simbolismo e l’espressionismo. Tutto è disponibile e tutto può finire per fondersi in qualcosa di nuovo. Per questo, ancora oggi, la letteratura praghese, genera riscoperte e successi editoriali.

È accaduto anche, in tempi relativamente recenti, con Leo Perutz, di cui Adelphi ha da poco pubblicato il settimo titolo, La neve di San Pietro, tradotto ottimamente da Fabio Cremonesi e F. Bovoli (pp. 183, euro 18,00), ed e/o Di notte sotto il ponte di pietra (traduzione di Beatrice Talamo, pp. 237, euro 13,00). Non certo un grande scrittore, Perutz è tuttavia un abile manipolatore di generi con cui imbastisce storie tanto avventurose quanto tortuose e inverosimili. Eppure la mescolanza, nei suoi libri, di elementi del fantastico tardoromantico, di forme del romanzo storico e del racconto d’avventura ha finito per trasformarlo in un caso mondiale all’insegna del marchio «praghese».
La neve di San Pietro è una storia – una delle tante di Perutz – in cui un personaggio qualsiasi vive un sogno (o una realtà) rivelatori: stavolta, un conte che vive ai margini del mondo e vagheggia la possibilità di rimettere sul trono dell’Impero romano di nazione germanica l’ultimo erede della corona di Svevia, informa un medico innamorato a sua volta di una misteriosa e bellissima scienziata, che porta l’improbabilissimo nome di Kallisto Tsanaris, circa gli esperimenti mediante i quali vuol far risorgere il sentimento religioso nel mondo. Il verosimile e l’inverosimile si confondono, come d’abitudine, e il finale è un’apoteosi del paradosso; ma tutto scorre in una tessitura lieve e brillante.

Pubblicato nel 1933, l’anno della presa del potere da parte di Hitler, La neve di san Pietro si conclude, forse non a caso, con la descrizione dell’insorgere di una follia rivoluzionaria. Ma tutto resta immerso nell’ambiguità caratteristica della narrativa di Perutz e questo – con buona pace degli ammiratori dello scrittore praghese – fa apparire il libro come un esito parziale, come il prodromo di possibilità inespresse.

Una coincidenza ha accostato nel tempo la ripubblicazione di questo romanzo (apparso per la prima volta in italiano nel 1998 per le edizioni Fazi) con la riedizione di un altro romanzo del 1933, I quaranta giorni del Mussa Dagh di Franz Werfel, che gli Oscar Mondadori hanno da poco ripresentato nella storica traduzione di Cristina Baseggio, cautamente riveduta da Elena Broseghini, con una perfetta introduzione di Massimilano De Villa (pp. 910, euro 20.00). Il contrasto non potrebbe risultare più stridente. Il romanzo di Werfel è uno dei capolavori della letteratura tedesca del Novecento, il più grande epos mai dedicato alla storia del genocidio armeno e, insieme, il modello esemplare di quel che è la narrativa praghese di lingua tedesca, nel ventesimo secolo.

Se questa è caratterizzata dalla fusione di forme, generi e linguaggi diversi, il romanzo di Werfel è, quasi, un archetipo dell’ibrido modernista, in cui la superficie del racconto rifrange infinite possibilità di lettura. Narrazione corale costruita su una documentazione minuziosa, ottenuta da Werfel direttamente dall’ambasciatore tedesco ad Aleppo, Walter Rößler, la storia della strenua resistenza che le popolazioni di un paio di villaggi armeni guidate dallo «straniero» Gabriel Bragadian oppongono alla potenza distruttiva della politica e dell’esercito ottomani arroccandosi sul «monte di Mosè» è, insieme, romanzo di montaggio, racconto mitologico, cantare epico e cronaca di guerra in cui si riflette il destino biblico del popolo ebraico e di tutti i popoli salvati e cancellati dalla storia.
Le saghe e le leggende di molte etnie scorrono nei mille rivoli del romanzo di Werfel, che contamina la Bibbia e l’Iliade in un affresco tolstoiano. E nella lingua del romanzo, in cui l’armeno, il turco, il francese e il tedesco si confondono creando una specie di esperanto delle minoranze di ogni tempo, Werfel traduce l’immagine della propria identità originaria di autore segnato dallo stigma della sua provenienza ebraico-tedesca nel cuore slavo dell’impero asburgico, ovvero della sua identità praghese.

Perché per tutto il Novecento Praga resta un destino infausto. Lo raccontano le biografie dei suoi grandi scrittori non meno di quelle di tanti suoi figli meno famosi. Nelle memorie di Heda Margolius Kovály, che Adelphi, con grande merito, pubblicherà in primavera nell’eccellente traduzione di Silvia Pareschi, Sotto una stella crudele Una vita a Praga 1941-1868, si trova qualcosa di simile a una cronaca postuma della Praga raccontata dai libri.

Unica sopravvissuta della sua famiglia alla deportazione ad Auschwitz con una fuga disperata, Heda Bloch si salva grazie all’aiuto di alcuni partigiani e dell’uomo che sposerà, Rudolf Margolius, che diventato in seguito ministro del commercio estero nel governo comunista di Klement Gottwald, viene condannato a morte come traditore, nel 1952, a seguito del processo intentato dalla fazione filosovietica ai dirigenti politici (per lo più ebrei) vicini all’ex segretario generale del partito Rudolf Slánský.
Rimasta sola, con un figlio, priva di mezzi e costretta dal suo nome alla pericolosissima condizione di disoccupata (vietata per legge nella Repubblica Socialista Cecoslovacca), Heda Margolius sopravvive fino alla riabilitazione postuma del marito, conseguenza della svolta del 1956, in alloggi impossibili, accettando i lavori più umili e in condizioni di salute drammatiche. Ancora una volta si salva grazie all’aiuto di colui che diventerà il suo secondo marito, Pavel Kovály. Finisce per aderire con entusiasmo alla stagione delle riforme di Alexander Dubcek che vede spegnersi con l’invasione dell’agosto 1968 e fugge negli Stati Uniti, dove diventa una famosa traduttrice e autrice.

Solo cinque anni più tardi, ancora una volta da lontano, Heda Margolius Kovály riuscirà a scrivere, in inglese, la storia della sua vita precedente: la «stella crudele» è quella di Praga, la «mammina con gli artigli» di Kafka; la stella della città che da sola ha rappresentato il Novecento europeo e che al suo secolo, insieme alle molteplici forme della sua letteratura, ha restituito qualcosa di simile all’infelicità di una coscienza.

Il manifesto – 22 gennaio 2017

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