Oggi, 19 gennaio 2017, alle 15, nell’aula Odeion dell’Università di Roma La Sapienza, si terrà un incontro sulla nuova edizione di Eros e Priapo, con Paola Italia, Giorgio Pinotti, Andrea Cortellessa e Raffaele Donnarumma
La mano pesante di Gadda. Sul nuovo Eros e Priapo
In una voce d’enciclopedia colla quale –
alla maniera del primo di tutti i gaddisti (e gaddòfili), Gianfranco
Contini – un altro maestro ha voluto suggellare il suo magnifico, breve
quanto concentrato, libro su Gadda (quello uscito la scorsa primavera
nelle «Silerchie» del Saggiatore), Stefano Agosti ha inscritto
l’esperienza del nostro massimo narratore novecentesco sotto l’insegna
dell’indecidibilità: che «intride tutta la pasta espressiva, dai piani profondi a quelli di superficie (la lingua, lo stile)»[1]. Agosti ricorre all’autorità di Derrida – laddove, nel caso in oggetto, più direttamente si può pensare al concetto di compossibilità, che Gadda desumeva dal “suo” filosofo, Leibniz (condendolo, peraltro, di decisivi succhi freudiani). Se per esempio si legge au ralenti la stratificazione lunga e convulsa del capolavoro, il Pasticciaccio,
ci si finisce per convincere che, se dell’assassinio di Liliana
Balducci l’autore non rivela ai lettori il colpevole, è perché,
metafisicamente indeciso appunto fra le due indiziate maggiori, non lo sa neppure lui. (Ancorché, in clausola, Ingravallo – «la sua anima», anzi – «intende»
la verità; in questo senso, come sostenne l’autore, il romanzo è da
intendersi «letterariamente concluso. Il poliziotto capisce chi è
l’assassino e questo basta»[2]. Il poliziotto, si badi: non l’autore.)
Riguardo alla vexata quæstio
dei rapporti col fascismo (al quale Gadda s’iscrisse «antemarcia», nel
’21, alla vigilia dell’esilio da “migrante economico” in Argentina), non
si può non ricorrere a una medesima ermeneutica a soluzioni multiple: l’unica che possa dar conto delle scelte schizoidi di questo io diviso che a buona ragione definì se stesso un «dissociato noètico»[3].
L’identica firma, infatti, appare in calce a una serie di inverecondi
articoli apologetici ed encomiastici nei confronti del regime –
pubblicati sulle sue riviste fra il 1937 e il ’42[4] – ma, in stretta contemporaneità, anche ai «tratti» dell’altro capolavoro, La cognizione del dolore – anch’esso su rivista, l’a-fascista «Letteratura», fra il ’38 e il ’41 –, nel quale assurge a cataclisma d’un cosmo out of joint l’omicidio della «Señora», la madre del protagonista-avatar Gonzalo Pirobutirro, da parte di quei vigilantes, i «Nistitùos provinciales de vigilancia para la noche» – che, nel pastiche sudamericano del romanzo, allegorizzano le squadre fasciste.
Quest’ultima
interpretazione (che, ciò malgrado, io reputo corretta) l’adombra lo
stesso autore: in un’intervista tarda (a Dacia Maraini) dove dichiara
pure, a dimostrare come almeno a far data dal ’34 egli avesse «capito
cos’era il fascismo», di aver scritto Eros e Priapo nel 1928[5]. Datazione quanto mai improbabile, questa invece, dal momento che il testo stesso – sin dal sottotitolo, Da furore a cenere – appare chiaramente scritto a posteriori,
con sguardo orripilato sul mare di macerie lasciato dal fascismo in
eredità allo sventurato paese che d’esso si era macchiato (la redazione
effettiva va dalla metà del ’44 alla fine del ’45, quando gli stessi
umori cominciano a deversarsi nell’altro calderone, nella ben più
controllata partitura del Pasticciaccio).
Consimili ambiguità, proprio, si può opinare abbiano distolto il furibondo pamphlet antimussoliniano dalla parte maggiore dell’immensa bibliografia critica su Gadda: ribadendo a posteriori una sorte avversa che, già in vita, faceva di Eros e Priapo
la «parte maledetta» della sua opera. Prima per i suoi lettori, poi per
se stesso (don Benedetto Croce, nel rigettarne un estratto proposto
alla rivista «Aretusa», lo giudicò «di mano pesante» – riferisce Gadda a
Bonsanti, per aggiungere peraltro: «ed è vero»)[6].
È un fatto che, quando nel ’67 finalmente il libro uscirà, e gli verrà
prospettata una partecipazione al Premio Viareggio che si annuncia
favorevole, Gadda rinuncerà al concorso (già vinto, peraltro, nel ’53
con le Novelle dal Ducato in fiamme) scrivendo a Pietro Citati: «né la vicenda bibliografica esterna di Eros e Priapo […],
né lo strazio disperato della nazione che durò anni e anni, consente di
far seguire alla rovina del paese e ai lutti infiniti della gente un
premio quale che fosse a chi codesto strazio e codesta rovina irosamente
attesta e deferisce allo sdegno dei superstiti. E l’ira dev’esser
cancellata anche nell’animo dell’autore… A nessuno è lecito persistere
vanamente nell’odio e nella rancura»[7]. Lo stralcio è riportato, nel formidabile apparato di note della nuova edizione di Eros e Priapo, da Giorgio Pinotti (il quale ricorda altresì come, del lessema rancura, Gadda non potesse non avvertire il senso di «angoscia» che ha in Dante, nel X del Purgatorio, dove designa «le figure schiacciate dal peso della colpa»; ci tornerò).
Per tutti questi motivi, insomma, Eros e Priapo
è restato sino a oggi, in sostanza, un libro ancora non letto
(ancorché, c’è da ritenere, abbia salato il sangue a diversi dei
«nipotini dell’ingenere» – massime il Manganelli che aveva potuto
leggerne la sezione pubblicata da Pasolini su «Officina», nel 1955-56,
col titolo Il libro delle Furie – e ispirarsene per la forma
trattatistica, e la veste linguistica violentemente oscena, e insieme
squisitamente antiquaria, di Hilarotragoedia)[8].
Una tale sorte singolare si deve pure a
una storia editoriale ancora più labirintica e tormentosa di una media,
per Gadda, proverbiale. E solo il fortunato rinvenimento recente del suo
manoscritto originario presso l’erede, Arnaldo Liberati, ha reso
possibile la formidabile nuova edizione da parte di Giorgio Pinotti e
Paola Italia[9]:
dalla quale, più ancora che negli altri volumi che da qualche anno si
susseguono presso Adelphi, il testo esce completamente rinnovato. Non
starò a riassumere le tortuosissime vicende editoriali (alle quali, dopo
studi annosi, Pinotti dedica 25 fittissime pagine). Basti dire che,
quando nel 1967 il libro finalmente esce da Garzanti (nel maldestro editing, di Enzo Siciliano, che in sostanza si dovette riprodurre nell’editio major
delle opere di Gadda, quella diretta da Dante Isella dei pure
garzantiani «Libri della Spiga»), esso si presenta mutilo di intere
sezioni, misericordiosamente attenuato nella virulenza espressiva,
nonché attribuito a un trasparente eteronimo anagrammatico, «Alì Oco de
Madrigal» (ma resecandone le note erudite che, alla maniera del Castello di Udine, dell’Adalgisa e del Pasticciaccio in rivista, facevano a quel punto parte integrante del testo).
Già nei primi sondaggi era risultata
indigeribile, anche a lettori solidali, la parossistica violenza verbale
del libello; ma Gadda opinò non a torto che, a contribuire al disdoro,
fosse l’assunto metodologico di fondo della sua analisi del fascismo di
matrice latamente freudiana, l’idea cioè che per indagare «una veridica
istoria degli aggregati umani» sia necessario in primo luogo – secondo
un metodo che preferisce ascrivere alla biologia darwiniana –
ricostruire le «latenze» dei loro «appetiti», in specie quelli sessuali.
Cosicché il pamphlet politico si trasforma in trattato
caratteriologico che ha il proprio obiettivo polemico nella tendenza
«autoerotica», cioè nel carattere «narcissico» – così Gadda deforma il
lessico del mai citato Freud – che gli italiani si compiacciono di veder
rispecchiato, e gigantografato, nel loro leader carismatico.
Gli italiani, e soprattutto le italiane. Perché, se Eros e Priapo
resta tuttora un boccone difficile da mandar giù, è soprattutto per
l’esplosiva misoginia che lo percorre. Le «Marie Luise» dei salotti
fiorentini col loro «patriottaggio verbale», a un certo punto, si
sostituiscono allo stesso «Kuce» – quale obiettivo polemico prediletto
del pamphlet. Ricorrendo a uno stereotipo che in nessun senso
fa onore a chi lo usa, Gadda ripetutamente le paragona a oche
starnazzanti, «spiritate oche» (p. 49), «oche-isteriche» (p. 51; e cfr.
ancora p. 32; p. 50; p. 110) la cui «scempia ocaggine […] è stata
caratterizzata dal cumulo, dallo intrefolarsi dei trefoli di latenze
multiple (una più balorda dell’altra), in un unico patriottoso e verbale
canapone, che ha servito ad impiccare la patria reale e la società
reale in pro della patria uterina e della società uterina» (da Le Marie Luise e la eziologia del loro patriottaggio verbale;
mai come in questo caso, peraltro, la furia gaddiana generalizza i suoi
strali con contradditori intenti d’elusiva prudenza, se è vero che il
fascismo è per lui un vero e proprio lessico famigliare: persistente
com’è, anche ben dopo il ’45, nel cognato e, soprattutto, nell’amata
sorella Clara). Il forsennato secondo capitolo del libello accusa il
«cervello-utero» femminile di «ninfomania politica», descrivendo le
donne – tutte le donne – quali minorate ebefreniche in preda a
sempiterna foia duce-centrica (con pointe sintomaticamente
dedotta da Machiavelli: «Io non nego alla femmina il diritto ch’ella
“prediliga li giovini, come quelli che sono li più feroci” cioè i più
aggressivi sessualmente; ciò è suo diritto e anzi dirò suo dovere. Non
nego che la Patria chieda alle femmine, soprattutto, di farsi fottere
con larghezza di vedute. Ma “li giovini” se li portino a letto e non
pretendano acclamarli prefetti e ministri alla direzione d’un paese […].
La politica non è fatta per la vagina: per la vagina c’è il su’ tappo
appositamente conformato dall’Eterno Fattore, ch’è il toccasana de’
toccasana»: il virgolettato, a memoria, è dal celebre XXV del Principe:
«Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo;
perché la fortuna è donna, et è necessario, volendola tenere sotto,
batterla et urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi,
che da quelli che freddamente procedano. E però sempre, come donna, è
amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più
audacia la comandano»).
Nella sua furia analitica Gadda non si
perita di rivendicare, pure, una certa potenza euristica al razzismo
(parola che «ha oggi una pessima stampa in ragione delle turpi
applicazioni che di quelle conoscenze o distinzioni sono state fatte
dalle belve assassine nella sanguinosa storia recente»; ma non per ciò –
opina – si potrà revocare in dubbio che «una certa sodalità e talora
una certa omertà razziale leghi tra loro gli appartenenti non solo a una
determinata razza, o gente: ma anche i nati in una regione»: dacché «il
municipalismo è una forza ancora viva nell’Italia contemporanea: più
che il regionalismo e infinitamente più che l’idea nazionale unitaria»).
Di fatto, allo scopo d’insultare Mussolini per esempio, ricorre al
dettaglio icastico dei «ditoni dieci d’un sudanese inguantato» (e
«l’eros della collettività […] si manifesta quasi sempre in forme
idolatre, degne di una tribù negra»). La sua critica al fascismo,
insomma, è una critica da destra (un po’ come quella al nazismo di
Jünger, o quella al capitalismo liberale da parte di Céline e Pound; non
è affatto un caso che fra gli editori che gli chiesero Eros e Priapo con più insistenza, dopo il successo del Pasticciaccio garzantiano, fosse il fascistissimo Longanesi).
Stando così (e solo così) le cose, i settant’anni di maledizione di Eros e Priapo potrebbero pure continuare indisturbati. Ma la vera e propria pietas
filologica dei suoi editori odierni ce ne fa scoprire un risvolto
segreto, che fa di questo testo – come sempre, in effetti, la parte
maledetta entro l’opera di un grande autore – forse in assoluto la
chiave privilegiata per capirlo, Gadda. Il suo j’accuse, dice bene Paola Italia, va letto piuttosto come un je m’accuse:
che soprattutto nella redazione originaria, dalla quale Gadda volle
espungere ogni riferimento diretto a sé stesso e alla sua esperienza di
«bombardato, mitragliato, spezzonato e preso a cannonate un po’ da
tutti», si capisce essere rivolto non tanto al mai nominato Mussolini
ma, come dice ancora Italia, «a chi – e più che ad altri a sé stesso –
quella peste aveva visto scorrere nelle proprie vene». Non a caso
all’uscita del libro (in una lettera al cugino scrittore Piero) si
sentirà in dovere, Gadda, di esercitarsi in una sintomatica excusatio non petita:
«a mia tenue e, forse, insufficiente scusa, valga il fatto che ero
stato travolto da terribili anni (come tutti); che non avevo avuto la
forza d’animo di affrontarli col necessario eroismo: che, insomma, avevo mancato a tutto, su tutta la linea»[10].
In un intervento tardo (nel ’61, a commento dei fatti d’Algeria) aveva
detto, del resto, che «è necessario vincere il fascismo in noi stessi»[11].
E in una fondamentale lettera a Enrico Falqui del ’46 (sulla quale si
dovrà tornare) così spiegherà Gadda l’inaudita veste linguistica del
libello: «perché la parte di “moralista” (in senso grezzo) mi ripugna,
avendo a mia volta dei peccati da farmi perdonare o da dimenticare io
stesso, implorandone il condono dalla misericordia di Dio». Un autodafè
in forma di autoesame, insomma (ed è significativo che anche l’editore
in un primo momento designato, Mondadori, fosse mosso da consimili
esigenze di “riparazione”: al padre Arnoldo, per spiegare l’opportunità
di pubblicare il testo di Gadda, scriverà Alberto Mondadori il 3 marzo
1945: «essendo stati editori fascisti di periodici, un dovere elementare
di coscienza ci obbligava ad esserlo anche e soprattutto in regime
antifascista e questo per riparare al male che avevamo fatto spargendo
veleno, odio, falsità fra la grande massa del pubblico»). Ma in fondo
Gadda l’aveva spiegato, se l’era spiegato a se stesso, già nelle pagine
del libello: messa mano al «giudicio instituibile sui diportamenti della
banda», si potranno «concedere attenuanti a chi opera sospinto da
impulsi comuni a molti».
La banda è quella dei fascisti, appunto; fra i titoli previsti, in alternativa, c’era appunto quello di Eros e la banda. Il titolo che finì per prevalere, Eros e Priapo, spiega Gadda a Enrico Falqui nell’aprile del ’46 (tentando invano di farne pubblicare una versione intermedia, dal titolo Il bugiardone, alla rivista «Prosa» diretta da Gianna Manzini), deriva dalla Laus Vitæ
di d’Annunzio («il primo libro delle “Laudi”, che ho molto letto a suo
tempo e conosco in gran parte a memoria»): «Il “priàpo” è suo, dove
descrive nello sciopero “il gran demagogo”» (e precisa che d’Annunzio si
sarebbe riferito – nella descrizione del comizio – al socialista
Filippo Turati; Gadda sta citando dal XVIII canto dell’interminabile
poema del 1903 – più d’ottomila versi… –: il Vate si descrive mentre, in
preda ad astratti furori, cammina «nel deserto / delle moltitudini
ansanti […] udendo la voce / della rivolta lontana», quando «lo spirito
del tumulto / passava sferzando la faccia»: «E io vidi allor sul
crocicchio / l’edificatore di bordelli, / figliuolo di non marzia lupa, /
satollo di vituperio, / che s’era estrutto alto luogo / quivi a tener
sue concioni; vidi il gran demagogo, / nomato con nomi di gloria /
Prevaricator sin dal ventre / e Sacco di saggezza / escrementizia e
Frogia / mocciosa della vacca Onta, / sedare il clamore col gesto / per
iscagliar suo verbo / contro a chiunque s’inalzi […] / E tu, sterile
Plebe / che non partorivi, / concepirai pula / e partorirai loppa. / […]
Egli era la sanie coatta / in forma di vafro macaco / nascosto nei
panni il verdiccio / pelo e le chiappe callute. / E le vociatrici
boccute / l’adoravano. Dal capo / alle piante con gli avidi occhi / elle
parean tutto succiarlo / quasi ei fosse tutto priàpo»).
Come già accennato, l’altra fonte diretta – già proficuamente studiata da filologi quali Claudio Vela[12] e da linguisti quali Luigi Matt[13]
– è costituita da Machiavelli. Nella medesima lettera a Falqui spiega
infatti Gadda: «Stilisticamente, l’impalcatura di fondo la devo un po’
(se ci sono riuscito) al Machiavelli: ma venato di popolarismi toscani
d’oggi, e di qualche raro guizzo romanesco e lombardo. Si tratta di una
contaminazione, leggermente caricaturale anche nel contesto e
leggermente parodistica: suggeritami appunto dal Machiavelli, il quale
su un liccio tacitiano trapunge scappatelle toscane e fiorentine de’
suoi giorni e sue». L’«ossessione della prosa toscana» – il suo
«iperfiorentino», come l’ha definito Vela, in analogia a formule come ipergotico nell’arte del restauro[14]
– era significativamente sentita da Gadda congeniale alla sua scrittura
di tipo saggistico, più che a quella narrativa. In un’intervista del
’51, in occasione del “lancio” del Primo libro delle favole (il suo altro testo più vicino, linguisticamente, alla formula di Eros e Priapo),
dirà in effetti Gadda: «sono stato sempre ossesso da questa «prosa»
toscana: anche Dante, Compagni, Machiavelli […] quando devo scrivere in
altra forma, devo stare quindici giorni senza leggere Machiavelli […]
scrivendo racconti o romanzi, cerco di guardarmi il più possibile dalla
tensione della prosa arcaica. Anche per sfuggire a questa tentazione
sono ricorso ai dialetti. Non si tratta solo d’una espressione
naturalistica, ma d’un tentativo di sfuggire a quel più formidabile
dialetto che è la lingua italiana»[15].
Sempre nella lettera a Falqui del ’46 si
legge poi una considerazione preziosa (quanto ai modi della costruzione
“umoristica” della voce narrante – quella definita, dal giovane Gadda
dei cahiers per il Racconto italiano di ignoto del Novecento, «necessità di creazione di una personalità dell’autore»[16] – sulla quale Gian Carlo Roscioni scrisse a suo tempo un saggio fondamentale[17]; proprio il Racconto italiano andrebbe letto a specchio di Eros e Priapo,
per constatare come molte ossessioni concettuali gaddiane si fossero
già fissate in quella sede – prima, si noti, delle più approfondite
letture freudiane –: in quello cioè che è il primo libro di Gadda sul
fascismo, scritto a priori nel ’24-25, anziché a posteriori come Eros e Priapo):
«Io fingo di essere un orecchiante un po’ saputo (forse lo sono
davvero), che prende molto sul serio quel che dice e sé stesso, ma una
certa bischera ingenuità lo fa straparlare un pochino. Ciò quanto al
modo, alla forma. Quanto al pensiero, esso è il mio autentico, e
interamente partecipato». Eros e Priapo ci appare dunque una
sorta di estrema realizzazione del principio “manieristico” della voce
in maschera programmato da Gadda, come s’è visto, sin dagli anni Venti. E
non così lontano (è il caso di aggiungere, data la materia) dai
procedimenti della Scrittura come maschera che Gianni Celati,
in una sua rara pagina del ’71, ha descritto nel già evocato
Louis-Ferdinand Céline, specie quello della trilogia postbellica e dei pamphlets
ominosi: «la maschera d’una insensatezza retriva e contagiosa, la
maschera dell’ossesso che recrimina e insulta senza discriminazione, in
modo stravolto e delirante […] un vero abaissement du niveau mental»[18]. Un «abbassamento» (una certa bischera ingenuità, dice Gadda; un «becero convenzionale», lo definirà Contini nel ’77)[19] che però, è il caso di sottolineare, in Gadda come in Céline non distoglie affatto la lettera dal pensiero dell’autore (esso è il mio autentico, e interamente partecipato).
Ma quello di Machiavelli, per questo
Gadda, non è modello meramente stilistico. Suo intento nel libello, dice
infatti, è di adire «Una veridica istoria degli aggregati umani e de’
loro appetiti, dico una storia erotica dell’uman genere e degl’impulsi
fagici e de’ venerei che lo suspingono ad atti, e delle loro
sublimazioni o pseudo-sublimazioni pragmatiche»: questa «veridica
istoria degli appetiti e degli impulsi delle anime! e degli aggregati di
anime!», prosegue Gadda, più che la storiografia vera e propria a
raccontarla è «quel genere di scritture che dimandiamo “romanzi”, e
confessioni, ed autobiografie, o lettere di madama a madama». Ci si
ricorda allora che il suo “romanzo” che più si avvicina allo status di “confessione, e autobiografia”, La cognizione del dolore, aveva preso il suo titolo – come vide Emilio Manzotti nel suo commento[20] – dal proemio ai Discorsi sulla prima teca di Tito Livio, e dalla dedicatoria del Principe.
E infatti, citando l’altrove detestato Foscolo, prorompe Gadda:
«“Italiani! io vi esorto alle istorie!” […] Sì, sì, vi esorto alle
istorie. Pure io. Mo’ arriva la mia». Questa storia dell’Io, mescolata
inestricabilmente a quella della nazione, tuttavia «non è la istoria del
Logos […]. È il povero atto di chi leva la sua lampada sopr’alle cose e
al loro abominato coacervo […] in un atto di dolorosa cognizione» (corsivo mio). Come dice Paola Italia, l’esito del pamphlet è quello «quasi di un moderno Principe
che andasse al cuore e del problema del potere». O tale poteva essere –
si può postillare – ove la veste del libello fosse rimasta quella
originaria: questa che solo oggi, invece, possiamo leggere.
Solo in questo pasticcio di
modo autobiografico e modo storiografico, infatti, il testo si può
davvero cominciare a leggerlo, annota sempre Italia, quale «atto di
(auto)denuncia e insieme un’autobiografia nazionale, che indaga le
ragioni profonde della storia recente di un intero popolo». Così ha
fatto per esempio Fabrizio Gifuni nei fortunati spettacoli gaddiani
degli ultimi anni, nei quali ha messo acutamente in cortocircuito
l’odissea del soldato Gadda nella Grande guerra con quella dello
sfollato e recriminante Gadda del ’44-45 (L’ingegner Gadda va alla guerra[21];
va notato come in una delle diverse riscritture nel corso del tempo
messe in cantiere da Gadda, del libello, egli parli di un «rospo» da
«buttar fuora», e precisi: «il rospaccio che m’ha oppilato lo
stomaco trent’anni»: facendone dunque ascendere le latebre generanti,
«gli oscuri cammini», appunto alla ferita d’origine del ’15-18). Come
scrisse una volta con grande intuizione il compianto Robert Dombroski,
l’unica giustificazione degli eccessi non solo stilistici di Eros e Priapo andrà indicata proprio nella sua valenza segretamente (nella veste dimidiata della vulgata)
autoriferita: «l’aggressione costituisce in larga misura un attacco
contro le pulsioni narcisistiche presenti nel sentimento antidemocratico
e filofascista di Gadda stesso», e va letta come «una sorta di
esorcismo, come una satira diretta contro l’io»[22].
Nel riammettere a testo tutte quelle tangenze personali prudentemente espunte dalla vulgata, il restauro adelphiano consente insomma di leggere Eros e Priapo (o,
per meglio dire, il macrotesto costituito dai diversi avantesti e,
diciamo, peritesti che ad esso fanno riferimento) come la più
rivelatoria delle diverse, tutte parziali e variamente mistificate,
autobiografie, nonché della nazione, di questo suo sventurato cittadino.
In nessun testo quanto in questo, in effetti, Gadda si spinge più
vicino al coming out circa l’altro grande segreto della sua
vita, l’altro suo senso di colpa mai espresso appieno, quello relativo
alla propria omosessualità. Gli indizi in tal senso, nel testo (e
specie, si capisce, nella sua versione originaria), sono numerosi; e la
loro discussione va di necessità rimandata ad altra sede. Nella parziale
riscrittura affidata a Pasolini per «Officina», Il libro delle Furie,
sostiene Gadda, per esempio, che «senza una componente omoerotica nella
psiche del singolo non è pensabile la vita associata» e nemmeno una
corretta formazione della personalità individuale: «Il giovine, specie
fra gli otto e i diciott’anni, ma anche prima e dopo, tende a
trasfigurarsi in un eroe-modello della di cui immagine, per lo più, s’è
invaghito, secondo un meccanismo che è narcissico ovvero autoerotico, e
ad un tempo necessariamente omoerotico». Mentre nell’accesso più
violentemente misogino, nelle Marie Luise e la eziologia del loro patriottaggio verbale,
si lancia in questo davvero incredibile ragionamento (sempre collegato,
però, al teorema di un vincolo omoerotico alla base della vita associata) sullo «scarso entusiasmo militare degli italiani» (un chiodo fisso, per il Gaddus, dai tempi del Giornale di guerra e di prigionia):
«La loro vanità, il loro esasperato e scempio narcisismo, il loro tetro
e torvo municipalismo, complicato da spaventosi complessi di
inferiorità, la nessuna adesione all’idea unitaria, la loro spiccata e
naturalmente commendevole eterosessualità, (per cui corrono a donna e
mal sopportano i contubernali, sodali, commilitoni, ecc.) il carattere
geloso-piagnoso-frinfrinante delle loro esuberazioni erotiche, li
rendono, per lo più, dei pessimi militari».
Se le detesta tanto, le italiane che
quel Duce «già principiavano invulvarselo, appena discese d’altare […],
sognando fasti e roteanti prodezze del manganello educatore» (così si
legge nel coevo giallo romanesco), è forse perché nelle dinamiche
erotiche profonde sapeva, oscuramente sapeva, che non erano così lontane
da sé. Quelle «ochette», quelle «oche-steriche», quelle «spiritate
ochette». Non aveva più le energie necessarie, il Gadda ’67, per
restaurare come avrebbe voluto quel «vecchio relitto sgradevole e rozzo»
(come lo definisce scrivendo sempre al cugino Piero)[23].
L’unico colpo di pollice che si riserva – lo si accennava – è
l’invenzione di quell’autore fittizio, quell’eteronimo. Colui al quale
dà il nome, già, di «Alì Oco De Madrigal».
[Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Tuttolibri»]
[1] Stefano Agosti, Indecidibilità, in Id., Gadda ossia Quando il linguaggio non va in vacanza,
Milano, il Saggiatore, 2016, p. 74. Ogni citazione non diversamente
segnalata va intesa dai testi e avantesti raccolti in Carlo Emilio
Gadda, Eros e Priapo. Versione originale, a cura di Paola Italia e Giorgio Pinotti, Milano, Adelphi, 2016 (pp. 451, € 24).
[2] Carlo Emilio Gadda come uomo, intervista a Dacia Maraini [1968], in Carlo Emilio Gadda, «Per favore, mi lasci nell’ombra». Interviste 1950-1972, a cura di Claudio Vela, Milano, Adelphi, 1993, pp. 154-74: 172.
[3]
«L’io rappresentatore-creatore veduto nella sua saldezza, e nella
fissità centrica che è propria di quel cavicchio ch’egli è, circonfuso
d’un tempo stolido e inerte, a versar luce nella tenebra come riflettore
nelle paure della notte, è idolo tarmato, per me. Codesto bambolotto
della credulità tolemaica, in ogni modo, non ha nulla di comune con la
mia identità di ferito, di smarrito, di povero, di “dissociato noètico”.
D’intorno a me, d’intorno a noi, il mareggiare degli eventi mortiferi,
il dolore, il lento strazio degli anni. Il concetto di volere si
abolisce, nel lento impossibile. L’oceano della stupidità»: Carlo Emilio
Gadda, Come lavoro [1950], in Id., I viaggi la morte, Milano, Garzanti, 1958; ora in Id., Opere, edizione diretta da Dante Isella, vol. III, Saggi giornali favole I, Milano, Garzanti, 1991, pp. 427-43: 431.
[4] Cfr. Carlo Emilio Gadda, I Littoriali del Lavoro e altri scritti giornalistici 1932-1941, a cura di Manuela Bertone, Pisa, Ets, 2005.
[5] Carlo Emilio Gadda come uomo, cit., in Carlo Emilio Gadda, «Per favore, mi lasci nell’ombra». Interviste 1950-1972, cit., p. 168.
[6] Ci si ricorda, ancora, di Come lavoro
(cit., p. 429): «Fatti fisici, urti e strappi, lacerazioni del sentire,
violenze e pressioni dal «di fuori», ingiurie e sturbi dal caso, dagli
«altri», coartazioni del costume, inibizioni ragionevoli e
irragionevoli, estetiche ed etiche, dal mondo non nostro, eppure
divenute nostre come per contagio, voi vedete, pesano siffattamente
sull’animo, sull’intelletto, che l’uscire indenni dal sabba non ci è
dato. Non mi è dato affermare. La limpidità naturale dell’affermazione
più nostra, più vera, è devertita ed è imbrattata in sul nascere. Una
mano ignota, come di ferro, si sovrappone alla nostra mano bambina,
regge senza averne delega il calamo: lo conduce ad astinenti lettere e
pagine, e quasi alle menzogne salvatrici».
[7] Carlo Emilio Gadda, Un gomitolo di concause. Lettere a Pietro Citati (1957-1969), a cura di Giorgio Pinotti, Milano, Adelphi, 2013, p. 84.
[8]
Tra i pregi dell’edizione adelphiana c’è pure la riproposizione – per
la prima volta dal ’55 – di un “testimone chiave” del nostro Novecento
letterario quale appunto Il libro delle Furie. Che, come annota Giorgio Pinotti, ci fa intuire «quel che avrebbe potuto essere e non è stato: un Eros e Priapo rivisto e portato a compimento» (il rifacimento gaddiano si limitò infatti, in quell’occasione, al solo capitolo III del pamphlet).
[9] Ancora differente, infatti, rispetto a quella prospettata dagli stessi in Edizioni d’autore coatte: il caso di Eros e Priapo (con l’originario primo capitolo, 1944-46), in «Ecdotica», 5 (2008), pp. 7-102.
[10] Piero Gadda Conti, Le confessioni di Carlo Emilio Gadda, Milano, Pan, 1974, p. 140.
[11] Carlo Emilio Gadda, Date una carabina a un ragazzo [1961], in Id., Opere, edizione diretta da Dante Isella, vol. III, cit., pp. 1181-2.
[12] Cfr. Claudio Vela, Un caso di «ossessione» della prosa toscana: Machiavelli in Gadda, in Per Carlo Emilio Gadda, atti del Convegno di Pavia, 22-23 novembre 1993, numero monografico di «Strumenti critici», IX, 2, maggio 1994, pp. 177-94.
[13] Cfr. Luigi Matt, Fiorentino antico e vernacolo moderno in «Eros e Priapo» di C.E. Gadda, in «Studi linguistici italiani», XXIV, 1, 1998, pp. 51-89; Id., Invenzioni lessicali gaddiane. Glossarietto di «Eros e Priapo», in «Quaderni dell’ingegnere», 3, 2004, pp. 97-182.
[14] Claudio Vela, Un caso di «ossessione» della prosa toscana: Machiavelli in Gadda, cit., p. 193.
[15] Gadda cerca il «giallo», intervista a Massimo Franciosa [1951], in Carlo Emilio Gadda, «Per favore, mi lasci nell’ombra». Interviste 1950-1972, cit., pp. 24-31: 30. Va poi ricordata un’ulteriore possibile ascendenza segnalata da Luigi Matt, Il libro delle Furie gaddiane: «Eros e Priapo», in «Avanguardia», II, 2, 1997, pp. 128-36 e ripresa dallo stesso in Id., Gadda. Storia linguistica italiana, Roma, Carocci, 2006, p. 127. Si tratta del LXXIV dei Pensieri
di Leopardi, che inizia così: «Verso gli uomini grandi, e specialmente
verso quelli in cui risplende una straordinaria virilità, il mondo è
come donna. Non gli ammira solo, ma gli ama: perché quella loro forza
l’innamora. Spesso, come nelle donne, l’amore verso questi tali è
maggiore per conto ed in proporzione del disprezzo che essi mostrano,
dei mali trattamenti che fanno, e dello stesso timore che ispirano agli
uomini». L’ipotesi è avvalorata dalla circostanza che nel testo di Eros e Priapo figura un’esplicita citazione dal I dei Pensieri («Te t’hai a legger di Giacomo, dico del gran conte Liopardo, a’ Pensieri,
I, verso i’ ffine:», cioè quando Leopardi scrive: «Anche sogliono
essere odiatissimi i buoni e i generosi perché ordinariamente sono
sinceri, e chiamano le cose coi loro nomi. Colpa non perdonata dal
genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male
stesso, quanto chi lo nomina. In modo che più volte, mentre chi fa male
ottiene ricchezze, onori e potenza, chi lo nomina è strascinato in sui
patiboli, essendo gli uomini prontissimi a sofferire o dagli altri o dal
cielo qualunque cosa, purché in parole ne sieno salvi»); ma è
verosimile direi, per il LXXIV, una filiazione comune di Leopardi e
Gadda dal luogo citato di Machiavelli.
[16] Carlo Emilio Gadda, Racconto italiano di ignoto del Novecento [inedito del 1924-1925], a cura di Dante Isella, Torino, Einaudi, 1983; ora in Id., Opere, edizione diretta da Dante Isella, vol. V, Scritti vari e postumi, Milano, Garzanti, 1993, pp. 381-613: 479.
[17] Cfr. Gian Carlo Roscioni, Gadda umorista [1993], in Id., La disarmonia prestabilita. Studi su Gadda, Torino, Einaudi, 19953, pp. 197-213.
[18] Gianni Celati, La scrittura come maschera, postfazione all’edizione a cura sua e di Lino Gabellone di Louis-Ferdinand Céline, Colloqui col professor Y [1955], Torino, Einaudi, 1971, pp. 105-10: 106.
[19] Gianfranco Contini, Espressionismo letterario [1977], in Id., Ultimi esercizî ed elzeviri (1969-1987), Torino, Einaudi, 1989, pp. 41-105: 96.
[20] Cfr. Emilio Manzotti, commento all’edizione a sua cura di Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, Torino, Einaudi, 1987, pp. 422-3n.
[21] Anche in un dvd minimum fax del 2012, Gadda e Pasolini: antibiografia di una nazione.
[22] Robert S. Dombroski, Gadda e il fascismo, in Id., Gadda e il barocco, traduzione di Angelo R. Dicuonzo, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, pp. 124-40: 135 e 137.
[23] Piero Gadda Conti, Le confessioni di Carlo Emilio Gadda, cit., p. 140.
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