13 gennaio 2017

IL POTERE SECONDO S. WEIL



Il potere secondo Simone Weil

di

La casa editrice Chiarelettere, nella sua collana Biblioteca Chiarelettere, dopo la riproposizione di libri importanti quali La scuola della disobbedienza di Don Lorenzo Milani o La vita è bella di Leon Trotsky, ripubblica alcuni testi di Simone Weil sotto l’emblematico titolo Il libro del potere. La raccolta, curata e introdotta da Mauro Bonazzi, accoglie al suo interno tre testi che segnano con forza l’itinerario del pensiero della filosofa francese: Iliade o il poema della forza, Non ricominciamo la guerra di Troia e L’ispirazione occitana.
Questi tre testi, accomunati dalla ripresa di temi e vicende dell’antichità, da Omero alla Grecia classica fino all’età del Cristianesimo eretico, vivono tutti della stessa forza, quella di un radicalismo che è condizione necessaria e fondamentale per dare un senso alla propria esistenza. Esempio lampante di questo radicalismo che regola anche il vivere quotidiano, è il famoso episodio biografico che vede Weil lavorare in fabbrica, colpendo la sua già fragile salute, per capire il mondo operaio e poter scrivere un testo realmente aderente alla realtà, La condizione operaia, dove scriverà: «solo là si conosce che cos’è la fraternità umana. Ma ce n’è poca, pochissima. Quasi sempre le relazioni, anche tra compagni, riflettono la durezza che, là dentro, domina su tutto».
In questa scelta di una vita «lontana dai bagni caldi», come scrive nel testo sull’Iliade, sta la missione della sua vita, che andava vissuta accanto a chi combatteva la povertà e lottava per ottenere giustizia e libertà. In apertura alla sua introduzione, Mauro Bonazzi riporta le poche, ma assai centrate, parole attraverso cui Claude Lévi-Strauss descrisse Simone Weil: «le intellettuali della nostra generazione erano spesso eccessive: lei non faceva eccezione, ma ha spinto questo rigorismo fino a farsi distruggere».
In questi tre testi, e in ognuno con una diversa angolazione, emerge con grande intensità il rifiuto assoluto di Simone Weil della forza come fattore per dominare il mondo. Lo sforzo intellettuale della filosofa è quello di andare ad indagare, servendosi in questo caso della cultura classica, la discrepanza che lei avverte nella modernità, ovvero quello scollamento dell’uomo dalla realtà in cui vive che lo porta a ritagliarsi un posto di privilegio verso gli altri uomini più deboli e, ovviamente, nei confronti della natura e degli animali.
Non è affatto inutile ricordare che il testo sull’Iliade viene scritto da Weil nel 1939, negli anni bui del secondo conflitto mondiale, nell’epoca che lei stessa definisce nel testo «di sedicente tecnica», in cui l’uomo crede di combattere per validi e necessari motivi, ma che invece lo vedono semplicemente «battersi contro mulini a vento». La grandezza di questi saggi, e a dire il vero di tutta l’opera di Simone Weil, sta in questo sguardo disilluso, che non la conforterà mai dai dolori della sua vita, ma che è uno sguardo che oggi è necessario, per tentare di andare oltre gli slogan di grandi parlatori e scrittori e tentare di rispondere alla ineludibile domanda di cosa è la realtà intorno a noi, di confrontarci con chi la pensa in maniera differente e di fare ordine nel caos quotidiano.
Quando l’uomo non sa darsi risposte, c’è una tentazione che sempre avvicina chi non sopporta la complessità: l’uso della forza e della violenza, una scorciatoia semplice e diretta che permette di pareggiare i conti con il nemico, con chi non è allineato ed è più debole e quindi facile da schiacciare. Non si tratta di un pensiero di cui vergognarsi, perché, come dimostra anche la tradizione letteraria occidentale che prende vita con l’Iliade, si tratta di un’opzione presente sin dai tempi più antichi. Che cos’è infatti il poema omerico se non il racconto di uno scontro tra due eroi, Ettore e Achille, all’interno di una guerra tra due popoli? Eppure, la lettura di Simone Weil del poema, porta a ripensare questa caratteristica o, quantomeno, a rivalutare il ruolo che la forza gioca o deve giocare nelle tensioni perché, ed è questa la portata rivoluzionaria di questo scritto, si tratta di una soluzione debole.
Weil analizza come tutti i protagonisti dell’Iliade facciano uso della forza, ma mostra come attraverso questo mezzo tutti escano, in un modo o nell’altro, sconfitti, come Achille che per dominare Agamennone assisterà alla morte del suo più grande amico Patroclo. Perché in Omero la forza è la prima protagonista, ma chi ne vuole fare uso ne subisce i risvolti e ne viene dominato e l’esito è sempre differente dalle attese. La forza quindi assume un carattere sfuggevole, perché tutti quelli che ne approfittano pensano di poter manovrare la realtà ma, come la storia con i suoi cicli dall’età di Omero ad oggi dimostra, non è così: a vincere, nell’Iliade, ma anche nella nostra realtà, alla fine è solo la guerra che rappresenta l’emblema della miseria umana, i limiti del suo essere e l’emergere di una spinta incontrollabile che prende il suo animo. Alla fine del poema omerico, ciò che salta agli occhi, è che non c’è alcuna differenza tra chi uccide, sentendosi così libero e dominatore, e chi viene ucciso perché, come scrive Simone Weil, «anche se ci illudiamo di maneggiarla, la forza si può soltanto subire. Il destino di chi uccide è di essere ucciso a sua volta».
Per il suo carattere, Simone Weil non poteva certo fermarsi davanti a questo punto di non ritorno, ambiguo e non certo risolvibile. Attraverso l’esperienza della fabbrica, ma anche come militante repubblicana nel 1936 in Spagna, Weil capirà che l’investimento più importante e più fruttuoso per tentare di capire questa realtà violenta in cui si trova a vivere, sia quello di restituire un significato reale al linguaggio sociale e politico, in un momento in cui, non troppo differentemente dalla nostra modernità, il linguaggio, specchio delle modalità di vivere dell’uomo, si stava scollando sempre più dalla realtà, per apparire vuoto e privo di significato, impossibile portatore di una comunicazione. Il saggio Non ricominciamo la guerra di Troia nasce proprio da questa esigenza, ovvero quella, riprendendo il discorso iniziato con il saggio sull’Iliade e proseguito con il successivo L’ispirazione occitana, di sottoporre ad una revisione critica tutto il percorso della civiltà occidentale, alla ricerca delle cause della tragedia contemporanea.
Per ovviare a questa demistificazione linguistica che segna l’uomo, l’unica via di uscita è quella di una ricerca continua della verità, modo esclusivo per contrapporsi al dilagare della forza e della violenza. L’arma principale di un intellettuale è la parola, e proprio dalle parole, come detto, riparte Weil, perché è distorcendole, come annota Bonazzi, che ci creiamo delle barriere per proteggerci dagli altri. Parlando della sua contemporaneità, e di parole come comunismo, fascismo o sicurezza, Weil scrive: «Mettiamo la maiuscola a parole prive di significato e, alla prima occasione, gli uomini spargeranno fiumi di sangue, accumuleranno rovine su rovine ripetendo quelle parole, senza mai ottenere davvero qualcosa di corrispondente; niente di reale può davvero corrispondere a queste parole, poiché non significano niente». In questa dura constatazione di Weil, che va a minare le certezze del vivere comune umano, risiede la sua grande carica rivoluzionaria, e non è difficile avvertire il riverbero di questo pensiero nella nostra contemporaneità, dove le parole diventano un semplice paravento per proteggersi dalle difficoltà o per trovare improbabili giustificazioni.
Da grande e, anche qui, radicale pacifista, Weil non fuggirà per esempio dalla guerra di Spagna, o dall’impegno, prima di morire, per la liberazione francese: saranno state scelte difficili ma sempre portate avanti attraverso quell’indagine puntuale e inderogabile della realtà, quell’invito all’azione e alla conoscenza che ne fa una luce nell’oscurità di oggi: «Agiamo, lottiamo, sacrifichiamo noi stessi e gli altri in virtù di astrazioni cristallizzate, isolate, che è impossibile mettere in rapporto tra loro e con le cose concrete».

 Da  http://www.minimaetmoralia.it/

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