25 gennaio 2017

DONNE E PITTURA NEL 600

Artemisia Gentileschi, Autoritratto


In un mondo maschile come la Roma seicentesca per una donna era quasi impossibile essere un'artista. Artemisia Gentileschi ci riuscì e non fu la sola.

Francesca Cappelletti

Artemisia e le sue sorelle

«Perché il nome di donna fa star in dubbio, sinché non si è vista l’opra»: così scrive, ancora nel 1649, quasi a conclusione di una lunga carriera, Artemisia Gentileschi a uno dei suoi più importanti committenti degli ultimi anni, il nobile siciliano Antonio Ruffo, collezionista intelligente e ambizioso, unico in Italia a far arrivare dall’Olanda un dipinto di Rembrandt per la sua raccolta.

La pittrice, anzi la “pittora”, gloria del suo secolo, viveva in quel momento a Napoli ed era alle prese con opere, come la Galatea e la Diana, dai soggetti femminili e mitologici. Non un caso: al suo nome rimaneva legata la raffigurazione della bellezza delle donne e non è affatto escluso che, fin dai decenni precedenti, i suoi committenti si augurassero di esporre nelle quadrerie non solo un’opera della più celebre artista donna di quegli anni, ma anche lei stessa, le sue fattezze che incisioni, racconti e dicerie facevano circolare negli ambienti degli artisti e delle corti.

Artemisia, oggi celebrata a Roma dalla mostra a palazzo Braschi, protagonista di romanzi e di film, era nata a Roma nel 1593, figlia di Orazio Gentileschi, pittore elegante e controverso. Artemisia era la più grande dei figli di Orazio, rimasto presto vedovo.

Nella casa bottega di via Margutta, dove i Gentileschi approdano dopo aver cambiato più volte indirizzo, Orazio insegna a dipingere ad Artemisia e, conscio dei pericoli che poteva correre una ragazza senza madre e con un talento precoce per la pittura, cerca di proteggerne la giovinezza, ricorrendo a vicine di casa, lontane parenti, lavandaie. Artemisia, con un nome altisonante in un povero vicinato, cresce in un luogo affollato di apprendisti, frequentato da possibili acquirenti, in cui si fermano gli amici artisti del padre, fra i quali quel cattivo soggetto per eccellenza, Agostino Tassi, che aveva subito processi a Pisa, Livorno, Firenze e Roma, già nel fatidico 1611.

L’episodio più noto della vita di Artemisia è proprio, nel maggio del 1611, lo stupro da parte di Agostino e il processo, che suo padre intenta al pittore, con cui in quel momento collaborava. Drammatici e raccapriccianti, gli atti del processo descrivono un prevedibile ambiente malsano in cui Artemisia era precipitata, rifiutando di entrare in convento e sperando, fino a un certo punto, di sposare il Tassi.
Agostino era accusato di aver fatto uccidere la moglie, di commettere incesto con la cognata, era succube di uno dei sordidi personaggi dell’intera vicenda, quel Cosimo Quorli che proclamava di essere il padre naturale di Artemisia e aveva tentato, nonostante questo, di violentarla più volte. Era infatti riuscito a farsi consegnare dal Tassi un dipinto, una Giuditta “di capace grandezza” che la stessa Artemisia gli aveva dato.

Questo dipinto non è identificato con certezza, ma è singolare che uno dei primi soggetti dipinti da Artemisia sia una Giuditta, che immaginiamo caravaggesca. Era un soggetto di moda ai tempi, ma anche adatto a una donna: Fede Galizia, lombarda pittrice di vellutate nature morte e di quadri devozionali, aveva firmato una Giuditta con una veste di dettagliata raffinatezza nel 1601; un anno prima Lavinia Fontana, figlia del bolognese Prospero, aveva firmato e datato la Giuditta e Oloferne del museo Davia Bargellini, replicata anche in una seconda versione.

La Giuditta di Artemisia, forse cominciata da suo padre, doveva precedere la Susanna con i vecchioni di Pommersfelden, firmato e datato 1610, un dipinto straordinario per una diciassettenne, raffinato nella rappresentazione del nudo femminile così come nelle espressioni concitate e nei gesti significativi dei protagonisti. Chissà se non sia stato eseguito anche questo in collaborazione con il padre; quel padre che la incoraggiava a dipingere, che forse lasciandole firmare il quadro voleva lanciarla sul mercato romano, che nel processo verrà accusato di aver fatto posare nuda la figlia.
    Lavinia Fontana

Come la pittura si intrecci alle vicende terribili dei vari personaggi e alla ricostruzione dei fatti che avviene in tribunale, e come sia l’elemento decisivo della vita della Gentileschi, quello che ne provoca la tragedia e insieme la illumina e la salva, emerge continuamente dagli atti giudiziari. Da questi si evince la dedizione alla pittura della ragazza, che disegna dal vero la vicina di casa e i suoi figli; sempre dagli atti giudiziari arriva il racconto della violenza di Agostino, che letteralmente la strappa al dipinto che stava eseguendo e le grida di smettere di dipingere. Il processo si chiuse probabilmente senza una sentenza, ma con Artemisia sposata, un anno dopo, a un conoscente e trasferita alla corte fiorentina. Sono gli anni del successo, delle commissioni prestigiose, comeL’Inclinazione per casa Buonarroti, delle lettere appassionate che scrive a Francesco Maria Maringhi, gentiluomo fiorentino, ritrovate recentemente da Francesco Solinas.

Lei che dichiarava pochi anni prima di saper leggere un poco, ma di non saper scrivere, è ora abile nelle lettere d’amore, così come in quelle al granduca, poi a Galileo, a Cassiano dal Pozzo, nell’affermare il suo valore di artista, nell’argomentare le sue ragioni quando chiede di essere ricompensata, nell’incessante richiesta di denaro all’amante, agli amici, ai committenti. Ribadisce ad ogni passo il suo desiderio di affermazione sociale, malgrado l’inconsistenza del marito, l’assenza del padre, la minaccia della cattiva fama che la perseguitava. Nessuna delle poche artiste celebri sue contemporanee aveva dovuto lottare così per costruire la propria immagine e sottrarsi al ruolo di vittima nel quale alcuni studi la costringono ancora oggi.

Lavinia Fontana era cresciuta anche lei alla scuola del padre pittore, nella Bologna del secolo precedente, ma si era fatta conoscere per gli autoritratti e aveva condotto una vita coniugale esemplare, amata e assistita dal marito. L’autoritratto di Lavinia in occasione del fidanzamento, eseguito nel 1577, la raffigura orgogliosamente artista, ma giovane onorata e composta, di una bellezza tranquillizzante. Aveva avuto una lunga carriera, conclusasi a Roma; nel 1611, mentre Artemisia si dibatteva nella relazione con il Tassi, il famoso Angelo Casoni dedicava alla Fontana una medaglia celebrativa; ma anche Lavinia, nelle grazie dei teologi controriformati, esercitava un fascino leggendario sui contemporanei, se di lei si innamorò anche l’ambasciatore persiano a Roma.
    Sofonisba Anguissola

 Allo stesso modo la fama della cremonese Sofonisba Anguissola aveva attraversato l’Europa dalla metà del Cinquecento. Autrice di autoritratti, ritratti di familiari e di bambini all’inizio della carriera, proveniva da una famiglia aristocratica; il padre anche in questo caso fu determinante, con il suo amore per le arti, nell’avviarla alla pittura. Gran personaggio a cavallo di due seco- li, Sofonisba viaggiò per le corti e sposò Francesco Moncada, il fratello del vicerè di Sicilia, trasferendosi a Palermo. Rimasta vedova, durante il viaggio di ritorno a casa, incontrò il futuro marito, Orazio Lomellini e si spostò con lui a Genova. Vedova ancora una volta e di ritorno a Palermo si rivela una figura non omologabile, in grado di ricevere ancora, nel 1623, il giovane Anton van Dyck e di pregarlo di modulare la luce mentre eseguiva il suo ritratto di novantaduenne.

Con queste pittrici, oltre all’ammirazione dei contemporanei, Artemisia sembra avere poco in comune, nelle sue avventure di donna indipendente e sostanzialmente sola, che da sola deve badare a se stessa, raggiungendo in Inghilterra il padre malato nel 1638, sistemando le figlie con una dote decorosa, perennemente alla ricerca della gloria e del denaro. Si celebra poco attraverso gli autoritratti, a meno di non considerare tali i volti che presta alle sue eroine, almeno fino agli anni Trenta del secolo.

Giuditte, Cleopatre, le donne forti del mito e della Bibbia, che, fedele al suo apprendistato romano di pittura dal naturale, continuava a dipingere dal modello vivente. Ma qualche autoritratto è noto ed è meno ufficiale e celebrativo di quelli di Lavinia e Sofonisba. Nell’Allegoria della pittura delle collezioni reali inglesi Artemisia appare spettinata, mentre dipinge, con il braccio levato verso la tela, con il corpo proteso verso l’opera e la collana d’oro, emblema del riconoscimento sociale dei pittori, a metà strada fra lei e il dipinto, da cui nessuno può più allontanarla, né Agostino Tassi, né le difficoltà della vita, né la paura dell’infamia.

La repubblica – 17 gennaio 2017

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