Artemisia Gentileschi, Autoritratto
In un mondo maschile come la Roma seicentesca per una donna era quasi
impossibile essere un'artista. Artemisia Gentileschi ci riuscì e non fu
la sola.
Francesca Cappelletti
Artemisia e le sue
sorelle
«Perché il nome di
donna fa star in dubbio, sinché non si è vista l’opra»: così
scrive, ancora nel 1649, quasi a conclusione di una lunga carriera,
Artemisia Gentileschi a uno dei suoi più importanti committenti
degli ultimi anni, il nobile siciliano Antonio Ruffo, collezionista
intelligente e ambizioso, unico in Italia a far arrivare dall’Olanda
un dipinto di Rembrandt per la sua raccolta.
La pittrice, anzi la
“pittora”, gloria del suo secolo, viveva in quel momento a Napoli
ed era alle prese con opere, come la Galatea e la Diana, dai soggetti
femminili e mitologici. Non un caso: al suo nome rimaneva legata la
raffigurazione della bellezza delle donne e non è affatto escluso
che, fin dai decenni precedenti, i suoi committenti si augurassero di
esporre nelle quadrerie non solo un’opera della più celebre
artista donna di quegli anni, ma anche lei stessa, le sue fattezze
che incisioni, racconti e dicerie facevano circolare negli ambienti
degli artisti e delle corti.
Artemisia, oggi celebrata
a Roma dalla mostra a palazzo Braschi, protagonista di romanzi e di
film, era nata a Roma nel 1593, figlia di Orazio Gentileschi, pittore
elegante e controverso. Artemisia era la più grande dei figli di
Orazio, rimasto presto vedovo.
Nella casa bottega di via
Margutta, dove i Gentileschi approdano dopo aver cambiato più volte
indirizzo, Orazio insegna a dipingere ad Artemisia e, conscio dei
pericoli che poteva correre una ragazza senza madre e con un talento
precoce per la pittura, cerca di proteggerne la giovinezza,
ricorrendo a vicine di casa, lontane parenti, lavandaie. Artemisia,
con un nome altisonante in un povero vicinato, cresce in un luogo
affollato di apprendisti, frequentato da possibili acquirenti, in cui
si fermano gli amici artisti del padre, fra i quali quel cattivo
soggetto per eccellenza, Agostino Tassi, che aveva subito processi a
Pisa, Livorno, Firenze e Roma, già nel fatidico 1611.
L’episodio più noto
della vita di Artemisia è proprio, nel maggio del 1611, lo stupro da
parte di Agostino e il processo, che suo padre intenta al pittore,
con cui in quel momento collaborava. Drammatici e raccapriccianti,
gli atti del processo descrivono un prevedibile ambiente malsano in
cui Artemisia era precipitata, rifiutando di entrare in convento e
sperando, fino a un certo punto, di sposare il Tassi.
Agostino era accusato di
aver fatto uccidere la moglie, di commettere incesto con la cognata,
era succube di uno dei sordidi personaggi dell’intera vicenda, quel
Cosimo Quorli che proclamava di essere il padre naturale di Artemisia
e aveva tentato, nonostante questo, di violentarla più volte. Era
infatti riuscito a farsi consegnare dal Tassi un dipinto, una
Giuditta “di capace grandezza” che la stessa Artemisia gli aveva
dato.
Questo dipinto non è
identificato con certezza, ma è singolare che uno dei primi soggetti
dipinti da Artemisia sia una Giuditta, che immaginiamo
caravaggesca. Era un soggetto di moda ai tempi, ma anche adatto a una
donna: Fede Galizia, lombarda pittrice di vellutate nature morte e di
quadri devozionali, aveva firmato una Giuditta con una
veste di dettagliata raffinatezza nel 1601; un anno prima Lavinia
Fontana, figlia del bolognese Prospero, aveva firmato e datato la
Giuditta e Oloferne del museo Davia Bargellini, replicata anche
in una seconda versione.
La Giuditta di
Artemisia, forse cominciata da suo padre, doveva precedere
la Susanna con i vecchioni di Pommersfelden, firmato e
datato 1610, un dipinto straordinario per una diciassettenne,
raffinato nella rappresentazione del nudo femminile così come nelle
espressioni concitate e nei gesti significativi dei protagonisti.
Chissà se non sia stato eseguito anche questo in collaborazione con
il padre; quel padre che la incoraggiava a dipingere, che forse
lasciandole firmare il quadro voleva lanciarla sul mercato romano,
che nel processo verrà accusato di aver fatto posare nuda la figlia.
Lavinia Fontana
Come la pittura si
intrecci alle vicende terribili dei vari personaggi e alla
ricostruzione dei fatti che avviene in tribunale, e come sia
l’elemento decisivo della vita della Gentileschi, quello che ne
provoca la tragedia e insieme la illumina e la salva, emerge
continuamente dagli atti giudiziari. Da questi si evince la dedizione
alla pittura della ragazza, che disegna dal vero la vicina di casa e
i suoi figli; sempre dagli atti giudiziari arriva il racconto della
violenza di Agostino, che letteralmente la strappa al dipinto che
stava eseguendo e le grida di smettere di dipingere. Il processo si
chiuse probabilmente senza una sentenza, ma con Artemisia sposata, un
anno dopo, a un conoscente e trasferita alla corte fiorentina. Sono
gli anni del successo, delle commissioni prestigiose,
comeL’Inclinazione per casa Buonarroti, delle lettere
appassionate che scrive a Francesco Maria Maringhi, gentiluomo
fiorentino, ritrovate recentemente da Francesco Solinas.
Lei che dichiarava pochi
anni prima di saper leggere un poco, ma di non saper scrivere, è ora
abile nelle lettere d’amore, così come in quelle al granduca, poi
a Galileo, a Cassiano dal Pozzo, nell’affermare il suo valore
di artista, nell’argomentare le sue ragioni quando chiede di essere
ricompensata, nell’incessante richiesta di denaro all’amante,
agli amici, ai committenti. Ribadisce ad ogni passo il suo desiderio
di affermazione sociale, malgrado l’inconsistenza del marito,
l’assenza del padre, la minaccia della cattiva fama che la
perseguitava. Nessuna delle poche artiste celebri sue contemporanee
aveva dovuto lottare così per costruire la propria immagine e
sottrarsi al ruolo di vittima nel quale alcuni studi la costringono
ancora oggi.
Lavinia Fontana era
cresciuta anche lei alla scuola del padre pittore, nella Bologna del
secolo precedente, ma si era fatta conoscere per gli autoritratti e
aveva condotto una vita coniugale esemplare, amata e assistita dal
marito. L’autoritratto di Lavinia in occasione del fidanzamento,
eseguito nel 1577, la raffigura orgogliosamente artista, ma
giovane onorata e composta, di una bellezza tranquillizzante. Aveva
avuto una lunga carriera, conclusasi a Roma; nel 1611, mentre
Artemisia si dibatteva nella relazione con il Tassi, il famoso Angelo
Casoni dedicava alla Fontana una medaglia celebrativa; ma anche
Lavinia, nelle grazie dei teologi controriformati, esercitava un
fascino leggendario sui contemporanei, se di lei si innamorò anche
l’ambasciatore persiano a Roma.
Sofonisba Anguissola
Allo stesso modo la
fama della cremonese Sofonisba Anguissola aveva attraversato l’Europa
dalla metà del Cinquecento. Autrice di autoritratti, ritratti di
familiari e di bambini all’inizio della carriera, proveniva da una
famiglia aristocratica; il padre anche in questo caso fu
determinante, con il suo amore per le arti, nell’avviarla alla
pittura. Gran personaggio a cavallo di due seco- li, Sofonisba
viaggiò per le corti e sposò Francesco Moncada, il fratello del
vicerè di Sicilia, trasferendosi a Palermo. Rimasta vedova, durante
il viaggio di ritorno a casa, incontrò il futuro marito, Orazio
Lomellini e si spostò con lui a Genova. Vedova ancora una volta e di
ritorno a Palermo si rivela una figura non omologabile, in grado di
ricevere ancora, nel 1623, il giovane Anton van Dyck e di pregarlo di
modulare la luce mentre eseguiva il suo ritratto di novantaduenne.
Con queste pittrici,
oltre all’ammirazione dei contemporanei, Artemisia sembra avere
poco in comune, nelle sue avventure di donna indipendente e
sostanzialmente sola, che da sola deve badare a se stessa,
raggiungendo in Inghilterra il padre malato nel 1638, sistemando le
figlie con una dote decorosa, perennemente alla ricerca della gloria
e del denaro. Si celebra poco attraverso gli autoritratti, a meno di
non considerare tali i volti che presta alle sue eroine, almeno fino
agli anni Trenta del secolo.
Giuditte, Cleopatre, le
donne forti del mito e della Bibbia, che, fedele al suo apprendistato
romano di pittura dal naturale, continuava a dipingere dal modello
vivente. Ma qualche autoritratto è noto ed è meno ufficiale e
celebrativo di quelli di Lavinia e Sofonisba. Nell’Allegoria della
pittura delle collezioni reali inglesi Artemisia appare
spettinata, mentre dipinge, con il braccio levato verso la tela, con
il corpo proteso verso l’opera e la collana d’oro, emblema del
riconoscimento sociale dei pittori, a metà strada fra lei e il
dipinto, da cui nessuno può più allontanarla, né Agostino Tassi,
né le difficoltà della vita, né la paura dell’infamia.
La repubblica – 17
gennaio 2017
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