18 settembre 2017

C. PAVESE, Trasformare tutto in poesia


      Devo ad una cara amica, Anna Musio, la scoperta di una bellissima lettera  che, nel 1942,  Cesare Pavese scrisse a Fernanda Pivano. In essa è possibile trovare in nuce lo stesso spirito che lo condurrà a scrivere i suoi splendidi e indimenticabili "Dialoghi con Leucò". (fv)


 L'ALBERO, LA CASA, LA VITE, LA SERA, IL PANE

Sempre, ma più che mai questa volta, ritrovarmi davanti e in mezzo alle mie colline mi sommuove nel profondo. Deve pensare che immagini primordiali, come a dire l’albero, la casa, la vite, il sentiero, la sera, il pane, la frutta, ecc. mi sono dischiuse in questi luoghi, anzi in questo luogo, a un certo bivio dove c’è una gran casa, con un cancello rosso che stride, con un terrazzo dove ricadeva il verderame che si dava alla pergola e io ne avevo sempre le ginocchia sporche; e rivedere perciò questi alberi, case, viti, sentieri, ecc. mi dà un senso di straordinaria potenza fantastica, come se mi nascesse ora, dentro, l’immagine assoluta di queste cose, come se fossi bambino, ma un bambino che porta in questa sua scoperta, una ricchezza di echi, di stati, di parole, di ritorni, di fantasia insomma che è davvero smisurata. […]
Ora, questo stato di aurorale verginità che mi godo, ha l’effetto di farmi soffrire perché so che il mio mestiere è di trasformare tutto in poesia. Il che non è facile. […] Andando per la strada del salto nel vuoto capivo appunto che ben altre parole, ben altri echi, ben altra fantasia sono necessari. Che insomma ci vuole un mito. Ci vogliono miti universali, fantastici, per esprimere a fondo e indimenticabilmente quest’esperienza che è il mio posto nel mondo. […] meglio che i luoghi, cioè l’albero, la casa, la vite, il sentiero, il burrone, ecc. vivano come persone […] e cioè siano mitici. […]Ma ho capito le Georgiche. Le quali non sono belle perché descrivono con sentimento la vita dei campi […] ma bensì perché intridono tutta la campagna in segrete realtà mitiche, vanno al di là della parvenza, mostrando anche nel gesto di studiare il tempo o affilare una falce, la dileguata presenza di un dio, che l’ha fatto o insegnato.
                                                               Cesare Pavese

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