Il fai-da-te
spirituale fa riscoprire l’aspetto meno dogmatico delle religioni.
Ma ne sottovaluta l’essenza.
Alberto Melloni
La differenza tra il
mistico e l'esotico
La “mistica”, piace:
e questo dovrebbe molto preoccupare. Essa infatti appare il
confortante luogo di un fai-da-te religioso: fatto di lumini e cd
gregoriani, agriturismi spirituliastici e pezzi di presunto oriente
usati come un profumo. Invece la storia ci insegna che il mistico è
il luogo del rischio e del dolore inguaribile: quello, che, secondo
un famoso apologo di Simone Weil, abita i due amanti che vanno
puntuali a un appuntamento, ma equivocando sul luogo, si trovano
irrimediabilmente distanti in un desiderio reso eterno dalla sua
inappagabilità.
La storia di questa
esperienza è oggi possibile grazie a due figure che vorrei evocare a
partire da due episodi. Il primo episodio è collocato nella Turingia
del 1896, dove gli amici della rivista Die christliche Welt, si
riuniscono per un seminario. Parla Julius Kaftan, dogmatico
seguace di Ritschl. La discussione anziché entrare nel merito delle
sue tesi è catturata dal primo commento di un giovane trentenne:
«Signori miei, qui traballa tutto...».
Ernst Troeltsch
L’audace giovane
è Ernst Troeltsch, uno dei giganti della filosofia della
religione e della storia, che da lì alla morte nel 1923 avrebbe dato
un contributo decisivo alla analisi dell’esperienza religiosa.
Nella sua ricostruzione la “mistica” appariva quasi come
un’essenza necessaria della religione, bilanciata dalla funzione
della comunità e del culto: un’essenza che andava circoscritta,
sapendo, però, che «senza misticismo non si dà vera religione».
Sulla base di quella
indagine Troeltsch, le cui posizioni crescono in fitto dialogo con le
tesi di Max Weber sulla modernità, sviluppa la sua critica a
Kant, colpevole di aver trascurato «il problema dell’apriori
religioso» e l’apprezzamento per Spinoza a cui dà il merito di
aver concepito «il mito della religione positiva come forma
espressiva di quella mistica».
Michel de Certeau
Il secondo episodio si
colloca a Parigi il giorno del funerale di Michel de Certeau, il
gesuita, morto a sessant’anni di età il 9 gennaio 1986. Per sua
volontà alle sue esequie, un disco di Edith Piaf fa risuonare il più
“mistico” dei versi di Michel Vaucaire: «Rien de rien» («no,
niente di niente, non rimpiango niente»). Con quella voce prendeva
congedo dal mondo l’intellettuale poliedrico e raffinatissimo, che
traversando a occhi chiusi gli incroci fra filologia e psicoanalisi,
fra storia e teologia aveva scoperto quando, come e perché un
aggettivo — “mistico” — era diventato un sostantivo — “la
mistica”. Infatti quella che era sostanza e sfumatura della intera
esperienza religiosa, era diventata fra XVI e XVII secolo un settore,
una categoria, una specialità. In quel passaggio, secondo Certeau,
si era realizzato il cuore teologico della modernità: la tradizione
cristiana destinava a un percorso di appropriazione interiore ciò
che prima cercava e trovava altri equilibri. Andava nella direzione
di una marginalità che si sottraeva alla egemonia ecclesiastica e
insieme ne illuminava le fessurazioni.
Fra Troeltsch e Certeau,
dunque, si irradia in ogni direzione una questione che è
storiografica e anche esistenziale, che tocca la storia della
letteratura e delle istituzioni, i mondi dell’Oriente e
dell’Occidente. Ne traccia una dettagliata mappa L’anti-
Babele. Sulla mistica degli antichi e dei moderni (Il Nuovo
Melangolo, pagg. 649, 38 euro), che per la cura di Isabella Adinolfi,
Giancarlo Gaeta e Andreina Lavagetto, raccoglie i saggi dedicati da
molti amici alla fine dell’insegnamento universitario di Paolo
Bettiolo, professore a Padova e acuto lettore delle grandi tradizioni
cristiane. Una mappa che, disposta su una sequenza cronologica,
remunera progressivamente il lettore che si sia sobbarcato il lungo
cammino che passa da Gesù agli Gnostici, da Barsanufio di Gaza a
Remy de Gourmont, da Eckhart a Buber, da Clemente Alessandrino a
Benjamin.
Walter Benjamin
La dimensione “mistica”
è una categoria che serve a comprendere fenomeni che non si possono
ridurre a un’anacronistica tensione fra religiosità
dell’istituzione e religiosità della soggettività. A partire
dall’esperienza di Gesù: in questo volume — con tutta la cautela
richiesta all’esegeta — Mauro Pesce legge l’esperienza del
battesimo al Giordano come l’incontro con un segno del cielo, un
momento del tempo storico, nel quale i diversi racconti evangelici
squadernano l’intero repertorio della esperienza mistica: la voce,
la visione, la certezza interiore. Fino a quelle di Simone Weil —
lo mostra Isabella Adinolfi — che capisce che la “mistica” non
è rapirsi dal quotidiano, ma abitare la quarta dimensione nella
quale i due amanti collocati in posti sbagliati dello spazio non si
sono incontrati. Perché alla fine solo la debolezza e l’attesa
si possono “davvero” incontrare: e diventare come Dio che «non
ama come io amo, ma come uno smeraldo è verde».
E in questo, non a caso,
sono due voci dell’ebraismo, in dialogo fra loro, che tendono il
filo teso fra Troeltsch e Certeau: quella di Martin Buber e di Walter
Benjamin e che arriva alla ipotesi “senza dubbio eretica” della
Qabala, secondo la quale non verrà un giorno in cui le lingue
saranno rientrate nell’unità, ma nel quale la traduzione sarà
“inconcepibile” e le parole saranno “pietre inanimate” e gli
uomini e le donne saranno liberati “dal fardello e dallo splendore
del crollo di Babele”, in un silenzio senza pari: che è la cosa
alla quale aspira anche ciò che sta sotto la volgarità di un
misticismo modaiolo e di una preventiva nostalgia dell’esotico.
La Repubblica – 22
agosto 2017
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