01 settembre 2017

SUI RISCHI NASCOSTI DEL MISTICISMO


Il fai-da-te spirituale fa riscoprire l’aspetto meno dogmatico delle religioni. Ma ne sottovaluta l’essenza.


Alberto Melloni

La differenza tra il mistico e l'esotico

La “mistica”, piace: e questo dovrebbe molto preoccupare. Essa infatti appare il confortante luogo di un fai-da-te religioso: fatto di lumini e cd gregoriani, agriturismi spirituliastici e pezzi di presunto oriente usati come un profumo. Invece la storia ci insegna che il mistico è il luogo del rischio e del dolore inguaribile: quello, che, secondo un famoso apologo di Simone Weil, abita i due amanti che vanno puntuali a un appuntamento, ma equivocando sul luogo, si trovano irrimediabilmente distanti in un desiderio reso eterno dalla sua inappagabilità.

La storia di questa esperienza è oggi possibile grazie a due figure che vorrei evocare a partire da due episodi. Il primo episodio è collocato nella Turingia del 1896, dove gli amici della rivista Die christliche Welt, si riuniscono per un seminario. Parla Julius Kaftan, dogmatico seguace di Ritschl. La discussione anziché entrare nel merito delle sue tesi è catturata dal primo commento di un giovane trentenne: «Signori miei, qui traballa tutto...».
    Ernst Troeltsch

L’audace giovane è Ernst Troeltsch, uno dei giganti della filosofia della religione e della storia, che da lì alla morte nel 1923 avrebbe dato un contributo decisivo alla analisi dell’esperienza religiosa. Nella sua ricostruzione la “mistica” appariva quasi come un’essenza necessaria della religione, bilanciata dalla funzione della comunità e del culto: un’essenza che andava circoscritta, sapendo, però, che «senza misticismo non si dà vera religione».

Sulla base di quella indagine Troeltsch, le cui posizioni crescono in fitto dialogo con le tesi di Max Weber sulla modernità, sviluppa la sua critica a Kant, colpevole di aver trascurato «il problema dell’apriori religioso» e l’apprezzamento per Spinoza a cui dà il merito di aver concepito «il mito della religione positiva come forma espressiva di quella mistica».
    Michel de Certeau

Il secondo episodio si colloca a Parigi il giorno del funerale di Michel de Certeau, il gesuita, morto a sessant’anni di età il 9 gennaio 1986. Per sua volontà alle sue esequie, un disco di Edith Piaf fa risuonare il più “mistico” dei versi di Michel Vaucaire: «Rien de rien» («no, niente di niente, non rimpiango niente»). Con quella voce prendeva congedo dal mondo l’intellettuale poliedrico e raffinatissimo, che traversando a occhi chiusi gli incroci fra filologia e psicoanalisi, fra storia e teologia aveva scoperto quando, come e perché un aggettivo — “mistico” — era diventato un sostantivo — “la mistica”. Infatti quella che era sostanza e sfumatura della intera esperienza religiosa, era diventata fra XVI e XVII secolo un settore, una categoria, una specialità. In quel passaggio, secondo Certeau, si era realizzato il cuore teologico della modernità: la tradizione cristiana destinava a un percorso di appropriazione interiore ciò che prima cercava e trovava altri equilibri. Andava nella direzione di una marginalità che si sottraeva alla egemonia ecclesiastica e insieme ne illuminava le fessurazioni.

Fra Troeltsch e Certeau, dunque, si irradia in ogni direzione una questione che è storiografica e anche esistenziale, che tocca la storia della letteratura e delle istituzioni, i mondi dell’Oriente e dell’Occidente. Ne traccia una dettagliata mappa L’anti- Babele. Sulla mistica degli antichi e dei moderni (Il Nuovo Melangolo, pagg. 649, 38 euro), che per la cura di Isabella Adinolfi, Giancarlo Gaeta e Andreina Lavagetto, raccoglie i saggi dedicati da molti amici alla fine dell’insegnamento universitario di Paolo Bettiolo, professore a Padova e acuto lettore delle grandi tradizioni cristiane. Una mappa che, disposta su una sequenza cronologica, remunera progressivamente il lettore che si sia sobbarcato il lungo cammino che passa da Gesù agli Gnostici, da Barsanufio di Gaza a Remy de Gourmont, da Eckhart a Buber, da Clemente Alessandrino a Benjamin.
    Walter Benjamin
La dimensione “mistica” è una categoria che serve a comprendere fenomeni che non si possono ridurre a un’anacronistica tensione fra religiosità dell’istituzione e religiosità della soggettività. A partire dall’esperienza di Gesù: in questo volume — con tutta la cautela richiesta all’esegeta — Mauro Pesce legge l’esperienza del battesimo al Giordano come l’incontro con un segno del cielo, un momento del tempo storico, nel quale i diversi racconti evangelici squadernano l’intero repertorio della esperienza mistica: la voce, la visione, la certezza interiore. Fino a quelle di Simone Weil — lo mostra Isabella Adinolfi — che capisce che la “mistica” non è rapirsi dal quotidiano, ma abitare la quarta dimensione nella quale i due amanti collocati in posti sbagliati dello spazio non si sono incontrati. Perché alla fine solo la debolezza e l’attesa si possono “davvero” incontrare: e diventare come Dio che «non ama come io amo, ma come uno smeraldo è verde».

E in questo, non a caso, sono due voci dell’ebraismo, in dialogo fra loro, che tendono il filo teso fra Troeltsch e Certeau: quella di Martin Buber e di Walter Benjamin e che arriva alla ipotesi “senza dubbio eretica” della Qabala, secondo la quale non verrà un giorno in cui le lingue saranno rientrate nell’unità, ma nel quale la traduzione sarà “inconcepibile” e le parole saranno “pietre inanimate” e gli uomini e le donne saranno liberati “dal fardello e dallo splendore del crollo di Babele”, in un silenzio senza pari: che è la cosa alla quale aspira anche ciò che sta sotto la volgarità di un misticismo modaiolo e di una preventiva nostalgia dell’esotico.


La Repubblica – 22 agosto 2017

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