14 settembre 2017

GIOVANNI PIRELLI DALLA PARTE DEGLI OPERAI

G. Pirelli
  





In un libro uscito per Mimesis, a cura di Mariamargherita Scotti, la storia biografica e culturale dell'industriale, che rifiutò di dedicarsi all'impresa di famiglia per schierarsi a fianco del movimento operaio.

Michele Nani

L’intellettuale dalla parte dei diseredati

Nel 1946, all’indomani di una breve esperienza resistenziale in Val Chiavenna, il partigiano «Pioppo» si iscrisse al Psi. Il nuovo compagno non poteva passare inosservato: si trattava di Giovanni Pirelli, figlio primogenito di Alberto, erede predestinato di un impero industriale. Era nato nel 1918 e ventenne aveva scelto, ancora prima di laurearsi in Economia alla Bocconi, di restare nell’esercito al termine del servizio di leva negli alpini. Convinto quanto il padre, aveva aderito alla guerra fascista. Anche per lui la devastante esperienza bellica, fino alla ritirata di Russia, avrebbe innescato una presa di coscienza (documentata dal bel carteggio fra padre e figlio, Un mondo che crolla, edito nel 1990), destinata a culminare nella rottura famigliare.

Dopo la sconfitta del Fronte Popolare alle elezioni del 18 aprile 1948, il padre liquidò al figlio la spettante quota di patrimonio. «Alla pace borghese scegliemmo la lotta di classe», avrebbe voluto commentare Giovanni in un articolo rimasto inedito del 1948: aveva scelto di stare dalla parte di «quelli là», come erano chiamati con disprezzo «gli operai, i contadini, le masse dei diseredati». Alla sua morte nel 1973, dopo un tragico incidente stradale, venne sepolto, per esplicita disposizione, al di fuori della tomba milanese della famiglia.
Il fascino e l’interesse della figura di Giovanni Pirelli (già al centro di brevi presentazioni da parte di Weill-Ménard nel 1994 e di Bermani nel 2011) è ora rilanciato dal volume edito da Mimesis Giovanni Pirelli intellettuale del Novecento (pp. 254, euro 24). Lo cura, con la consueta attenzione e intelligenza, Mariamargherita Scotti, raccogliendo gli atti di un seminario milanese della Fondazione Isec, integrati da una preziosa antologia di scritti, alcuni dei quali inediti. Alla curatrice si deve anche un’utile introduzione e una nota biografica, che sintetizza il lavoro a cui attende da tempo, un’ampia biografia di Pirelli. I saggi qui raccolti sfruttano il materiale documentario dell’archivio personale, custodito dalla famiglia a Varese, che aiuta anche a dipanare qualche altro filo dei rapporti familiari, come il contributo di Alberto Saibene sui fratelli.

Dopo la  rottura del 1948, Pirelli optò per quella che ai giovani intellettuali di allora sembrava una strada naturale e per un biennio frequentò l’Istituto napoletano di Croce per dedicarsi allo studio della storia. Inaugurò invece una costitutiva oscillazione fra storia e letteratura, che si sarebbe risolta nell’impegno militante, non senza aver dato prova in entrambi i campi.
Nel volume Giuseppe Lupo illumina un aspetto dei suoi rapporti con Vittorini e Calvino – e in appendice si pubblica una bella lettera ai due del 1960. Andrebbe oggi ristampata la raccolta einaudiana dei suoi «quattro romanzi» (L’altro elemento, 1965) e forse sarebbero da recuperare anche i racconti per bambini. Il successo pubblico era giunto però fra 1952 e 1954 con due volumi storici, le raccolte delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza, italiana prima e poi europea, frutto del sodalizio con Pietro Malvezzi (sulle quali si sofferma il contributo di Gabriella Solaro). Da allora, avrebbe ricordato di lì a poco Giovanni, «di due persone con cui faccio conoscenza una mi chiede se sono il Pirelli delle gomme e una se sono il Pirelli delle Lettere».
Negli anni della guerra di Algeria partecipò alle reti di sostegno ai militanti anticoloniali (una fase ben illustrata da saggio di Tullio Ottolini): una causa che vedeva, come molti altri, in continuità con le guerre di liberazione antifasciste da poco concluse. Nel suo lavoro anche editoriale di supporto alla causa algerina incontrò Frantz Fanon, promuovendo la pubblicazione delle sue Opere, edite nella «serie politica» einaudiana nel 1971. Nel frattempo aveva esteso il suo appoggio a tutti i movimenti antimperialisti e costituito il Centro Fanon. Documento della sua sensibilità, anche antirazzista, sono i taccuini di viaggio, come quello egiziano del 1958-1959, in compagnia di Renato Guttuso, pubblicati qui per la prima volta.
Amico di Panzieri, era uscito dal Psi nel 1964, ma senza aderire al Psiup e continuando a sostenere imprese come le Edizioni del Gallo, poi Bella Ciao e la Fondazione Morandi. Nel 1962 aveva scritto «sono socialista (come potrei essere comunista; problema della classe operaia non di questo o quel partito)».

La mentalità che emerge da questi scritti può sembrare distante dal nostro presente, anche più del mezzo secolo che ci separa dalla vita di Giovanni Pirelli: per la fiducia nel nuovo, ritenuto sempre migliore del vecchio o per le certezze («Mi basta sapere che una società senza classi è possibile», scriveva nel 1962, come «realtà della storia» e non come «sogni personali»).

Tuttavia come non riconoscersi nella splendida prefazione dettata nel 1969 per l’edizione scolastica delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza? Pirelli invitava i giovani lettori a non chiedersi «che cosa avrei fatto allora?», bensì a ragionare su quel che occorreva fare nel presente: perché «la resistenza non è affatto finita con la disfatta del fascismo» e «finché ci saranno sfruttatori e sfruttati, oppressori e oppressi, chi ha troppo e chi muore di fame, ci sarà sempre da scegliere da che parte stare».

Il Manifesto – 29 agosto 2017

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