Il primo maggio a
Cocullo, in Abruzzo, la statua di San Domenico esce in processione
per le vie del paese avvolta da rettili vivi recuperati dai "serpari"
Si ripropone in ambito cristiano un rito che risale all'antico popolo
dei Marsi. Gli animali vengono stanati nei mesi precedenti la festa e
custoditi in casa. Risorge così un'arcana corrispondenza fra uomini
e natura. Quarta puntata di " Pagani d'Italia" di Marino
Niola, racconto dei luoghi, più o meno noti, del nostro Paese dove
sopravvive la memoria di leggende e culti ancestrali.
Marino Niola
Il serpente fatato che
avvinghia la testa del santo
«Questa festa è
pazzesca!!! Un mix tra Indiana Jones e Kafka ». È il commento di
Brendan, un internauta folgorato da un articolo del "Telegraph"
sul rito dei serpenti di Cocullo. Una manciata di case gettate sulla
schiena dell'Appennino abruzzese. Che celebra San Domenico Abate,
monaco benedettino del mille, portandolo in processione ammantato di
cervoni, biacchi, saettoni, bisce e colubri. Il riferimento del post
all'archeologo cuor di leone, che però se la fa sotto se vede un
rettile, è scontato. Più raffinata l'allusione a Franz Kafka che,
in una lettera a Milena Jesenská, sua traduttrice e amante, per
descrivere il groviglio inestricabile della loro passione selvaggia
immagina la testa di lei come quella di Medusa, cinta da aspidi
sibilanti. E la propria, in preda ai serpenti indomabili
dell'angoscia. Un mood caravaggesco, fatto di attrazione e paura,
amore e tremore.
Altrettanto intricata è
la matassa strisciante che avvolge il capo del santo il primo maggio,
giorno della sua festa, quando la sua statua, caduceo nella mano
destra e ferro di cavallo nella sinistra, attraversa il paese. Sembra
una Gorgone barbuta, in mezzo a una marea di popolo commosso.
Silente, piangente, orante, implorante. Ma soprattutto fotografante.
In preda a un irrefrenabile delirium ritraens.
Una corsa all'ultimo
scatto per immortalare il brivido di quel contatto ravvicinato con
l'animale più simbolico della terra. Perché, anche se non si tratta
di specie velenose, stiamo pur sempre parlando della bestia che ha
procurato ai nostri progenitori il Daspo dal paradiso terrestre.
Gli anziani cocullesi
trovano assurda questa incontinenza da instagramers all'ultimo
stadio. «Tuttu lu juornu clicche clicche clicche », commentano fra
lo sconsolato e il rassegnato, «ma non era meglio ricordarsi con gli
occhi?». In realtà è proprio la visione la vera posta in gioco di
questo antico rituale agrario. Tutti scrutano avidamente gli
spostamenti sinuosi dei colubri mentre si attorcigliano intorno alla
testa ricciuta del taumaturgo che guariva i contadini dai morsi delle
vipere. Una massa brulicante scivola intorno al suo collo, risale
sull'aureola, si allunga verso le sue braccia. Ogni movimento ha un
significato, consolidato dal tempo e dalla sapienza popolare. Nessun
esemplare può cadere a terra senza terrorizzare la comunità. Perché
è segno certo di cattivo augurio.
E se, Dio non voglia,
quest'oscuro gomitolo che si avvolge, si svolge e si rivolge, tocca
il candido viso della statua, un'ombra si allunga sulla stagione dei
raccolti. E questa rifrazione visionaria illumina, come un lampo
magnetico, una remota parentela tra indovini, profeti e serpenti. Una
mitologia ofidica che risale le correnti del tempo fino alla verga di
Mosè e a Tiresia, il cieco veggente della tragedia greca. Iniziato
ai misteri della vita e della morte dall'incontro con due rettili in
amore.
Ma il legame fra il rito
abruzzese e il mondo pagano non finisce qui. Perché la familiarità
tra questo popolo, discendente degli antichi Marsi, e l'erpetologia
sacra affonda le sue radici in quelle risorgive dell'immaginario dove
il mito e la storia si confondono. E dove regna Angizia, l'antica dea
delle genti marsiche, sorella di Circe e di Medea, nonché signora
incontrastata dei veleni e dei contravveleni. Il suo santuario si
trovava a Luco dei Marsi, il sacro bosco dei cacciatori di serpenti.
Come Umbrone, il sacerdote e guaritore che nell'Eneide incanta le
vipere e le idre, ne placa il furore e ne guarisce il morso. Annibal
Caro, traduttore cinquecentesco del poema virgiliano, lo definisce
«gran ciurmatore », adoperando una parola - derivante dal latino
carmen, cioè formula magica - che nell'Italia del suo tempo
designava gli incantatori di serpenti e i ciarlatani che vendevano
specifici, farmaci e antidoti nelle piazze.
Ma quel che oggi sembra
un raggiro, in epoche remote era l'unica cura contro i veleni animali
e vegetali. E i Marsi erano noti in tutto il mondo antico per la loro
confidenza con il mondo che striscia. Lo affermano all'unisono
Ovidio, Plinio e il poeta Silio Italico che attribuiscono questa
perturbante specializzazione proprio ai magheggi e ai maneggi della
dea. E delle sue discendenti moderne. Come l'Angizia Fura de La
fiaccola sotto il moggio, che la prosa rabdomantica di Gabriele
d'Annunzio infila, come una scheggia mitologica nel corpo sensuale di
questa serva marsicana, esperta di pozioni e figlia di un ciurmatore.
Gli eredi dei ciurmatori
d'antan oggi si chiamano serpari. Sono quegli uomini e quelle donne,
spesso bambine, iniziati per natura e per cultura ai misteri ofidici.
Nella Marsica si dice che c'è chi nasce col sangue del serparo in
corpo. «Le senti col cuore le serpi, prima ancora di individuarle -
raccontano - e solo dopo ti compaiono davanti agli occhi».
Sono questi snake busters
a procurare la materia vivente da offrire a Domenico. Cominciano a
stanarle dal letargo il 19 marzo, giorno di San Giuseppe, grazie a
una deroga alla legge che protegge queste specie. E le custodiscono
in casa mostrandole ad amici e parenti come se fossero animali
domestici. Non a caso le chiamano con soprannomi affettuosi,
Garibaldi, Codamozza, Oscar. E perfino Alessia, come la moglie di uno
di loro che prima di farsi acchiappare lo ha fatto penare.
Mesi e mesi di
corteggiamento prima del fatidico sì. In fondo anche quel giocare a
nascondino tra i ciurmatori di oggi e i rettili è questione di
feeling. È un'attrazione reciproca, che sta tra il magnetismo
animale e l'affinità elettiva. Un'arcana corrispondenza tra uomini e
natura. Che affiora come un istinto di seduzione primigenia nelle
signore che partecipano devotamente alla festa con cervoni
avvinghiati intorno alle braccia, come i monili di Cleopatra.
Dopo la festa i serpari
liberano gli animali nel punto dove li hanno catturati. E dove
andranno a riprenderli l'anno successivo. In quella sorta di eterno
ritorno che è il rito. Certo, fra Angizia e San Domenico il cammino
è lungo e il ponte che in qualche momento della storia li ha
collegati è stato ricoperto da quelle che Shakespeare chiamava le
informi rovine dell'oblio. Eppure quel passaggio di consegne fra
paganesimo e cristianesimo c'è stato. E nel tempo è diventato un
mito nel mito. La cifra nel tappeto di questo popolo che ha la
passione dell'origine e usa i numi del passato per puntellare il
presente.
La Repubblica – 4
settembre 2017
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