23 settembre 2017

Per comprendere meglio quello che sta accadendo in Spagna


Il problema catalano, oggi su tutte le prime pagine dei giornali, ha radici antiche e attraversa tutta la storia della giovane democrazia spagnola. Siamo andati a recuperare un vecchio articolo di Repubblica del 1992 che offre utilissime indicazioni per comprendere ciò che sta succedendo a Barcellona.

Maurizio Ricci

I due sogni di Barcellona

"Ah, Barcellona. Là è Europa". Ogni volta che lascia Barcellona, Pepe Carvalho, il detective più famoso di Spagna, si sente ripetere questa frase come un ritornello, madrileni, galiziani o andalusi che siano i suoi interlocutori. A questi sfoghi d' invidia verso una Catalogna lontana e diversa, neanche iberica, l' eroe dei gialli di Manuel Vazquez Montalban non risponde mai.

Può anche darsi che si tratti di un po' di autoironia da parte del catalano oggi più popolare nel mondo, dopo Salvador Dalì e Joan Mirò. Ma passeggiate qualche giorno su e giù per la spina dorsale di Barcellona, lungo quelle che nel castigliano obbligatorio del franchismo erano le Ramblas e che oggi sono, in catalano, le Rambles, e vi convincerete che Montalban fa sul serio: Carvalho non risponde perché considera la frase un complimento scontato, ovvio.

E' vero che Barcellona è più Europa del resto della Spagna. E' vero, soprattutto, che i catalani si sentono fortissimamente, irrevocabilmente diversi dagli altri spagnoli ovvero, per dirla con Montalban, più europei. Ve lo gridano dai muri i manifesti della Generalitat, il governo autonomo della Catalogna. Ve lo confida, con qualche sussiego, il professore universitario. Ve lo mastica contro, mandando serenamente all' inferno tutti gli spocchiosi catalani con cui convive da quarant' anni, la tassista nata a Vigo, all' altro lato della penisola.

A Pasqua, mentre a Siviglia si inaugurava l' Expo, a Barcellona iniziava il conto alla rovescia degli ultimi 100 giorni che porteranno alle Olimpiadi. Pochi fenomeni, come le grandi manifestazioni internazionali, sono capaci di legare a sé l' identità nazionale. Eppure, nella Spagna ' 92 avviene un po' quello che sarebbero in Italia l' Expo a Palermo e, contemporaneamente, le Olimpiadi a Roma. Ma di spagnolo, in Spagna, assicurano in Catalogna, c' è solo lo Stato, l' Estado. Le Spagne sono 17, quante le regioni che lo compongono, con gradi di autonomia diversissimi: da quelli di Catalogna e Paese Basco - pari ad un Land tedesco - a quelli delle Asturie, poco più di una ripartizione burocratica.

La lingua spagnola è il castigliano, ma, nelle rispettive regioni, sono riconosciute come lingue ufficiali anche il catalano, il galiziano e il basco. E le nazioni su cui regna Juan Carlos di Borbone sono almeno altrettante. Ma le grandi realtà che si confrontano sono due, diverse quanto possono essere diversi gli altipiani deserti delle due Castiglie e gli oliveti che su, su, lungo la valle dell' Ebro, arrivano quasi a sfiorare la costa atlantica.
C' è un Ovest povero, burocratico e assistito, con un reddito individuale pari a tre quarti di quello di un Est - Catalogna e Paesi baschi - che è industriale e sviluppato, meno della media europea, ma più della nostra Puglia, al livello della tedesca Treviri, della bassa Normandia francese, della Cornovaglia inglese. Le differenze sono mille. Prima era agricoltura e commercio in Catalogna, pastorizia e burocrazia in Castiglia. Oggi è un tessuto storico di piccole e medie imprese intorno a Barcellona, grande impresa, spesso assistita, nel resto della Spagna.

Il capitale straniero è dovunque: ma è europeo e giapponese in Catalogna, americano nel resto della Spagna. Le differenze arrivano fino alle radici della cultura politica: democratica, repubblicana, anarchica a Barcellona, assai più che comunista e socialista. All' origine, ci sono due storie profondamente diverse. Mille anni fa, la Catalogna è una marca di frontiera dell' impero europeo di Carlo Magno, quando il resto della penisola è occupato dagli arabi o dai resti degli ultimi regni visigoti. E, mentre sugli altipiani castigliani infuriano le battaglie della Reconquista, al di là della sierra, in Catalogna, mercanti e armatori cercano, con successo, di trovare la loro strada nel Mediterraneo, fra genovesi e veneziani.

Solo la casualità dinastica, a fine ' 400, ha accomunato le due storie. Ma per altri due secoli la Catalogna avrebbe mantenuto la sua autonomia militare, economica, giuridica. E, mentre il resto della Spagna, drogato dall' oro delle Americhe - riservato in monopolio a Siviglia - coltivava sogni imperiali, i catalani dovevano rimettere insieme i cocci di un ormai inutile successo mediterraneo.

Quanto basta perché le due anime di Spagna non si incontrino più. Da una parte il culto della limpieza de sangre, della purezza razziale dei "vecchi cristiani" che lasciano le fatiche del lavoro dei campi e delle botteghe ai convertiti ex arabi o ex ebrei. "Iglesia, mar o casa real", prete, soldato o burocrate sono gli unici orizzonti possibili di un castigliano bennato. Mentre, dall' altra parte, dice il proverbio, "il catalano dalle pietre fa il pane". Fino a poco più di un secolo fa, l' etica dell' hidalgo si contrapponeva, faccia a faccia, con l' etica del lavoro. La rivoluzione industriale ha fatto esplodere questo quadro.

"La Catalogna - è la tesi di Jordi Pujol che dal 1980 presiede alle sorti della Generalitat e, un mese fa, ha vinto per la quarta volta consecutiva le elezioni - è come la Borgogna, la Provenza, la Lombardia, la Scozia. Solo che la storia ha via via inghiottito Borgogna, Provenza, Scozia, all' interno dei rispettivi Stati. Catalogna e Lombardia, invece, sono le uniche due regioni a sud di Lione che, nell' 800, hanno conosciuto la rivoluzione industriale. Questo è l' elemento che ha segnato il divorzio fra noi e il resto della Spagna. La differenza con la Lombardia è che i milanesi hanno sostanzialmente egemonizzato il resto d' Italia, mentre da noi è avvenuto il contrario".
La fine del franchismo ha ridato al nazionalismo catalano il fiato e lo spazio che cercava per esprimere la propria differenza. Secondo Eliseo Aja, professore di diritto costituzionale a Barcellona, la Spagna, che 15 anni fa era uno dei paesi più centralizzati d' Europa, oggi è uno dei più decentrati, "appena dietro federazioni tradizionali come Svizzera e Germania". Probabilmente, non c' era alternativa.

La democrazia ha mostrato che l' orizzonte politico catalano è quasi totalmente oscurato dal problema nazionale. Fin dalle prime elezioni, Convergenza e Unione, il partito dell' autonomia catalana è sempre stata oltre il 40 per cento dei voti: 46 per cento nel marzo scorso. Il partito socialista (comunque catalano, anche se collegato con i socialisti di Madrid) ha il comune di Barcellona, grazie ai voti degli immigrati della cintura operaia, ma non arriva nella regione al 30 per cento. Un altro 8 per cento dell' elettorato ha scelto l' Esquerra repubblicana di Angel Colom, apertamente indipendentista.

A stare ad un sondaggio del quotidiano El Mundo, comunque, un catalano su 5 è favorevole all' indipendenza dalla Spagna. Il 20 per cento dell' elettorato pronto a recidere ogni legame con Madrid, il terzo partito della regione che si batte per l' indipendenza sono fattori che spingono prepotentemente sul centrismo di Pujol e lo sollecitano a smentire i professori e ad affermare, la scorsa settimana, che "il recupero dell' autogoverno catalano è ancora a mezza strada". Ma la pasta del nazionalismo catalano non è la stessa di quello basco.
L' intransigenza non è la stessa e la tentazione della violenza remota: profeta di un "indipendentismo tranquillo", Angel Colom, leader dell' Esquerra, ripete ad ogni occasione che "l' indipendenza non vale mai la violenza". Il nazionalismo catalano, spiega il vicedirettore di El Pais, Miguel Angel Bastenier, è "gaseiforme", si adatta alle circostanze e si nutre di compromessi. Una scelta drammatica E la congiuntura politica dei prossimi due anni sarà dominata dal tema dell' autonomia regionale: la Spagna deve saltare il fosso e diventare ufficialmente e apertamente uno Stato federale o no? Il sasso lo ha lanciato, a metà aprile, il presidente del governo galiziano, Manuel Fraga Iribarne, ex ministro di Franco e leader della destra nel decennio successivo alla scomparsa del dittatore.

Perché tre diversi livelli di amministrazione: lo Stato centrale, la Regione, il Comune? Almeno nelle nazioni storiche - Galizia, Catalogna, Paese Basco, che già amministrano i servizi, l' economia, scuola e università, la tv regionale - l' amministrazione, secondo Fraga, dovrebbe essere unica, cioè regionale. In buona sostanza, anche polizia, magistratura e tasse dovrebbero essere sottratte a Madrid e rientrare sotto le competenze della Xunta galiziana, della Generalitat catalana o del Lehendakari basco.
Il dilemma non è nuovo. La sovranità è di Madrid e viene esercitata, in parte, dalle regioni storiche? O è delle regioni che ne cedono una parte (difesa, moneta, politica estera) al centro? Per la Spagna castigliana egemone è una scelta drammatica. E, infatti, fino a che ne ha parlato solo Fraga, figura nota e discussa, ma che ora rappresenta la piccola Galizia e fa parte del partito popolare, all' opposizione, la proposta è stata ignorata. Quando l' ha rilanciata, alla vigilia di Pasqua, nel solenne discorso di investitura al governo regionale, Jordi Pujol, è stato impossibile non accorgersene.

L' "amministrazione unica" è stata severamente criticata dall' editoriale del Pais e accolta con insofferenza dal governo. Ma Pujol rappresenta la potente Catalogna. Soprattutto è l' ancora di salvezza del potere socialista, quando, nelle elezioni del prossimo anno, la maggioranza assoluta sfuggirà - dicono - dalle mani del Psoe di Gonzalez e la soluzione, giurano tutti a Madrid, non potrà che essere un' alleanza con i deputati catalani di Convergenza e Unione. A quale prezzo? Alto probabilmente, forse vicino all' "Amministrazione unica" di Fraga. Ecco perché, José Maria Eguiagaray, ministro delle Amministrazioni pubbliche e rappresentante di Gonzalez al discorso di Pujol, a cerimonia conclusa,ha chiamato intorno a sé i giornalisti per dare sfogo ai nervi: "La Costituzione è del 1978: non si può avere la pretesa di rifondare tutti i giorni lo Stato".


La Repubblica – 28 aprile 1992

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