Sandro Penna e P. P. Pasolini
Quando Roma faceva cultura
Elisabetta Rasy
Ancora verso la fine
degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta persisteva a Roma
l’abitudine di trovarsi in certe trattorie la sera, a cena, senza
appuntamento. In quelle circostanze studenti o ragazzi senz’arte né
parte ma con molta voglia di imparare si trovavano a contatto con
personaggi prestigiosi della cultura della capitale, celebrità che
però non si comportavano affatto come tali e che apparivano
sinceramente, quasi infantilmente animati da passioni, convinzioni e
curiosità. Ricordo così, con gli occhi della studentessa che ero
allora, il melting pot della città nella versione che si era
prodotta subito dopo la fine della guerra e che ancora sopravviveva:
un’ansia di ricominciamento, di cambiamento e di invenzione, in
tutti i campi, cinema arte letteratura, che aveva trasformato i
decenni postbellici, per usare il titolo di un memoir di uno
dei protagonisti di allora, il gallerista Plinio De Martiis, in «Anni
originali».
Com’era stata al tempo
dei grandi papi cinquecenteschi o quand’era meta obbligata del
Grand Tour settecentesco e ottocentesco, la città culturale di
quell’epoca aurea non era, o non era solo, dei romani – Moravia,
Morante o Mario Mafai. Solo per fare qualche nome nel dopoguerra
arrivano a Roma Fellini da Rimini, Antonioni da Ferrara, Visconti da
Milano; poco prima erano arrivati Caproni, Sandro Penna, un po’
dopo Attilio Bertolucci; arrivano i pittori Turcato, Accardi,
Consagra e un nugolo di scrittori, da Parise a La Capria passando per
l’angosciato e idiosincratico Gadda che lavora al terzo programma
della radio dal 1950 al ’55, anno in cui nasce il grande foglio
dell’«Espresso» raccogliendo molte firme del «Mondo» di
Pannunzio. Uomini che spesso non andavano d’accordo né sul piano
pubblico, cioè delle idee e delle posizioni né sul piano privato,
perché c’erano litigi e intrighi, qualche volta per ragioni di
amore, più spesso per ragioni di rivalità o anche di premi,
naturalmente il romanissimo Strega, eppure costituivano una comunità
solidale e producevano un’inedita sinfonia di pensieri e opere.
Fare solo qualche nome però è improprio e fuorviante: a incontrarsi
e scontrarsi nella città, in quegli anni, era una vera folla di
artisti e intellettuali, come è possibile constatare nell’indice
delle presenze oltre che nelle pagine di un libro dedicato a questo
mondo scomparso da una scrittrice anch’essa romana di adozione,
Sandra Petrignani, con un titolo, Addio a Roma, cui fa eco
nella quarta di copertina a modo di sottotitolo la celebre battuta di
Flaiano: «Coraggio, il meglio è passato».
L’autrice colloca
questa sua guida retrospettiva all’intellighenzia della capitale
tra due date: il 1952 che Pier Paolo Pasolini, arrivato due anni
prima a Roma dal Friuli, evoca nelle Ceneri di Gramsci
(«Improvviso il mille novecento / cinquantadue passa sull’Italia»)
e la morte dello scrittore il 2 novembre del ’75. Se la prima data
è più suggestiva che oggettiva, perché il fermento in città
comincia immediatamente dopo la liberazione del ’44, sull’ultima
non si può che concordare, forse con una sottolineatura successiva,
il rapimento Moro e il ritrovamento del suo cadavere nel ’78. La
Roma notturna dei funerali di PPP con l’orazione disperata di
Moravia e, dopo, le immagini di via Caetani concludono simbolicamente
quella stagione di fervore, anche se in realtà stanno avvenendo
cambiamenti sostanziali d’altro genere, l’inizio della grande
onda mediatica, l’invasione pubblicitaria (che Fellini non manca di
sottolineare nel suo episodio del film collettivo Boccaccio ’70
con il grande manifesto della Ekberg sopra al coretto di «bevete più
latte, il latte fa bene...»), i vecchi negozi storici del centro che
cedono alle boutique del nuovo lusso, le terrazze private che
prendono il posto delle trattorie familiari, la televisione che
avanza e i movimenti che retrocedono. Mentre, per riprendere
l’antinomia pasoliniana tra la gloria e il successo, è sempre più
quest’ultimo l’obiettivo, e l’ambizione al warholiano quarto
d’ora di celebrità si sostituisce all’impegno ideologico.
Ma prima, negli anni
originali, qual era la vera caratteristica comune tra figure
dall’indole e dalla vita tanto diversa come per esempio
l’elegantissimo «conte rosso» Visconti e il povero travet
Manganelli che insegna in un istituto tecnico di periferia? Scorrendo
il racconto fitto di dati e date, di informazioni e aneddoti del
volume di Petrignani, colpiti da tanta ricchezza di presenze e anche
da tanta varietà di ingegni, ci si domanda in che cosa, in fondo,
consisteva l’essenza di quei giorni, la peculiarità di quella Roma
in cui la letteratura nello stesso anno 1957 sfornava La ciociara,
il Pasticciaccio, L’isola di Arturo, e il cinema nel
1960 Rocco e i suoi fratelli e La dolce vita, mentre vi
cercavano rifugio o ispirazione personaggi come Robert Rauschemberg e
Truman Capote, Ingeborg Bachman e Maria Zambrano. Risponde per via
contraria, spiegando perché tutto è finito, un avvilito e finale
epigramma di Flaiano: «Oggi lo scrittore non vive in camere
ammobiliate / né scrive sui tavolini dei caffé / né passa i mesi
d’estate solo nel suo quartiere, /come Campana, Barilli,
Cardarelli. /Oggi lo scrittore ha ben altri modelli. / Oggi lo
scrittore se va in giro la notte / non è per placare la sua antica
malinconia / ma per portare a spasso uno del gruppo Agnelli».
Il che può significare
in altri meno accorati termini che il genius di quel luogo in
quel tempo era stato una sorta di impavida, a volte caratteriale,
autenticità: se tutti, scrittori pittori eccetera, avevano la
religione della propria arte, e naturalmente del proprio sacerdozio,
quasi nessuno invece ostentava il mito del proprio ruolo e
l’ossessione della propria immagine o del denaro – che era ancora
qualcosa per vivere, possibilmente bene, e non uno status symbol
dell’artista arrivato. E il succo di quel fiume di talento che
scorreva per la città, tra grandi e «minori interessanti», tra
difensori della tradizione (qualunque cosa essa volesse dire:
sicuramente per Pasolini una cosa e per Elemire Zolla e Cristina
Campo un’altra) e modernizzatori stava in questo: che ognuno voleva
disperatamente essere se stesso contro tutto e tutti, e non una
celebrity per tutto e tutti.
Da “Il Sole 24 Ore
Domenica”, 13 gennaio 2013
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