Ripropongo un articolo di due mesi fa. Forse altri dati sono arrivati a corroborare l'irrealtà del reale, ma l'attualità del pezzo di Revelli sta nel metodo e sta nelle conclusioni finali, sul divorzio tra economia e società, che – secondo me – ci aiutano a interpretare più correttamente le cifre che continueranno ad arrivare.
Italia, a che punto è la notte. L'irrealtà del reale e gli insulti
alla miseria
Marco Revelli
Ogni giorno una nuova gittata di
dati – una nuova slide tombale – viene emessa dalle torri del sapere
ufficiale a coprire la precedente, con un effetto (voluto?) d’irrealtà del
reale.
Giovedì l’Istat, nella sua nota
annuale sulla Povertà, ci dice che le cose vanno male, stabilmente male, e
forse peggioreranno.
Venerdì la Banca d’Italia, nel suo
bollettino trimestrale, ci dice che (al netto del record del debito) le cose
vanno abbastanza bene, e probabilmente miglioreranno…
Viene in mente Isaia (21,11) e la
domanda che sale da Seir: «Sentinella, a che punto è la notte?», a cui dalla
torre si risponde: «Vien la mattina, poi anche la notte».
Per la verità la situazione della
povertà è persino più grave di quanto a prima vista potrebbe sembrare. Nei
commenti a caldo ci si è infatti soffermati soprattutto sui dati generali: i
4.742.000 poveri «assoluti» e gli 8.465.000 poveri «relativi», grandezze di per
sé impressionanti, ma definite nella Nota arrivata dall’Istat «stabili»,
essendo entrambi aumentati rispetto all’anno 2015 «solamente» di 150.000 unità.
Se però si spacchettano i due
insiemi aggregati si scopre che il peggioramento è stato ben più consistente,
addirittura catastrofico, per almeno tre categorie cruciali: i minori, gli
operai, e i membri di «famiglie miste».
Tra le «famiglie con tre o più figli
minori», ad esempio, la povertà assoluta è cresciuta in un anno di quasi dieci
punti.
Schizzando al 26,8%. Nel Mezzogiorno
la povertà relativa in questa categoria sfiora addirittura il 60%.
Tra gli «Operai e assimilati», poi,
i poveri assoluti raggiungono il livello del 12,6% (un punto percentuale più
del 2015, una crescita del 9% in un anno!) e le famiglie con breadwinner
operaio in condizione di povertà relativa sfiorano il 20% (una su cinque). Sono
i working poors: coloro che sono poveri pur lavorando – pur avendo un «posto di
lavoro» -, ed è bene ricordare che si definisce «in povertà assoluta» chi non
può permettersi il minimo indispensabile per condurre una vita dignitosa,
alimentarsi, vestirsi, curarsi, mentre in «povertà relativa» è chi ha una spesa
mensile pro capite inferiore alla metà di quella media del Paese. Una parte
consistente del mondo del lavoro italiano è in una di queste due condizioni.
Infine le «famiglie miste», quelle
in cui cioè uno dei due coniugi è un migrante: nel loro caso la povertà
assoluta è quasi raddoppiata nell’Italia settentrionale (dal 13,9 al 22,9%) e
quella relativa ha raggiunto nel Meridione il 58,8% (era il 40,3 nel 2015), con
buona pace di chi ha fatto dell’urlo tribale «Perché a loro e non a NOI» la
propria bandiera e considera privilegio lo jus soli in nome della propria
miseria.
Se poi si considera il quadro
nell’ultimo decennio, la storia assume i tratti del racconto gotico. Non solo
il numero delle famiglie e degli individui in condizione di povertà assoluta
risulta raddoppiato rispetto al 2007, ma per alcune figure la dilatazione è
stata addirittura esplosiva: così per i minori, tra i quali i «poveri assoluti»
sono quadruplicati (l’incidenza passa dal 3% al 12,5%).
Stessa dinamica per gli «operai e
assimilati», tra i quali la diffusione della povertà assoluta, drammatica nel
quinquennio 2007-2012, era rallentata fino al 2014, e poi è ritornata
prepotente nel biennio successivo (3 punti percentuali in più!) dove si può
leggere con chiarezza l’effetto-Renzi e l’impatto del Jobs Act sul potere
d’acquisto e sulla stabilità del lavoro.
In questa luce l’inno alla gioia
intonato da politica e media per le notizie da Bankitalia potrebbe sembrare una
beffa (un «insulto alla miseria» registrata invece dall’Istat), se non
contenesse però un tratto di realtà.
E cioè che economia e società hanno
imboccato strade diverse, e per molti versi opposte. Che i miglioramenti
dell’una (o l’attenuazione della crisi sul versante economico) non significano
affatto un simmetrico rimbalzo per l’altra (una risalita sul versante della
condizione sociale).
Anzi. I ritocchini al rialzo delle
previsioni sul Pil (+1,4 nel ’17, + 1,3 nel ’18, + 1,2 nel ’19) sono in effetti
perfettamente compatibili col parallelo degrado dei tassi di povertà e delle
condizioni di vita delle famiglie.
Convivono nell’ambito di un
paradigma, come quello vigente, nel quale la crescita redistribuisce la
ricchezza dal basso verso l’alto, dal lavoro all’impresa (e soprattutto alla
finanza), dai many ai few (all’1% che possiede il 20% di tutto). E in cui il
Pil, appunto, s’arricchisce (in termini economici) impoverendo (in termini
sociali).
Forse nel 2019 (forse!) ritorneremo
ai livelli pre-crisi del «valore aggiunto» monetario, ma saremo un po’ di più
vicini al Medioevo nell’equità sociale.
Finché non si spezzerà questo
circolo vizioso, la sentinella dalla torre non potrà annunciare la definitiva
fine della notte.
il manifesto 16.7.2017
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