Abitare l’Italia fragile
di Gianni Biondillo
Pochi
anni fa, durante una giornata di studi in Triennale, rimasi colpito dal
fatto che ben due relatori citarono John Kenneth Galbraith che parlando
dell’Italia del dopoguerra dava una spiegazione a modo suo
“inoppugnabile” dell’intimo carattere di questo paese.
«L’Italia,
partita da un dopoguerra disastroso – scriveva l’economista americano –
è diventata una delle principali potenze economiche. Per spiegare
questo miracolo, nessuno può citare la superiorità della scienza e
dell’ingegneria italiana, né la qualità del management industriale, né
tantomeno l’efficacia della gestione amministrativa e politica, né
infine la disciplina e la collaboratività dei sindacati e delle
organizzazioni industriali. La ragione vera è che l’Italia ha
incorporato nei suoi prodotti una componente essenziale di cultura e che
città come Milano, Firenze, Venezia, Roma, Napoli e Palermo, pur avendo
infrastrutture molto carenti possono vantare nel loro standard di vita
una maggiore quantità di bellezza».
L’auditorio,
composto da intellettuali, economisti, tecnici, applaudì in tutti e due
i casi con entusiasmo e convinzione. Questo siamo noi, dicevano quegli
applausi, questa è l’Italia. Il mio mestiere è raccontare storie,
conosco gli inganni della retorica. L’accettazione supina del ritratto
fatto da Galbraith mi aveva in qualche modo insospettito. Perché quella
narrazione, per quanto emotivamente intrigante, era una narrazione
tossica, basata su un paternalistico e buonista pregiudizio etnico. «Per
diventare “narrazione tossica” – scrivono i Wu Ming – una storia deve
essere raccontata sempre dallo stesso punto di vista, nello stesso modo e
con le stesse parole, omettendo sempre gli stessi dettagli, rimuovendo
gli stessi elementi di contesto e complessità.»
Gli
stereotipi sono materiali del narratore, che sa come usarli. Chi li
ripropone acriticamente fa solo pessima letteratura. Lo stereotipo
immobilizza una figura, la eterna, la mitizza. Non accetta la
complessità, la mutevolezza. Rifugiarsi negli stereotipi è quel che
Giulio Bollati chiamava «l’abdicazione a pensare». Ascoltando la
citazione di Galbraith, quel giorno in Triennale, mi chiedevo: com’era,
davvero, l’Italia del dopoguerra?
Era
una nazione che aveva espresso una scuola di fisica teorica di
altissimo livello, al punto che oggi il 50% degli scienziati del CERN è
italiano. Che in economia aveva, a detta del Financial Times, la moneta
più stabile del mondo. Che per costruire la linea metropolitana milanese
attuò tali e tante innovazioni che il sistema di costruzione,
denominato Milan Method, fu successivamente utilizzato in Canada e in Brasile. Che esprimeva chimici come
Giulio Natta insigniti del Nobel per la scoperta del propilene e con un
Ente Nazionale Idrocarburiche che si giocava la partita energetica con
le “sette sorelle” del petrolio mondiale, o con il reparto ricerche
dell’Olivetti che nel 1964 aveva prodotto il primo personal computer al mondo.
Questa
storia dell’Italia non viene mai raccontata. Perché? Sicuramente per
l’influenza crociana, che mette in secondo piano la cultura
tecnico-scientifica rispetto a quella umanistica. Ma questa risposta non
basta. La verità è che il racconto di una Italia dedita al “bello” e
all’arte è innanzitutto consolatoria per noi. Ci crogioliamo del nostro
patrimonio storico, artistico, paesaggistico, in quel patrimonio,
retoricamente, ci riconosciamo. Ce la suoniamo e ce la cantiamo, per
farla breve. Ci crediamo esperti di musica in quanto cittadini del paese
del belcanto, ma in realtà, spocchiosamente ignoranti, confondiamo il melodramma verdiano con le prestazioni trash
de Il Volo. Ci fregiamo del nostro passato, come un onoficienza da
appuntarci al petto. Ma questo patrimonio, è ora di capirlo, non è un
onore. È un onere. E oggi, sempre più, il territorio sfinito dove
viviamo, fra dissesti idrogeologici e terremoti, sembra definitivamente
chiederci il conto.
Occorre
una contro narrazione. Occorre raccontare l’Italia nella sua
complessità, fuori dagli slogan d’occasione. Cosa significa, dopo le
immani tragedie dei terremoti del 2016, insistere con lo slogan “dov’era
e com’era”? Ma per farne che? Davvero crediamo che il nostro patrimonio
artistico sia un “giacimento culturale” da sfruttare, il “petrolio” che
ci renderà ricchi solo perché ne abbiamo a disposizione più delle altre
nazioni? Cosa significa: “con la cultura si mangia”? Quale cultura?
Quella che immagina le piazze storiche come scenografie dove accogliere i
turisti, vestiti da centurioni? Il turismo da solo non serve, come
d’incanto, per far funzionare il Paese, ma è semmai un Paese che
funziona che stimola le attività produttive del turismo.
Un’Italia
che funziona è innanzitutto un paese che decide di puntare su
innovazione, tecnologia, ricerca, cultura. Che non separa le conoscenze
ma le meticcia. Come ha sempre fatto, in realtà. Brunelleschi era un
matematico oltre che un architetto, Alberti un politico oltre che un
teorico, Leonardo uno scienziato, prima che artista. E non è solo storia
del Rinascimento. Il paesaggio amato da Goethe è il risultato di
innovazioni agricole, di economie di costa, di tecnologie fluviali. Così
fino a tutto il novecento. L’artista Alberto Burri era medico di
formazione, lo scrittore Carlo Emilio Gadda ingegnere, l’economista
Carlo Azeglio Ciampi un filologo classico.
Per
suturare le ferite del territorio il governo italiano deve partire
dalla ricerca. Ricostruire per ricostruire, nell’emozione
dell’emergenza, senza una visione, una pianificazione che copra l’arco
di almeno due generazioni, non serve a niente. Che me ne faccio di un
borgo riedificato dov’era e com’era
se non so garantire l’economia che lo tiene in vita? Immaginiamo
davvero che basti ridurre tutto l’Appennino a un immenso bed and
breakfast diffuso? Il paesaggio è un sistema complesso, non una
cartolina immobile nel tempo. Il territorio è dove insistono, spesso
frizionano, tradizione e novità.
Una
nazione fragile, con questa eredità gravosa, deve fare di quest’onere
un’opportunità. Non mancano gli scienziati, i progettisti, le
intelligenze. Dobbiamo permettere loro di interagire, di immaginare
nuovi scenari d’innovazione senza lacci politico-burocratici. Sviluppare
nuove tecnologie antisismiche, consci di intervenire in un panorama
unico al mondo, quindi non importando protocolli a noi culturalmente
estranei ma inventandone di nuovi, che contemplino la conservazione dei
materiali della tradizione e la completa sicurezza dei manufatti.
Geologi e sociologi, chimici e archeologi, economisti e scienziati della
terra, sismologi e architetti, vulcanologi e filmaker, storici e
informatici. Tutti, a modo loro, narratori di una nuova idea di nazione.
Il lavoro è enorme:
riqualificare le coste, dalla Liguria alla Calabria, demolendo
chilometri di inutile edilizia di scarsa qualità, ridefinire e
consolidare gli argini e i letti dei nostri fiumi, riforestare i crinali
contenendo i dissesti idrogeologici, liberare la Brianza dallo sprawl
indifferenziato, bonificare la Terra di Lavoro dalle discariche abusive
tossiche. Lavoro enorme e, per i tempi asfittici della politica, poco
redditizio in termine di voti. Ma è l’unica opportunità che abbiamo, in
un mercato globale sempre più interconnesso, di fare innovazione
competitiva. Purtroppo non solo in Italia ci sono problemi di dissesti o
di terremoti. Avere università e laboratori di ricerca all’avanguardia
su questi temi cogenti significa diventare depositari di conoscenze che
poi possono essere esportate ovunque.
Un
paese innovativo è un paese che fa della conoscenza il suo capitale. Fa
economia. Stimola l’industria agroalimentare conservando la sua
peculiare biodiversità qualificando così il paesaggio storico e
riuscendo a creare i presupposti economici per presidiare i borghi da
ricostruire; rende le sue metropoli autosufficienti, sia dal punto di
vista energetico che da quello alimentare (orti urbani, tetti coltivati,
etc.); allaccia rapporti fra artigianato manifatturiero, l’industria
4.0 e l’internet delle cose; punta sulla mobilità pubblica, condivisa e
dolce; ricrea condizioni di socialità diffusa. Chiama cioè all’appello
le migliori menti a disposizione e le lascia sperimentare.
Salvare l’Italia fragile è salvare l’Italia tout court.
Altro che Mose, Tav, Ponte sullo Stretto. Altro che tronfie cattedrali
nel deserto. La più grande, unica, e davvero necessaria infrastruttura
su cui lavorare per i prossimi decenni sarà capillare e diffusa su ogni
centimetro quadrato della Nazione. O non sarà.
(L' articolo è stato pubblicato su Abitare numero 571, gennaio/febbraio 2017- Noi l'abbiamo ripreso dal sito https://www.nazioneindiana.com/)
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