egon schiele, abbraccio
Nel 2014 usciva la traduzione italiana di 1910: The Emancipation of Dissonance (1996) (1910. L’emancipazione della dissonanza, Editori Internazionali Riuniti), di Thomas Harrison, un libro che racconta la trasformazione delle arti e del pensiero occidentali alla vigilia della Prima guerra mondiale assumendo, come punto di partenza, un anno allegorico, l’anno nel quale la natura umana cambiò (Woolf) e l’arte perse la sua ovvietà (Adorno). Pubblichiamo un’intervista all’autore, a cura di Alberto Comparini].
ESPRESSIONISMO E DISSONANZA
Intervista a Thomas Harrison a cura di Alberto Comparini
A.C.: 1910 è indubbiamente un
libro complesso, dove si intrecciano lungo una linea armonica
letteratura, arte, storia, musica e filosofia e una serie di artisti
legati tra loro dalla comune matrice filosofica espressionista. Prima di
entrare nel dettaglio di questa narrazione simbolica del 1910, mi
sembra opportuno soffermarci sul paratesto del saggio (titolo e scelta
delle immagini). Rispetto all’edizione del 1996, nella traduzione
italiana il titolo è rimasto immutato, mentre Studio per Composizione VII di Kandinskij (1913) ha preso il posto de Lo sguardo rosso di
Schönberg (1910) come immagine di copertina. È evidente che già alle
soglie del testo hai voluto dare un taglio specifico al tuo saggio; del
resto, nell’introduzione compare come epigrafe una celebre frase di
Gottfried Benn, tratta dal suo trattato sulla lirica espressionista:
«1910, l’anno appunto in cui tutte le impalcature cominciarono a
crollare». Puoi spiegarci in che modo il 1910 costituisce un punto di
incontro (storico, filosofico e artistico) tra Kandinskij e Schönberg?
T.H. Il padre dell’arte astratta,
Kandinskij, e il progenitore della dodecafonia, ossia della rivoluzione
nel sistema armonico della musica occidentale, Schönberg, s’incontrano
per puro caso nel 1910. Kandinskij partecipa a un concerto di Schönberg a
fine anno, dove trova negli sviluppi atonali di questa strana musica
viennese una perfetta analogia ai proprî sperimenti figurativi, che
cercano di liberare la pittura dal dovere di rappresentare oggetti o
impressioni del mondo materiale. Non è un “puro caso”, quindi,
l’incontro fra Kandinskij e Schönberg. Nelle arti come nelle scienze
umane e nella politica all’orlo della Grande Guerra si assiste a una
comune esplosione dei quadri concettuali che hanno retto la comprensione
umana da duemila anni: le distinzioni fra la dimensione oggettiva e
quella soggettiva della realtà vissuta, fra il bene e il male, fra il
vero e il falso. Pittori, musicisti, psicologi e politici si trovano
nella stessa perplessità nei riguardi delle basi future delle proprie
discipline. Perfino i poeti, come Benn, Trakl e Campana, mutano la
poesia in un “dissonante” miscuglio di paradossi, di alchimie emotive,
di visioni metafisiche che non si prestano più a un sapere chiaro. Io
chiamo questa svolta al mondo post-umanistico del dopoguerra
“espressionismo”.
A.C.: Che cosa intendi esattamente per
“mondo post-umanistico”? Ritieni che l’espressionismo sia un movimento
strettamente avanguardistico o lo si può leggere in chiave modernista?
T.H.: Mi sembra che l’espressionismo sia
un grido disperato dell’io per farsi valere e sentire in un mondo i cui
meccanismi hanno superato l’uso stesso della soggettività, un mondo che
non ne ha più bisogno né cura. Il ruolo di una volta dell’artista come
portavoce di una società, la cui frattura trova forma storica ed
esistenziale nel fallimento politico e ideologico della Grande Guerra,
viene meno. Gli espressionisti quindi sorgono come rari, indifesi
sopravvissuti del Romanticismo, epoca dello spirito che collocava la
comprensione e la gestione della condizione umana nell’interiorità
dell’individuo. Dopo l’espressionismo e la Grande Guerra—cesura storica
forse ancora maggiore a quella posta da Adorno quando dice che scrivere
poesie dopo Auschwitz è barbarico—non si può più essere artisti come
prima. Consegue da questa lettura che l’espressionismo è un evento più
modernista che avanguardistico. L’estetica dell’avanguardia mira quasi
esclusivamente al futuro, supponendo o augurandosi di poter lasciare
indietro il passato senza perdere qualcosa di essenziale; il modernismo
invece crede che non si possa affatto andare avanti senza fare i conti
con i problemi sempiterni del pensiero occidentale: l’intendibilità o
meno della realtà, la scoperta dei mezzi che la rendono possibile, la
natura dei desideri e della volontà umana, le fondamenta dell’etica e
dell’organizzazione politica, e perfino il valore conoscitivo dell’arte.
A.C.: Se l’espressionismo rappresenta,
in tutta la sua polisemia artistica, un momento di rifondazione negativa
della metafisica occidentale, in che termini possiamo e dobbiamo
leggere il 1910? All’inizio del libro sembri suggerire una lettura
hegeliana della storia, quando affermi che il 1910 rappresenta «la
prefigurazione spirituale di una fatalità indicibilmente tragica,
riscontrabile nei toni degli audaci e degli angosciati, dei devianti e
dei disperati, nell’arte di una gioventù precocemente invecchiata
nell’attesa di una guerra che aveva a lungo sperimentato nello spirito»
(p. 14).
T.H.: A dire il vero, scrivendo il libro
non ho mai pensato a Hegel, ma spesso a Nietzsche e a Heidegger. Anche
loro raccontavano ‘una storia dello spirito’ occidentale, dello
svolgimento ‘logico’ del pensiero che finisce per naufragare alla fine
dell’Ottocento nel nichilismo, nella decentralizzazione del soggetto e
così via. Ma adesso che lo menzioni, forse c’è anche un po’ di hegelismo
nella metodologia del libro, attribuibile forse alla mia simpatia per
il giovane Lukács. Ha a che fare col rapporto diretto, ma allo stesso
tempo obliquo, fra le arti e la storia intellettuale (etica, sociale, e
metafisica) della cultura umana. Per Hegel i moventi dello spirito si
riscontrano più fortemente nelle arti che non nella filosofia. L’arte
non è mera ‘riflessione’ di situazioni palesi sul piano politico e
filosofico; è ‘rivelazione’ di quel che la storia non riesce bene ad
articolare. Ecco perché dico, nel brano che citi, che l’arte del 1910
segnava in anticipo la tragedia storica che avverrà nella Grande Guerra.
Gli scritti di Campana, Michelstaedter, Trakl, la musica politonale di
Schönberg, la rinuncia dell’arte figurativa di Kandinskij, hanno
espresso meglio di altri fenomeni la crisi epocale che sconvolse
l’Europa nel 1914. Secondo la mia interpretazione, quella crisi ebbe
ragioni ‘hegelianamente’ decisive e persino inevitabili, se si vuole. La
nuova fondazione negativa, come tu ben la caratterizzi, non è riuscita
ad imporsi alla coscienza generale che con la catastrofe della guerra.
Il “pubblico” è arrivato a questa negatività dopo (insieme ai suoi
politici). Freud, Simmel, Rilke e altri analisti della psiche umana
avevano “predetto” l’emergenza, almeno così mi pare, col senno di poi.
A.C: «L’espressionismo in questione nel
1910 è di carattere più teoretico che artistico. Per quanto interessato
all’arte, affonda ancor più profondamente le sue radici nella
metafisica, nella sociologia e nell’etica. Come il termine stesso
suggerisce, l’espressionismo tratta della natura, della funzione e della
credibilità dell’espressione umana» (p. 21). Sebbene apparentemente
irrelati (per ragioni spazio-temporali, ma anche sociologiche e/o
etniche), gli autori che citi sono legati tra loro da questa tua idea di
espressionismo, la cui implosione artistica si manifesta a livello
geografico nella Mitteleuropa e a livello temporale nella decade che
precede lo scoppio della Grande Guerra, avente come epicentro il 1910.
Ci puoi spiegare come hai (ri)costruito questo canone espressionista?
T.H.: All’inizio avevo intenzione di
scrivere solo un breve trattato su Michelstaedter, interpretandolo come
acme di un percorso intellettuale che parte da Socrate e Platone per
sfociare in quella sfiducia assoluta nel mezzi della filosofia che
Nietzsche e Heidegger chiamano il “nichilismo compiuto”. Poi, ricercando
la cultura dell’impero Austro-Ungarico cui appartenne, ho trovato
moltissimi punti di riscontro che hanno arricchito il quadro d’indagine.
Per cominciare, spiccavano le opere dei pittori austriaci e tedeschi,
che sembravano “dir meglio” le intenzioni di Michelstaedter artista
grafico (Schiele, Kokoschka, Kirchner, Nolde, Heckel, Gerstl). Poi ho
notato che alcuni libri o scritti usciti nello stesso anno della tesi di
Michelstaedter (La persuasione e la rettorica) ne condividevano molti argomenti: Lo spirituale in arte di Kandinskij, L’anima e le forme di Lukács, i saggi sulla morte di Simmel, il Manuale di armonia di Schönberg, la strepitosa narrativa di Rilke ne I quaderni di Malte Laurids Brigge.
La “colla” che mi ha aiutato a saldare queste diverse espressioni di
problematiche comuni era forse il grande trattato sull’arte, L’astrazione e l’empatia di Worringer (1907), con la sua idea (“hegeliana”) della Kunstwollen:
l’idea di una volontà insita nell’arte, un desiderio-pensiero
(etico-metafisico) che sprona le trovate linguistico-formali di
un’epoca. Lukács, Kandinskij, Schönberg e altri del momento
condividevano quella fede nel radicamento filosofico delle arti, nelle
ambizioni, non solo formali ma anche ontologiche, delle arti. Per di
più, le loro pratiche s’intersecavano anche sul piano estetico. Tutto
questo mi ha permesso di concepire l’espressionismo come drammatica
tappa nello svolgimento dello spirito, e non mero capitolo
dell’“avanguardia” (che raccontava, peraltro, una storia diversa). Ho
creduto, e credo ancora, che l’espressionismo rivelasse più dei cubismi e
dei dadaismi—anzi, che li inglobasse teoricamente—e che spiegasse
perfino aspetti della storia politico-ideologica dell’inizio secolo più
profondamente di quanto non facessero altri movimenti artistici (che
godono, forse anche per questo, di più successo di pubblico).
A.C.: È innegabile, però, che il ponte
interstiziale che lega l’arte espressiva, dissonante, prebellica e il
desiderio di unità ricercato da scrittori, pittori, musicisti e da tutte
le vittime (consapevoli e non) del 1910, è dato da La persuasione e la rettorica di
Michelstaedter, un’opera che si impone di «colmare la frattura che si è
spalancata in Occidente fra essere e divenire, permanenza e mutamento,
quiete e desiderio» (pp. 88-89). Possiamo leggere il 1910 attraverso la
lente diacritica della persuasione e della rettorica di Michelstaedter?
T.H: Questa è stata la mia ipotesi. Ho
trovato in Michelstaedter la teorizzazione più completa delle
problematiche che m’interessavano nell’Europa centrale: lo straniamento
sociale dell’individuo, la meccanicizzazione della vita quotidiana, la
trasformazione del pensiero in calcolo, l’egemonia dell’ethos
dell’utile, la retoricizzazione del sapere, la crisi dei linguaggi
espressivi e la ricerca disperata dell’autentico—del sé autonomo. Altre
figure approfondiranno queste tematiche nei decenni a venire (Kafka,
Simmel, Freud, Weber, Musil, Wittgenstein, Buber, Heidegger e, infine,
gli esistenzialisti francesi), ma Michelstaedter rimane un lampo
precursore. Inoltre, come ebreo italiano-austriaco, che abita un confine
geopolitico (Gorizia-Trieste) che rimescola identità politico-etniche,
un intellettuale “senza patria” che sperimenta diverse lingue di
espressione (filosofia, disegno, poesia) senza accontentarsi mai di
nessuna, Michelstaedter cavalca numerose “metodologie” del sapere che ho
voluto indagare nel libro. Perfino nelle sue scelte stilistiche,
Michelstaedter poneva l’esempio di una specie di arte che veniva
attivata a modo loro da Schönberg e da pittori, pensatori, e poeti fra
Vienna e Budapest. Michelstaedter sembrava essere la voce finale di una
tradizione europea e l’annuncio di un nuovo inizio. Era margine, limine,
e quindi anche ponte. Poi in Michelstaedter ho percepito anche i limiti dell’espressionismo.
Egli rendeva palese il fallimento del linguaggi tradizionali senza
trovar via di uscita. Sebbene si avvicinasse, come Nietzsche e
Schopenhauer, a un misticismo quasi buddhista, a una santità
proto-cristiana in cui il bene viene ridimensionato a livello di
intuizione soggettiva, alla fine la sua polemica contra la “retorica”
gli ha impedito di fiorire come spirito libero e di forgiare nuovi
valori. In Michelstaedter si sente l’urlo dell’intelletto astratto che
non trova più posto nel Novecento; si assiste, in lui e nei suoi
coetanei, ai funerali di tutta una forma mentis.
Testo ripreso da: http://www.leparoleelecose.it/?p=28692&
Testo ripreso da: http://www.leparoleelecose.it/?p=28692&
[Kandinskij, Composizione VII]
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