25 settembre 2017

G. VASTA, Negli Oratori di Palermo

Ph. di Ramak Fazel

GIACOMO SERPOTTA NEGLI ORATORI  DI  PALERMO

di Giorgio Vasta

Palermo è una città di sguardi. Chi la percorre si rende conto che oltre a osservare ciò che lo circonda è a sua volta, da ciò che lo circonda, osservato. Come se la materia fisica della città non si accontentasse di venire contemplata, con incanto o rammarico, ma ricambiasse percependo a sua volta chi la attraversa.
In alcuni luoghi questa vocazione panottica si fa perturbante: accade nei mercati storici di Ballarò o del Capo, dove ci si muove in una ragnatela percettiva e gli occhi che osservano il visitatore non sono solo quelli umani di chi vende il pesce, la frutta e la verdura, ma affiorano anche dai cumuli di pesche e di limoni, dalle pentole dove bollono le patate, dal bagnomaria delle pannocchie (sono occhi i semini neri che costellano il rosso dell’anguria, i mucchi di mandorle dal guscio-palpebra lignificato); la sensazione di venire guardati si rinnova alle Catacombe dei Cappuccini, dove i corpi dei frati e degli aristocratici cittadini, degli ufficiali e delle vergini, si sporgono dalle nicchie scavate nelle gallerie contemplandoci cadavericamente euforici; e ancora basta raggiungere il Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino e sfilare sotto il tiro incrociato degli sguardi vegetali, inerti e attentissimi, dei fantocci appesi in folte schiere o raccolti in grappoli, per verificare di nuovo che in questa città l’ammirazione può essere indistinguibile dall’apprensione.
Palermo ci guarda anche con occhi di stucco. Sono quelli delle statue di Giacomo Serpotta, e in particolare quelli dei suoi putti, innumerevoli e straordinari, scrupolosamente sparsi negli oratori del centro storico. Dello scultore – nato alla Kalsa nel 1656, vissuto durante la dominazione spagnola e morto, sempre a Palermo, nel 1732 – un suo contemporaneo, Vincenzo Parisi, scrisse: «Serpotta, tu con opra indefessa / Stupida fai la meraviglia istessa». E in effetti facendo ingresso nelle aule rettangolari degli oratori, a imporsi è uno stupore che non è culturale ma sensoriale. Perché prima ancora di incarnarsi in forme, il bianco che fascia le pareti è materia dilagante, una sostanza che si allarga, si allunga, si frantuma, cola come rivolo o cascatella, si ricoagula in un magma più ordinato, finché ciò che ci si spalanca davanti è una teoria di figurine insieme promiscue e avulse che dovrebbero essere intrinseche al discorso religioso risultando invece eterodosse e anarchiche, irriducibilmente enigmatiche.
Nell’Oratorio di San Domenico, in via Bambinai, c’è un putto carponi, a cavalcioni della sua schiena un compagno bellicoso col braccio teso avanti e il pugno chiuso; poco più in là, altri due abbracciati, i volti folli («ercolini tentennanti, bacchini ebbri di sole», li descriveva Ugo Ojetti). Sono vitali e sono caduchi: emblemi della locale vocazione all’effimero. Alcuni hanno ali grandi, altri alucce che germogliano dalle scapole, altri schiene liscissime, rese sfavillanti dalla cosiddetta «allustratura».



In Bianco tenebra. Giacomo Serpotta, il giorno e la notte (Sellerio), Luca Scarlini racconta la tecnica che l’artigiano-artista aveva ideato per dare forma a questa «neve scultorea».Generati i corpi di stucco –latte di calce mischiata a polvere di marmo –, servivano panni di lino, spatole calde e ore di lavoro per strofinare il grassello sulle superfici modellate facendole rilucenti e, nonostante la fragilità degli ingredienti, molto resistenti. Visitando l’Oratorio di San Lorenzo di via Immacolatella, due levigatissimi amorini si guardano circospetti (uno ha la cannuccia d’oro e fa le bolle);poco più avanti, un altro si copre il capo con un drappo premendo dispettoso il piede sulla pancia di chi gli sta sotto, un altro ancora allunga la mano verso la statua dell’Elemosina e la guarda implorante;osservandolo ci rendiamo conto che, se anche la sua espressione è canonicamente contrita, non riesce a dissimulare la burla.
In via Valverde, all’Oratorio del Rosario di Santa Cita, le incongruenze si fanno esplicite e il teatro serpottiano si rivela in tutta la sua ambiguità. Dovunque i corpi puerili sbocciano dalle pareti – alcuni nelle pareti sprofondano, spontaneamente o spinti a forza dai loro compagni – chiarendo che tutto quel bianco è origine e destino. Ci sono putti in conciliabolo, concentratissimi, ma la loro è una serietà recitata. C’è un amorino che solleva l’indice ad ammonirne un altro che si tocca il petto come a dire Ma chi, io?, e a far capolino, di nuovo, è il gioco delle parti. Altri ancora disputano, uno sta per cadere giù da un cornicione, il compagno lo trattiene, e nelle posture e negli sguardi il dramma è messinscena. E poi tre putti in schiera: uno si allunga all’indietro e soffre, un altro lo regge, il terzo lo piange; sono gravi, persino affranti, ma dai loro visi trapela l’impulso al riso: allo scetticismo ilare, allo scherzo, addirittura alla miscredenza. Sentimenti tutt’altro che divini, semmai radicalmente umani. A far da modello ai putti di Serpotta –si comprende allora – non è la tradizione artistica ma la strada. Nel 1952 – lo ricorda Scarlini nel suo libro – Roger Peyrefitte constatava che i putti palermitani non sono riconducibili alle figurazioni religiose ortodosse, essendo semmai un’esaltazione di bambini reali.

Un’intuizione che fu anche di Gianfranco Mingozzi, che nel 1964 realizza un documentario, Il putto, alternando nel montaggio i cherubini di stucco e i pueri di carne mentre giocano o si annoiano nei vicoli, individuando assonanze morfologiche, corrispondenze gestuali, rime posturali,e svelando la vocazione ironicamente melodrammatica, se non del tutto tragediante, degli oratori cittadini.
Circondati da questa miriade di sorrisi che volgono in ghigni e di crucci colmi di allegria, la contraddittorietà, se non la sconvenienza, dell’opera di Serpotta guadagna di colpo senso. Dovremmo trovarci nella celebrazione del sacro, eppure a fare irruzione dalle pareti bianche increspate è l’impertinenza, l’irriverenza, lo sberleffo, persino la blasfemia. Come se ognuno di questi corpi, infantile e ferino, se ne stesse lì, conficcato nel candore, soprattutto per farci dubitare, per relativizzare,per mettere in prospettiva tanto il celeste quanto il terrestre. Per invitarci a non credere a ciò che vediamo.
I putti sono corpi, certo, ma sono anche anticorpi; sono il modo in cui a cavallo tra due secoli Giacomo Serpotta intercetta e condensa plasticamente uno specifico nucleoculturale: l’impossibilità palermitana di credere fino in fondo alle cose, alla loro realtà, alle cause e agli effetti (una battuta locale come «Non ci fu niente», pronunciata mentre qualcosa di grave accade, vale da sintesi di questo impulso a ridimensionare il trauma confinandolo subito nel passato remoto).
Palermo, città di sguardi, vive il privilegio e la condanna dell’incredulità. Lo aveva capito Tomasi di Lampedusa, quando nel Gattopardo il principe Fabrizio spiega a Chevalley che se pensi di essere dio non hai altro in cui credere, e lo aveva chiaro quel viaggiatore – ne scrive Pietro Zullino in Guida ai misteri e piaceri di Palermo – che visitando la città commentava: «Bel paese Palermo, dove non si conosce né Re né Papa». Ciò che in ogni sua manifestazione l’esistenza palermitana d’istinto esprime è un elementare «Sic transit gloria mundi».





In piedi al centro di un oratorio osserviamo la massa di bianco che si sgrana in corpi. In un angolo c’è un putto assunto nel suo cielo di latte minerale. Mentre dalla strada arrivano le voci dei bambini e il grugare cupo dei colombi, il putto a sua volta ci scruta, teso e minaccioso, la bocca aperta in un urlo eternamente muto.
All’improvviso, fuori, una lite, i suoni che si mischiano. «Non ci fu niente», dice qualcuno nel trambusto – e noi, senza pensarci, naturalmente, logicamente, fissiamo in alto la bocca bianca spalancata immobile; e restiamo – come si dice – di stucco.
Giorgio Vasta

 Questo pezzo è apparso su Robinson, l’inserto settimanale di Repubblica, che ringraziamo. Le foto sono di Ramak Fazel.
Giorgio Vasta (Palermo, 1970) ha pubblicato il romanzo Il tempo materiale (minimum fax 2008, Premio Città di Viagrande 2010, Prix Ulysse du Premier Roman 2011, pubblicato in Francia, Germania, Austria, Svizzera, Olanda, Spagna, Ungheria, Repubblica Ceca, Stati Uniti, Inghilterra e Grecia, selezionato al Premio Strega 2009, finalista al Premio Dessì, al Premio Berto e al Premio Dedalus), Spaesamento (Laterza 2010, finalista Premio Bergamo, pubblicato in Francia), Presente (Einaudi 2012, con Andrea Bajani, Michela Murgia, Paolo Nori). Con Emma Dante, e con la collaborazione di Licia Eminenti, ha scritto la sceneggiatura del film Via Castellana Bandiera (2013), in concorso alla 70° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Collabora con la Repubblica, Il Venerdì, il Sole 24 ore e il manifesto, e scrive sul blog letterario minima&moralia. Nel 2010 ha vinto il premio Lo Straniero e il premio Dal testo allo schermo del Salina Doc Festival, nel 2014 è stato Italian Affiliated Fellow in Letteratura presso l’American Academy in Rome. Il suo ultimo libro è Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani (Humboldt/Quodlibet 2016).

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