Dal bellissimo sito https://rebstein.wordpress.com/2017/09/20/incursioni-nella-luce/ riprendo questo splendido pezzo:
Incursioni nella luce
1
La parola di Char, nella sua pronuncia
oracolare e potente, non propone nessuna pienezza: ci espone, nudi,
dentro un cammino accidentato. «L’infinito ci assalta, ma una nuvola ci
salva». I suoi poemi sono quella “nuvola”: organismi complessi e
massicci che ci raccontano una destrutturazione dove costantemente si
preparano ricostruzioni. «Dai flutti dove annaspiamo lanciamo ponti e
fondiamo isole di cui non saremo né l’invitato né l’abitante. Tale il
destino dei poeti sconvolti: operai specializzati in previsioni e
preparativi». Le frasi di Char cercano luoghi in cui essere, «occhi puri
nel bosco» che «cercano piangendo la testa abitabile». Noi leggiamo,
del poeta di Isle-sur-la-Sorgue, meteoriti di parole, dove un
immaginario simultaneamente surreale e reale cerca una forma viva
perturbata, un ponte verbale duttile e articolato, ostile a ogni
rigidità di morte. «Rispetto alla notte vivente, talvolta il sogno non è
che un lichene spettrale». Il poeta rimane, sempre e soltanto, Wanderer della sua notte. «O grande barra nera, in viaggio verso la morte, la tua sorte sarà sempre quella di mostrare il lampo?».
2
Nel suo saggio Char e Sereni. Carnets de guerre Stefano Raimondi scrive: «In René Char la parola diventa oracolare, pre-veggente. Si pone, rimbaudianamente, sempre in avanti
rispetto all’atto compiuto, all’evento, tracciando un solco per il
depositarsi dell’esperienza». I poemi chariani non sono oracoli
assoluti, dove domini la presenza di un dio, ma isole di nuova
esperienza con le quali il viaggiatore si confronta per dare un senso al
viaggio, sempre imprudente e pericoloso, della poesia: «Certe meteore
riescono a forare la barriera». Ogni foro, ogni abisso, è una caduta
individuale, della quale essere pienamente responsabili in ogni momento
della vita. La poesia racconta di «una notte senza ornamenti», dove il poeta non smette di resistere a un regime inaccettabile del reale.
«Guardare la notte colpita a morte: continuare, in lei, a bastare a
noi». Luce e assenza di luce sono un talismano bifronte. «La notte
nutre, il sole affina la parte nutrita». E il poeta è chi regge la
fiamma, nel tempo consentito, per affidarla, nel suo “ordine insorto”, a
chi verrà dopo di lui. «Nella notte facciamo tirocinio, per servire
altri dopo di noi. Fertile è la freschezza di questa guardiana!». La
notte non è solo un pozzo nero, ma un lungo apprendistato alle tenebre, e
ha il potere di conservare la fiamma. «O notte assoluta dove il sogno
sgraziato non occhieggia più, conserva vivo ciò che amo».
3
Il poeta non vuole soltanto stare fra gli
altri uomini: su questa terra vuole nuotare e volare, disponibile alle
irruzioni gioiose, al fuoco delle amicizie. Le innumerevoli
collaborazioni con gli artisti del suo tempo, da Braque a Matisse a
Giacometti, lo rendono poeta vicino, nel tripudio delle immagini,
all’idea pittorica dei suoi “alleati sostanziali”. Così gli scrive uno
dei suoi più intensi “alleati”, Nicolas De Staël, il 16 aprile del 1952:
«Mio carissimo René, io faccio per te dei piccoli paesaggi dei dintorni
di Parigi per portarti qualcosa dei miei cieli di qui e calmare la mia
inquietudine su di te: non perché creda che questo possa essere
efficace, ma un po’ mi rassicura pensando a te, piene le mani di colori,
a cielo aperto». Il 10 giugno Char scrive al pittore: «Dove sei, caro
Nicolas? Non ho il tuo indirizzo. Mi consolo pensando che non sei
perduto, ma forse semplicemente felice. Sperare questo, crederlo, è un
bene». Char pensa sempre verso la luce. Il tragico suicidio dell’amico
gli mostrerà che la luce, talvolta, è intollerabile vertigine e
straziante caduta.
4
Un uomo sogna un’onda, in mezzo
all’oceano, che lo sommerge. Si sveglia in preda al pànico. Lo stesso
uomo, dopo molte settimane, sogna la stessa onda, alta e minacciosa, che
non lo sommerge più. Passano i mesi e l’uomo sogna ancora di nuotare
nello stesso mare. Ma l’onda ora gli è alle spalle, segue la sua scia.
Oppure gli scorre accanto, gli è compagna, non lo spaventa. Nel mutato
rapporto con il proprio inconscio personale, l’esperienza dell’onda come
orrore indefinito e sconvolgente diventa esperienza dell’onda come
rappresentazione definita, anche se perturbante. Così ci appare,
talvolta, René Char, nella “domanda” della sua ricerca poetica: «Dopo il
dolore e la rovina, l’arcipelago della nostra parola vi offre le
fragole che riporta dalle terre dei morti, con le dita calde per averle
cercate». Ma cercare è imprescindibile, come domandare. «La domanda come
risposta è la risposta dell’essere. Ma la risposta al questionario è
una seduzione del pensiero».
5
Le immagini chariane non hanno nulla di
decorativo o di superficiale. Sono lussuose, dense, complesse,
aromatiche, tropicali, fitte di dettagli vegetali e floreali. Ci parlano
della luce non come di un cielo stellato e assoluto ma come di uno
splendore che abbaglia pietre e muri, evocando uno strazio immedicabile.
L’uomo «più comprende, più soffre. Più sa, più è straziato». Ma la sua
lucidità e la sua tenacia si esprimono nella forza della costruzione
poetica, slanciata sempre verso la luce, in una sorta di sfida
all’impossibile –azzardo tutto umano contro lutti e fantasmi. Char
indossa la lingua francese come un’armatura luminosa, che gli consente
di strutturare in danza iniziatica il suo universo teorico e immaginale.
L’eroismo conclamato delle sue frasi («Non possiamo vivere che nella
fessura, esattamente nella linea ermetica di separazione dell’ombra
dalla luce. Ma noi ci siamo irresistibilmente gettati in avanti. Tutto,
in noi, dà sostegno e vertigine a questa spinta») è anche l’angoscia di
un sonno oscuro, di un potente Hypnos («Un sogno è il suo
rischio, il risveglio il suo terrore»). L’uomo veglia terrorizzato. Ma
scrive, procedendo straziato verso una sua luce. Chiaroveggenza,
autorevolezza e molteplicità sono le caratteristiche di questa poesia:
un alone di profezia, ferrea disciplina compositiva e increspature del
registro tematico. «Ciò che nasce e non turba / non merita né pazienza
né sguardo». Il poeta sa di esistere come davanti a una finestra, in uno
spazio stretto, fra vita e morte, incerto se spingersi in avanti,
testimone, o nel vuoto, suicida. «Scrivere una poesia è prendere
possesso di un aldilà nuziale che si trova, sì, in questa vita, molto
stretto ad essa, e tuttavia prossimo alle urne della morte».
6
L’inizio “surrealista” del giovane Char, in Le marteau sans maître, ha una sua felice e irriverente joie, distante dal jeu dei surrealisti classici. Il tempo e le esperienze avvicineranno il poeta agli oggetti e agli eventi concreti, come nei Feuillets d’Hypnos,
e creeranno un taccuino vibratile e mai astratto, dove il paesaggio
esterno è fuso a quello interno. C’è sempre, nella pronuncia del poeta,
in ognuno dei suoi frammenti, qualcosa di eroico e di conclusivo:
«Obbedite ai vostri porci esistenti. Io, mi sottometto ai miei dèi
inesistenti». Ma, ogni volta che la frase si conclude, non c’è
risoluzione o chiarimento o quiete. Affiora l’ardore di un’altra
domanda, che percorre la casa mentale del poeta, e di nuovo sospende la
parola davanti al suo abisso. «I nostri totem sono deboli», afferma il
poeta. Tocca alla poesia sperimentare nuovi rischi, nuovi idoli.
Scrivere oscuro ed essere illeggibile appare banale. Più complesso
scrivere oscuro e restare leggibile, come accade a René Char.
«Attraverso il silenzio appena inciso la risposta è bianca». Non ha
rimpianti o commozioni la vis poetica. Char, in tutte le stagioni del
suo cammino poetico, non si adatterà mai a una parola soltanto sorgiva.
Il potere di scavare e di affondare, più che diamanti preziosi o poesie
perfette dissotterrerà strati di buio. «L’impossibile è un’esperienza
che non raggiungeremo mai, ma ci serve da lanterna».
7
L’uomo si abitua a tutto, o piuttosto
dimentica ciò di cui a volte sentiva la mancanza. La speranza
stupefacente di poter uscire dalla sua notte, in un giorno lontano, lo
mantiene in vita. «L’uomo fu sicuramente il desiderio più folle delle
tenebre; è per questo che, sotto la potenza del sole, siamo notturni,
invidiosi e pazzi». Ma, per come lo concepisce Renè Char, l’uomo è
anche, e soltanto, l’uomo d’eccezione che scrive: «Di’ ciò che il fuoco
esita a dire e muori d’averlo detto per tutti». Il poeta si assume
questo compito con l’autorità di una sentinella, con la solennità di un
guardiano. La sua parola dispiega e svela, ma poi si complica e torna
oscura. «Se devi ripartire, appòggiati a una casa secca. Non
preoccuparti dell’albero grazie al quale la riconoscerai. I suoi stessi
frutti lo dissetano». Il paesaggio chariano ha qualcosa di scabro e di
potente, che ricorda i dissonanti poèmes en prose del più
giovane Jacques Dupin. Entrambi, con la loro violenza quasi
espressionista, non sono in sintonia con la razionale musicalità della
lingua francese. Sono poeti che spaccano superfici, rivelano
arcipelaghi. «La poesia è allo stesso tempo parola e silenziosa
provocazione, disperata del nostro essere-esigente per l’arrivo di una
realtà che non subirà concorrenze. Incorruttibile, quella. Non
immortale: perché corre gli stessi pericoli di tutti. Ma la sola che
visibilmente trionfi della morte materiale. Tale la Bellezza, la
Bellezza d’altura, apparsa fin dai primi tempi del nostro cuore, ora».
La bellezza non crea regni sublimi, ma apre crepe, fa sanguinare. «Lo
specchio aveva ferito tutti i suoi soggetti».
8
Il compito del poeta è costante, nel
tempo: «Noi viviamo con qualche arpeggio del passato, le gaie bugie del
presente e la cascata furiosa dell’avvenire. Intanto continuiamo a
saltare la corda, al nostro fianco il bimbo-chimera». Il bimbo-chimera,
fluttuante e imprendibile, infantile e risoluto, è il segreto della
ricerca poetica, il fuoco che ci attraversa e di fronte al quale «non
facciamo che puntellare spazio». Questo spazio, durante la breve prova
dell’esperienza vitale, riflette il nostro universo personale come uno
specchio e lo collega ad altri destini. «Come rigettare nelle tenebre il
nostro cuore di prima, col suo diritto di ritornare?». Il “cuore di
tenebra” è la necessità dell’inconscio, il diritto di ritornare, la
rappresentazione della coscienza. Entrambi configurano la nostra opera
vivente – e poetica – in quanto simultanea presenza e assenza. Presenza,
come maschera che espone la sua forma visibile. Assenza, come vuoto che
regge le forme invisibili della maschera e inventa le strategie del
nostro nulla, della nostra morte. «Noi non abbiamo che una risorsa
contro la morte: fare arte di fronte a lei».
9
«Char. Blocco calmo caduto quaggiù da un
disastro oscuro» scrive Albert Camus del poeta. Char costruttore di
poemi è dunque, nella parola di uno dei suoi amici più cari, solo una
“maschera” apparente. «Ci sono casi limite dove liberare la verità è un
atto che deve restare segreto, dove dobbiamo soffrire per conservarla
intatta, dove nominarla è smuovere la chiave di volta e far precipitare a
terra tutto l’edificio. Ma con quanto ritardo si impara…». Il lavoro
poetico abita sempre i margini dell’essere e non le terre in piena luce.
«L’unica lotta è dentro le tenebre. La vittoria è solo ai loro
confini». La casa del poeta non è un monolite inaccessibile, è una vera e
propria “casa mentale”. Così scrive Char: «Casa mentale. Dobbiamo
occupare tutte le stanze, le sane come le malate, e quelle ariose, con
la conoscenza prismatica delle differenze». Nelle differenze, che
allargano e restringono lo sguardo, brucia la veglia dello scrittore.
«La poesia vive di eterna insonnia». Ma è un’insonnia concretamente,
luminosamente umana. «Sembra che sia il cielo ad avere l’ultima parola.
Ma la dice così piano che nessuno la sente mai». Di questa inudibile
parola dei cieli non è interprete Char, che preferisce sporcarsi della
materia immaginosa del suo dire e scegliere la via di un interminabile
cammino: «L’immaginario non è puro: non fa che andare». In René Char la
parola diventa oracolare, pre-veggente, contaminata. Si pone,
rimbaudianamente, sempre in avanti rispetto all’evento,
tracciando un solco dove sedimenta l’esperienza. Come osserva Vittorio
Sereni, nella prefazione alla sua traduzione di Feuillets d’Hypnos:
«Nel suo insieme antielegiaca, antinarrativa, antidiscorsiva, la poesia
di Char è poesia d’illuminazione, ellittica, oracolare. Ha le radici
nell’istante e nel fenomenico e dunque – contro ogni apparenza – nel
quotidiano. Ma non è, in alcun modo, poesia del quotidiano nella misura
in cui rifiuta di essere gestione poetica della quotidianità».
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«Di attimo in attimo, lancio più
lontano», scrive il poeta, e aggiunge: «Il lontano non è montuoso.
Avanza, metodico, su un orizzonte alleviato». Il poeta non si perde fra
balze scoscese, le descrive. Lancia e rilancia, in una sua famelica
ansia di luce. Singolarmente una poesia di Paul Celan gli fa eco: «Con
fame di chiarezza – così / salii il gradino / di pane, / sotto la
campanella / per ciechi». Il tono, nel poeta tedesco, è diverso: uno
strazio immediato e sibilante, una leggerezza disperata, oscura ma
autobiografica. Qualcosa riga il vetro per sempre, con un taglio
immedicabile. Ma il desiderio di ascendere/discendere verso il luminoso è
fortissimo, come la necessità di sottrarsi alle uniformi regole del
vivente. «Cos’è, la realtà, senza l’energia dislocante della poesia?»,
scrive Char, confermando l’energia del proprio destino solare. «Le
nuvole, come archetipo precipitato, non sono affilate dai nostri cupi
contorni ma dal nostro amore». Se il destino è oscuro, la missione va
sempre verso la luce. Parola amorosa, interminabile, che, forse non
casualmente, risuona ancora affine a quella dell’ultimo Celan,
come una invocazione verso la luce di bocche terrene: «SPINTA IN QUA E
IN LÀ / la luce perpetua, gialla come argilla / dietro / testate di
pianeti. // Inventati / sguardi, risanate / piaghe della vista, /
intagliate nella nave spaziale, / invocano bocche / terrestri». Ma di
quali bocche che ancora implorano salvezza e luce parla il poeta che non
seppe salvare se stesso? Quelle che appartengono a un altro regno. Sono
ancora di Celan questi quattro versi risoluti e ascendenti: «IL PAESE
RIZZATO ALL’INSÙ / pieno di crepe, / con la radice volante, cui /
concresce respiro di pietra». In un regno “dalla radice volante”
l’oppressione è bandita, come conferma Char: «Chi libererà il messaggio
non avrà più identità. Smetterà di essere un oppressore». Bisogna che il
poeta non parli più con il suo io alle macerie. Che smetta di credersi
il profeta di qualsiasi causa. Devono essere loro, le macerie, a
dettargli la voce, che appartiene all’eterno presente della poesia: «Il
presente-passato, il presente-futuro. Niente prima e niente dopo: solo i
doni dell’immaginazione».
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Se le accensioni di Celan ci rimandano a
degli spasmi luminosi nelle/dalle tenebre (Celan, come scrive Zanzotto,
«si inoltra negli spazi di un dire che si fa sempre più rarefatto e
nello stesso tempo quasi mostruosamente denso, come in una “singolarità”
della fisica»), Char si presenta invece come un robusto camminatore
sonnambulo, la testa ruotata sempre verso la luce, che si porta con sé
la notte come macigno da alleggerire con incursioni limpide ma
disperate: «Il dolore è l’ultimo frutto, lui sì immortale, della
giovinezza». L’idea di luce è sempre connessa a uno strazio non
astratto: «Per unico sole: il bue scuoiato di Rembrandt». Alla fine,
restando vivo, il poeta sa orgogliosamente distanziarsi dal mondo che
abita, graffiando con il proprio lampo la notte. Questa necessità di
resistere non è mai estranea al poeta, neppure nelle poesie più
incantate e leggere. Le “delizie dell’immaginazione” non riescono a
rischiarare completamente l’inguaribile orrore della vita che distrugge.
Dentro questa ferita aperta il guerriero Char, il poeta maquisard,
continua a combattere come il superstite di un esercito in rotta, non
dimenticando mai che la gioia è sempre il guizzo possibile, l’azzardo
impensabile: «Impara la tua chance, afferra la tua felicità, va’ verso
il tuo rischio. A guardarti, loro si abitueranno».
Nota
Le citazioni sono tratte da: Vittorio Sereni, Prefazione a Feuillets d’Hypnos, Einaudi, Torino 1968; Cahiers de l’Herne René Char, Editions de l’Herne, Paris 1971; René Char, La parole en archipel, Le poème pulverisé, Fenêtres dormantes et porte sur le toit, Recherche de la base et du sommet, ora in Œuvres complètes (Gallimard, Paris, I edizione 1983, II edizione 1991); René Char – Nicolas de Staël, Correspondance 1951-1954, Editions de Busclats, Aurillac 2010; Paul Celan, Virata di respiro, in Paul Celan, Poesie (trad. Giuseppe Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998); Andrea Zanzotto, Aure e disincanti nel Novecento letterario, Mondadori, Milano 2001.
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