Smartphone in classe.
Cara ministra Fedeli, i ragazzi già sanno come usarlo ma non come
leggere i classici.
Angelo
Cannatà
A
scuola lo smartphone non basta
Primi giorni di scuola al liceo. Osservo e prendo qualche appunto. Innanzitutto le aule. Piccole, brutte, sovraffollate. Gli edifici pericolanti e gli ambienti angusti in cui si fa lezione sono, nonostante slide e proclami governativi, terribilmente identici al passato. Le carenze strutturali rendono difficili le innovazioni: copiamo “modelli didattici” dai Paesi anglosassoni (prevedono aule-laboratorio, spazi multimediali, biblioteche in classe) ma non abbiamo strutture adeguate.
Mancano aule, laboratori, professori; e i presidi devono dirigere più scuole, spesso molto distanti tra loro. Si fanno corsi sulla sicurezza invece di mettere in sicurezza gli edifici; si nominano supplenti per simpatia (e amicizia) invece di seguire una graduatoria; si pongono barriere (24 crediti) per l’accesso ai concorsi invece di aprirli a tutti i laureati.
Adesso si discute – come fosse un’urgenza – degli smartphone: “Non si può separare il mondo dei ragazzi – dice la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli – da quello della scuola”. Gli smartphone possono anche essere utili, certo; il problema è capire quanto peso debbano avere in classe, se possano invadere (fino a devastarli) i tradizionali spazi d’insegnamento e se compito del docente sia educare al loro corretto uso, o altro. Io credo che l’insegnante abbia altre priorità: leggere i classici ad alta voce in classe; spiegarli; richiamare il contesto; la critica; dare agli studenti spunti ermeneutici per una loro, personale, lettura del testo. Leggere l’Elogio della follia, il Simposio, Al di là del bene e del male… sentire Erasmo, Platone, Nietzsche dalla voce dell’insegnante è un’esperienza unica che solo la scuola può dare. “C’era una volta un Paese dove l’insegnante faceva lezione. Latino, greco, filosofia… si studiavano con passione. Era la buona scuola del passato. Formava persone. I migliori medici, ingegneri, giuristi, che occupano posizioni di rilievo nell’Italia di oggi, hanno studiato nella vecchia scuola di una volta; sono affermati professionisti ma ricordano il liceo: la severità e la comprensione; il silenzio, quando a parlare erano i classici, mediati dalla voce dell’insegnante.Ricordo il timbro, l’intercalare, le pause, puntuali, precise del mio professore d’italiano. Una presenza che ha avuto un ruolo nella mia vita”.
Mi scuso per
l’autocitazione, ma quando leggo della necessità dello smartphone
in classe sento che si esagera. E’ vero il contrario, cara ministra
Fedeli, proprio perché smartphone telefonini eccetera sono la
quotidianità dei ragazzi, la scuola deve offrire altro: strumenti
critici, motivazione, passione per i libri, veicolati dalla parola
dell’insegnante, da quella corrente emotiva che Gentile riteneva
essenziale nel rapporto docente-discente.
La scuola gentiliana è
criticabile, certo, per il carattere elitario; ma il filosofo coglie
il punto quando osserva che il docente “rivive e trasfigura nel
vivo fuoco dell’atto di insegnare i contenuti delle discipline”
(altro che smartphone!). Ci pensi, ministra, prima d’introdurre una
novità che cambia il senso della lectio in classe. Non ho nulla
contro la tecnologia. Oggi, però, si tratta di capire se la scuola
debba educare alla riflessione, alla profondità, o veicolare
l’accettazione superficiale e supina dell’esistente abbellita
dalle immagini a colori di uno smartphone.
Il Fatto – 16 settembre
2017
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