Anticipazioni
Vincenzo Consolo, scritti sulla mafia
Esce
il 20 settembre per Bompiani una raccolta di testi giornalistici del narratore
Contro la mafia un’appassionata militanza civile, innescata da un’antica esortazione
Contro la mafia un’appassionata militanza civile, innescata da un’antica esortazione
CORRADO STAJANO
«Adesso odio il paese, l’isola, odio
questa nazione disonorata, il governo criminale, la gentaglia che lo vuole...
Odio finanche la lingua che si parla...». È un’invettiva con cui Vincenzo
Consolo apostrofò la sua amata/odiata Sicilia in una pagina di Nottetempo,
casa per casa, il romanzo che nel 1992 vinse il Premio Strega. Pubblicata
negli anni Novanta anche dalla rivista siciliana «Euros» (ora scomparsa), è
ripubblicata ora dall’editore Bompiani nel libro che sta per uscire: Vincenzo
Consolo, Cosa loro. Mafie tra cronaca e riflessione, che raccoglie una
vasta selezione degli articoli giornalistici dello scrittore nato nel 1933 a
Sant’Agata di Militello, nel Messinese, morto a Milano nel 2012.
Sessantaquattro articoli, scelti a cura di Nicolò Messina. Un romanzone nero di
perenne attualità, purtroppo, sulle amare, spesso truculente vicende
dell’isola, protagonista la mafia.
Ha scritto Cesare Segre nel
Meridiano Mondadori uscito due anni fa che «Consolo è
stato il maggiore scrittore italiano della sua generazione. La sua scomparsa ha
turbato tutto il quadro della narrativa nel nostro Paese, rimasto senza un
punto di riferimento alto e, per me, indubitabile». Ma Consolo che si definiva
«archeologo della lingua», musica dei suoi libri, si potrebbe dire, trapanatore
di ogni parola, conosce bene, e rispetta le differenze che esistono tra la
scrittura dei suoi romanzi e la scrittura di un articolo di giornale che deve
essere limpida e chiara, testimonianza veritiera del fatto che racconta.
Amava molto il giornalismo, Consolo. Fu la sua seconda natura, politica e civile, di pronto
intervento spesso, e anche miniera d’invenzione. Alla metà degli anni Settanta
del Novecento, quando tutta l’Italia era ribollente di violenza e di passione —
non era ancora uscito il suo meraviglioso romanzo Il sorriso dell’ignoto
marinaio — pensò persino di fare il giornalista di professione.
Scrisse molto sui giornali. Per decenni collaborò all’«Ora» di Palermo, quotidiano
coraggioso e ribelle dove per sei mesi, nel 1975, lavorò, piccolo inviato, in
redazione. Scrisse poi su «Tempo illustrato», sul «Messaggero, sul «Corriere
della Sera», sull’«Unità», sul «Manifesto». Non si ritraeva mai anche quando
gli veniva chiesto un articolo su fatti sanguinanti appena accaduti. Sapeva
nutrire le notizie con la sua profonda cultura.
Protagonista di Cosa loro è
dunque la mafia del passato e del presente che
Consolo visita e rivisita con perenne angoscia e dolore. Perché questa cappa di
morte, sembra chiedersi a ogni riga, deve pesare da più di un secolo sulla
Sicilia un tempo incontaminata? «Com’è possibile che qui, in quest’isola di
tanta storia, di tanta cultura, di tanta civiltà ci possano essere mafiosi,
criminali spietati, autori di efferati delitti, di stragi?». Un’ossessione, un
tormento.
Gli articoli si incastrano l’uno
nell’altro e creano un unicum tra le narrazioni di
bellezza dei luoghi e, troppo spesso, di morte: il mare color del vino, le
eredità della Storia, gli Angioini, gli Aragonesi, i re di Castiglia, le
cupoline arabe color rosso sangue di San Giovanni degli Eremiti, la cattedrale
di Palermo che custodisce i sarcofagi romani e le urne di porfido di re e
imperatori, Federico II e Costanza d’Aragona, e poi lo Spasimo, la chiesa
cinquecentesca dei padri olivetani senza più il soffitto, ma affascinante, lo
Steri, il palazzo dell’Inquisizione, e anche i quartieri marcescenti, la Kalsa,
Ballarò, la Vucciria, il Capo, il mondo delle zolfare, posto di lavoro e di sopraffazione
padronale, il degrado dell’isola dove le case, nell’ultimo mezzo secolo,
indifferenti o complici i governanti, sono state costruite sulla sabbia del
mare. «Un paradiso abitato da diavoli».
Ma è la mafia la vera prima attrice
del libro. Consolo scrive di Riina, dello
stalliere Mangano, degli andreottiani di Palermo, Lima, i Salvo, non si dà
pace. Racconta quando, ragazzetto decenne, accompagnò il padre commerciante su
un vecchio camion Fiat 621 e a Villalba conobbe un tale che si chiamava don Calò
Vizzini, «un vecchio laido, bavoso». Il maresciallo dei carabinieri del paese
aveva vietato al signor Consolo di caricare un sacco di lenticchie, don Calò lo
autorizzò. «Hai visto», gli disse il padre, «da queste parti il capomafia
comanda più dei carabinieri. Scrivilo, scrivilo a scuola». Vincenzo gli ubbidì
per tutta la vita.
Il libro è ricco di fatti noti e
anche dimenticati. Lo sbarco degli Alleati in
Sicilia, nel 1943, con il contributo essenziale di Cosa nostra, Portella della
Ginestra, il bandito Giuliano, Pisciotta, le bugie istituzionali, la
consapevolezza che la mafia non è una normale organizzazione criminale
debellabile dalla repressione della polizia, ma è un altro Stato, con le sue
leggi di rovina e di morte. È una continua constatazione per Consolo: «Chi ha
uso di ragione, possesso di cognizione, sa che la mafia, questa mala pianta,
questo olivastro infestante e devastante, è nata in Sicilia per il ritardo
storico in cui l’isola è stata tenuta, per l’ingiustizia a danno di essa
costantemente perpetrata, da dominazioni, governi, da ottuse cieche caste di
privilegio e sopruso; sa che in Sicilia la mafia si è sviluppata con
l’abbandono, con l’assenza dello Stato, con la connivenza, l’aiuto di regimi
politici, di poteri statali insipienti o corrotti».
La mafia umilia e infama nel mondo la Sicilia della storia, della cultura, dell’arte, della
filosofia, del diritto, scrive Consolo raccontando i terribili anni
Ottanta-Novanta del Novecento, quando tutto sembra perduto, quando una
impressionante catena di assassinii — magistrati, politici, uomini dello Stato,
carabinieri poliziotti, piccoli industriali — insanguina Palermo, città
d’Italia e d’Europa: Piersanti Mattarella, Cesare Terranova, Rocco Chinnici,
Boris Giuliano, Libero Grassi, Ninni Cassarà, Gaetano Costa e poi Pio La Torre
e Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Dopo l’assassinio del generale pare
che si apra un tempo di speranza in cui anche
Consolo crede. Falcone, Borsellino, altri giovani magistrati sembrano
rappresentare allora la Sicilia che crede nella legge, nella libertà, nello
Stato di diritto e si battono per una vera giustizia. Nasce dal loro lavoro il
maxiprocesso che inizia nel febbraio 1986 nell’aula dell’ Ucciardone contro
Abate Giovanni + 706, i capi della mafia e i gregari assassini che saranno
condannati nei tre gradi di giudizio. Sembra l’inizio di una nuova era, quella
degli italiani onesti.
È davvero così? La mafia nella storia non si dà mai per vinta e anche
allora non dimentica il 16 dicembre 1987, data della sentenza definitiva della
Cassazione.
La vendetta arriva nel 1992, il terribile anno dell’assassinio di Falcone e di
Borsellino. Il popolo di Palermo quell’estate si ribella, passa insonne le
notti nelle strade, nelle piazze, appende alle finestre e ai balconi lenzuola e
panni bianchi. È il suo modo di dire no, di chiedere giustizia.
Non è finita. Il 15 settembre 1993, nel quartiere di Brancaccio, viene assassinato don Pino
Puglisi, il parroco della chiesa di San Gaetano: «Un uomo, don Pino — scrive
Consolo — in lotta contro i non uomini, i mafiosi e i sicari del quartiere, per
salvare i bambini e i ragazzi da un destino di violenza, di illegalità, di
miseria e ignoranza, di inciviltà».
Fino alla morte Vincenzo Consolo avrà nel cuore quegli uomini che si sono battuti allo
spasimo, caduti nella lotta alla mafia: «Sono loro — scrive — l’onore di
Sicilia e di tutto questo nostro paese irriconoscibile e irriconoscente».
CORRADO STAJANO
CORRADO STAJANO
Recensione ripresa dal CORRIERE DELLA SERA del 17 settembre 2017
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