Al Musée Maillol di
Parigi, una mostra sul grande mercante d'arte Paul Rosenberg. Amico
di Picasso, Braque e Matisse fra le due guerre, figura avventurosa di
borghese ebreo, fu perseguitato dal nazismo e emigrò a New York .
Federico De Melis
Paul Rosenberg,
avanguardia e terrore a rue La Boétie
«Siamo introdotti
in una stanza immensa, soffitto alto, pareti spoglie, luce nuda, una
stanza dove i tendaggi di un bruno severo incombono sul
raccoglimento, dove due poltrone solitarie rivestite di velluto scuro
vi tendono le braccia come due Giudici dell’Inquisizione; no, non
vi tendono le braccia, vi prendono alla gola, come fanno i veri
capolavori. Uragani di solitudine, di austerità, attraversano questa
stanza. Siete presi dal gusto dell’Inesistenza, l’inesistenza di
tutto ciò che non sia superficie dipinta (…)
Paul Rosenberg: è
vestito di nero. Ha un volto nervoso da asceta o da uomo d’affari
appassionato»: così Tériade, l’editore d’arte, descriveva nel
1927 la galleria parigina di 21, rue La Boétie, e il suo
proprietario e cerimoniere Paul Rosenberg, uno dei grandi mercanti
d’arte del ventesimo secolo, colui che, dal 1918 al 1939,
rappresentò Picasso e le sue svolte stilistiche, succedendo (a parte
l’intermezzo di Léonce Rosenberg, di Paul fratello) a Daniel-Henry
Kahnweiler, che aveva segnato il lancio della stagione cubista, e
che, dopo la Seconda guerra, si riprenderà il «maltolto»,
ricostituendo col malaguegno il tandem di gioventù, fino alla morte
del pittore nel ’73.
Con « Pic», Paul Rosenberg stabilisce una relazione particolare, che, pur senza mai derogare dai ruoli professionali, e anzi proprio in virtù della loro fatalità, diviene comunione di spiriti, leggera, disincantata, più che austera secondo le parole di Tériade: un modello ideale del binomio artista-mercante in quell’entre-deux-guerres che stabilizzava i termini di una nuova maniera, moderna, di intendere il commercio dell’avanguardia, secondo i precetti dei fondatori della « disciplina» Paul Durand-Ruel e Ambroise Vollard. Libero dalla cerimoniosità ottocentesca (che, del resto, ne potenzia il fascino), più secolare nell’interpretare i meccanismi di una dinamica che ambiva, ormai, alla dimensione internazionale, il rapporto fra Rosenberg e Picasso sembra esemplarsi, per esclusività di intendimenti e curiosità di avventura umana, su quello Vollard-Cézanne.
Il libro della nipote Anne Sinclair
Al nonno materno Paul Rosenberg aveva dedicato un libro, preciso come ricostruzione d’ambiente, toccante nel coinvolgimento affettivo, la valente giornalista francese Anne Sinclair. Decide, nel 2010, di riprendere il filo di una storia familiare da lei quasi ignorata: il la, un episodio a suo danno di ossessione amministrativa che le ricorda, nell’anno dell’ascesa di Marine Le Pen, che «la nazionalità francese, anche quando la si è sempre avuta, non è mai scontata». Perché la vita del nonno di Anne, figlio di ebrei di Bratislava radicatisi a Parigi, fu funestata, come vedremo, dal nazismo e da Vichy. Uscito nel 2012 per Grasset & Fasquelle (in Italia, nello stesso anno, per Skira), il libro di Anne Sinclair è alla base, oggi, fino al 23 luglio, di una mostra al Musée Maillol di Parigi, dopo una prima tappa a Liegi. Titolo, lo stesso: 21, rue La Boétie.
Al numero 23 della stessa via, ricordiamolo, si stabilì, abitazione e atelier, Pablo Picasso, da poco sposatosi con Olga: una scelta suggerita proprio da Rosenberg, che negli stessi giorni – autunno 1919 – allestisce in galleria la mostra di disegni inediti con la quale l’artista rende pubblica la sua svolta neoclassica, maturata durante il viaggio in Italia per Parade (su Parade si può ancora vedere, fino al 10 luglio, la mostra di Napoli-Pompei).
È un battesimo: al
contrario del fratello Léonce, che durante la guerra aveva
confermato Picasso nel suo canone cubista, Paul intuisce l’enorme
ricchezza, multidirezionale, di possibilità formali che nasconde
l’inquietudine di Pablo, e se ne fa interprete commerciale al più
alto livello. Gli ricorda, diremmo, che prima di diventare il pittore
della scomposizione su base cézanniana e africana, aveva avuto il
periodo blu e il periodo rosa, e prima ancora il periodo Toulouse.
Cioè, gli suggerisce e quasi sibila all’orecchio, che Picasso è
Picasso, non sopporta di essere ingabbiato in una sola maniera e ha
bisogno di esplodere.
Viene a realizzarsi così,
anche su spinta di Rosenberg, il pittore-marchio, che stravolge le
consuetudini storiciste, la cui persona finisce per fare aggio,
titanicamente, sulla contingenza del «prodotto». Niente di simile
per Braque, Léger, Matisse, i maestri che Rosenberg imbarca via via
tra anni venti e anni trenta, secondo una formula di contratto che
gli garantisce l’esclusiva, via prelazione, sulle opere migliori.
Addio al romanticismo
di Vollard
Opere migliori: in mostra non si tarda a capire come il cuore della strategia di Rosenberg sia un criterio di qualità assoluto, tutto centrato sull’opera in quanto opera, che brucia i residui di quel romanticismo delle origini caratteristico dell’avventurosità sorniona di Vollard. Il «compro tutto» tipico di Vollard non è nelle corde di Rosenberg, così come nulla spartiscono il piccolo covo, disordinato, odoroso di piatti d’Oltremare, di rue Laffitte, dalla maestà degli interni di rue La Boétie.
Da Baigneur et
baigneuses, 1921, uno dei vertici del neoclassicismo mediterraneo di
Picasso, a Nu couché, 1935, del Braque più monumentale (opere
entrambe prestate dal dealer libanese a Monaco David Nahmad),
dalle Trois Femmes (Grand Déjeuner) di Léger, 1921-’22,
a La leçon de piano di Matisse, 1923, la teoria delle
opere appartenuta a Rosenberg che è possibile vedere al musée
Maillol indica il raggiungimento perfetto dell’identità
gusto-qualità, con un preciso risvolto sociologico: poco lo spazio
concesso al piccolo-medio collezionista baudelairiano in cerca di un
sapore; piena cittadinanza, invece, al magnate che vuole riscattare
spiritualmente la brutalità del proprio operato (ma il materialismo
tornerà a bussare alla porta in veste di status).
Non sfugge una precisa consonanza di Rosenberg con Durand-Ruel, l’epico mercante degli impressionisti, che era stato oggetto di una mostra al Musée du Luxembourg (poi a Londra) nel 2014-’15. Si tratta della capacità di tenere insieme tradizione e modernità, gusto del pubblico e innovazione. Durand-Ruel aveva capito per tempo che non avrebbe potuto sostenere gli amati impressionisti senza battere, contemporaneamente, sul mercato più facile, che nella sua stagione voleva dire Corot e la scuola di Barbizon. Allo stesso modo, Rosenberg «finanzia» le sue passioni novecentesche con il commercio degli impressionisti, divenuti nel frattempo spendibili.
Gli fu naturale perché
manteneva nei confronti di questi ultimi, e di Renoir soprattutto,
l’amore nutrito dal padre Alexandre, che, una volta a Parigi,
trasformato il commercio di granaglie in commercio di oggetti d’arte
e curiosità, sua vera passione, aveva trascinato i due figli, Léonce
e Paul, in quest’avventura, poi divenuta spina dorsale di uno dei
grandi capitoli dell’«effort moderne».
L’idea di Paul è che
per rendere comprensibili ai più le opere dell’avanguardia le si
debba presentare nella loro continuità storica con quelli che nel
frattempo sono divenuti i classici dell’Ottocento: lo spettro della
sua proposta va da Delacroix a Picasso, come dimostra l’insieme
delle celebri esposizioni, tirate a lucido e filologicamente
impeccabili, di rue La Boétie (un’altra voce-discrimine della sua
strategia).
Oskar Kokoschka
Inquieto intermezzo a Floirac
Quando, il 4 luglio 1940, l’ambasciatore del Reich Otto Abetz fa perquisire dalla polizia il palazzo di rue La Boétie e confiscarne le opere, Paul Rosenberg, di famiglia ebraica come altri grandi mercanti o collezionisti di stanza a Parigi (Bernheim-Jeune, Kann, Seligmann, Wildenstein), è già al riparo, con l’intera famiglia, a New York, dopo un inquieto intermezzo a Floirac, vicino Bordeaux, nella zona franca.
Decisivo, per ottenere i
visti, il vecchio amico Alfred Barr, dal ’29 direttore del MoMa,
con cui, nel periodo immediatamente precedente, Rosenberg aveva
collaborato alla realizzazione della prima grande mostra di Picasso
in America.
In vista del possibile
esilio, il mercante ha disposto la messa in sicurezza di una parte
del suo patrimonio, ma quattrocento opere, tutti capolavori, vengono
sequestrate, in quanto arte «degenerata» che, messa sul commercio,
dovrà servire alle casse del Reich. La buia circostanza evidenzia in
Paul una forza etica, sostenuta dalla cultura democratico-socialista
in cui si è formato, che pochissimi dei suoi colleghi, più portati
al compromesso, condividono. Paul non si risparmia nell’ammonire
mercanti e musei a rifiutare proposte d’acquisto dolose, la
partecipazione ad aste manovrate dai nazisti.
Con quanto successo lo si
può capire dinanzi all’enorme numero di opere sospette che ancora
oggi circolano sul mercato o, anche, arricchiscono le collezioni
pubbliche. È il caso, in mostra, del Profil bleu devant le cheminée,
un Matisse del 1937 di proprietà Rosenberg che, razziato da Hermann
Göring in persona, solo nel 2014 è stato riconosciuto nel centro
d’arte norvegese Henie Onstad e subito restituito alla famiglia.
Delle opere trafugate a Rosenberg, ancora cinquanta restano da rintracciare, se mai succederà. Qualcuna può essere andata in fumo nello stregonesco falò di dipinti marchiati EK, Entartete Kunst, arte degenerata, organizzato dai nazisti alle Tuileries il 27 maggio (o 23 luglio) 1943. Nella sua capillare ricerca sentimentale, Anne Sinclair dà conto di tutto questo: si stagliano le pagine su quell’atroce nemesi che fu la trasformazione della galleria di rue La Boétie nell’Institut d’Étude des Questions Juives (IEQJ).
Nel 1941, mentre Paul
Rosenberg rimette in moto la sua attività oltreoceano aprendo una
sede sulla 57ma Strada, con l’idea, un po’ alla Durand-Ruel, di
convincere alla modernità i collezionisti americani, nel vestibolo
della galleria parigina viene installato il ritratto di Philippe
Pétain, capo del governo collaborazionista di Vichy, sotto una frase
che inizia: «gli ebrei sono come una colonia asiatica stabilitasi in
Francia».
È documentato in una
delle fotografie della vergogna che scandiscono in mostra, su scala
gigante, questo tenebroso capitolo della vita dei Rosenberg. Invitato
di riguardo all’inaugurazione dell’IEQJ fu la «canaglia»
Céline, il quale in una lettera dell’ottobre ’41 si lamenta
perché, nel bookshop antisemita dell’istituto, «pieno di libretti
insignificanti», non figurano i suoi romanzi: bagattella per un
massacro.
Stordisce vedere come la
grande stanza a luce cruda, spiovente dal soffitto vetrato, che
accoglieva un tempo l’infilata delle opere di Picasso, di Braque,
di Léger, di Matisse, componendo una specie di mistica della
modernità, sia stata invasa dai rumorosi festeggiamenti dei
dignitari nazisti e collaborazionisti, sotto il manifesto
dell’«uccello da preda ebreo» che sbrana la Francia esangue. E
stordisce il paragone, parete contro parete, fra i gioielli
modernisti di casa Rosenberg e le tele dell’Accademia tedesca, qua
convenute a documentare la trista estetica hitleriana.
Il Manifesto/Alias – 2
luglio 2017
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